BRUNO COTRONEI E I SUOI LIBRI
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 L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine

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Bruno
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MessaggioTitolo: L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine   L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine EmptyMar Dic 30, 2008 2:17 pm

CAPITOLO XXVI
A Roma cambiai treno e presi il letto per Parigi. Durante
tutto il tragitto da Napoli avevo ricordato quei dieci vertigi-
nosi giorni che avevano preceduto la partenza. I colloqui, le
telefonate a Garofani e Buonacasa, che si erano dimostrati
veramente comprensivi e amici, le intense e indispensabili
visite a clienti con il fidato Artini al seguito che sarebbe ri-
masto a collaborarmi, il licenziamento di Magistrati, forse
più capace, ma anche più infido. Le raccomandazioni ad
Anna di inviarmi per posta tutte le lettere più importanti e
il tener nascosto a tutti quella mia lunghissima assenza, ma
mascherarla con miei continui e brevi viaggi di lavoro. Le
visite al parroco e al comune per "dare parola", necessaria
premessa al matrimonio programmato per un giorno anco-
ra non precisato di settembre. Il consuntivo e la program-
mazione economica per la mia azienda che si riduceva a
due persone presenti a Napoli e a me che avrei diretto il tut-
to così da lontano.
Ero preoccupato e mi sentivo pieno di responsabilità, ma
a Roma avvenne il miracolo. Cosa mi importava di tutto?
La CondizionalAcustica e la SOFIRI mi avrebbero sicura-
mente atteso e la Ricci con le altre del settore macchine po'
teva anche protestare il contratto. Che danno ne avrei avu-
to? Ormai la prima aveva assolto al suo compito. Non avevo
ampiamente dimostrato in quei mesi di valere e parecchio e
ben al di là di quanto io stesso mi aspettassi? E allora? Ep-
poi sarei tornato con ben altra qualificazione. Il futuro, e
259
un futuro enormemente più prestigioso, era assicurato.
Dimenticai tutto. Avrei visto Parigi e Londra e avrei cono-
sciuto tanta altra gente. Avrei fatto nuove esperienze e
avrei realizzato quello che mi proponevo. L'indipendenza
dai miei, ora non solo finanziaria ma anche fisica, e il ma-
trimonio. Che volevo di più?
Il sonno fu lungo e tranquillo. Il rumore delle ruote sui
binari e il dondolio ritmico mi cullavano. Mi svegliai in
gran forma. Ero già in Francia. Il treno correva fra campa-
gne fertili e ben curate. In lontananza vedevo strade larghe
e pianeggianti. La giornata era calda, il cielo leggermente
coperto. Mi vestii e mi trasferii nella vettura ristorante do-
ve consumai una gustosa prima colazione. Il personale era
francese e io non conoscevo quella lingua, ma notai con pia-
cere che riuscivo lo stesso a farmi intendere con l'aiuto di
un piccolo prontuario, o parlando inglese o accentando
sull'ultima sillaba le parole italiane.
Poi finalmente i sobborghi della grande città, la capitale
dell'ex impero napoleonico. Cercai di scorgere la Torre Eif-
fel che ero certo si dovesse vedere, con i suoi trecento metri
di altezza, da ogni parte, ma non vi riuscii. Forse non mi
rendevo conto che Parigi non è Napoli, ne Roma, ne Milano,
ma di tanto più estesa.
Il treno si fermò alla Gare de Lyon. Che brutta stazione e
che piazza triste! Che differenza con quella di Roma! Ma
ero a Parigi. Ero lontano da casa e dalle preoccupazioni che
avevo scaricato tutte a Roma. Come mi sentivo bene, forte e
giovane e che desiderio di donne! Ero in Francia e le france-
si erano note in tutto il mondo per la loro avvenenza e la lo-
ro-disponibilità. Mi guardai intorno alla ricerca di belle ra-
gazze, ma per la verità quelle che vidi erano perlomeno de-
ludenti. Presi un taxi e mi feci condurre all'ufficio della CIT
in Boulevard des Italiennes. Le strade erano immense, pie-
ne di traffico e di pedoni. Meganegozi con vistose insegne e
ricchi di colori. Com'è più colorata la Francia dell'Italia. Da
noi predominano tinte tradizionali e toni tenui. Qui un
grande uso di giallo, rosso e blu.
260
All'ufficio della CIT, spazioso e frequentatissimo con del-
le graziose hostess in divisa blu, mi indicarono un albergo
gestito da italiani il cui costo non era eccessivo. Con un al-
tro taxi, attraversando Piace de l'Opera con il monumenta-
le teatro, imboccammo una via sterminata, Rue de La
Fayette e dopo un paio di chilometri svoltammo a sinistra
in un piccolo largo dove vi era l'hotel Bouden. La stanza era
antica e piuttosto modesta, ma accogliente e con un lettone
monumentale. Mi ci gettai sopra e, in un eccesso di entusia-
smo, ci rimbalzai più volte. Mi sembrava di essere tornato
bambino, ma non erano certo da bambino le idee che mi
procurò. Come era comodo e come ci si doveva fare bene
l'amore. Certo i francesi hanno posto particolare attenzio-
ne ai loro letti. Devono essere quanto di meglio può esistere
per fare l'amore tante e tante volte. Guardai l'orologio.
"Perbacco pazzo! Debbo telefonare alla Goubeline. È
quasi ora di chiusura".
Chiamai e chiesi del dottor Rossini. Questi, mi avevano
informato da Milano, doveva assistermi durante il mio sog-
giorno. Il centralino, il passaggio da ufficio a ufficio, segre-
tarie e funzionari, scatti continui delle tante linee interne
mi diedero subito l'idea di ufficio colossale. Infine una voce
con un accento veneto. Era Rossini. Fu gentilissimo, forse
anche troppo. Mi disse che sarebbe venuto a prendermi di lì
a un'ora.
Era un pezzo d'uomo nerboruto e alto con un volto da
bambino e una cortesia quasi servile. In un fiume di com-
plimenti, mi fece salire nella sua comoda Citroen e mi con-
dusse a casa sua, in una palazzina dalle tinte vivacissime
che si trovava in una strada dalla quale si scorgeva il Bois
de Boulogne, il grande parco di Parigi. Sulla soglia fui rice-
vuto da una donna giovane, non particolarmente bella, con
un volto illuminato da un enigmatico sorriso. Era sul tipo
Juliette Greco e si chiamava Josephine. Era nata a Parigi,
ma da genitori italiani e parlava la nostra lingua in modo
quasi perfetto.
A cena i due mi raccontarono tutto di loro. Paolo Rossini
261
era nato a Padova, era divenuto funzionario della Van Gogh
e poi era stato trasferito a Parigi alla Goubeline da ormai
sei anni. Si occupava dei collegamenti fra le due società. Da
cinque anni aveva sposato la ventottenne Josephine. Non
avevano avuto figli. Josephine era stata segretaria presso
studi legali, ma ormai da quattro anni, da quando Paolo
guadagnava di più, eseguiva solo qualche lavoro di dattilo-
grafia a casa. Sia l'uno che l'altra volevano assolutamente
che io fossi ospite loro durante il mio soggiorno parigino.
Non volevo. Desideravo rimanere libero. La mia ansia di
libertà era sempre più forte. Cercai disperatamente di far-
glielo capire, ma i due insistevano con energia ed io con al-
trettanta energia, cercando di non offendere la loro sensibi-
lità, feci di tutto per far comprendere loro il mio punto di
vista. Stavo per spuntarla quando la lunga, curatissima e
sensuale mano di Josephine mi carezzò il volto con dolcez-
za e calore.
"Vuole forse offendermi? Tutti gli amici di Paolo sono
anche i miei e tutti sono stati ospiti qui. Rimanga, su, Gian-
ni".
Gli occhi neri mi fissavano come se volessero penetrarmi
nel cervello, nel cuore, nelle budella e contemporaneamen-
te una lunga gamba si fregò contro la mia. Subito mi ecci-
tai. Era una parigina che me lo chiedeva e in quel modo!
Accettai e programmammo che la sera successiva avrei
trasferito i miei bagagli dal Bouden a casa loro.
Dopo cena mi portarono in giro per Parigi e la "Ville Lu-
mière" mi conquistò subito. Quante luci, che strade immen-
se, che piazze, che sensazione di Metropoli! Piace de la Con-
corde con il Louvre e l'Obelisco, la Madeleine, gli Champs
Elysées, l'Arco di Trionfo, la Senna, Piace Venderne, Pigalle
illuminatissima con le decine di locali, i Caffè, i meraviglio-
si Caffè di Parigi, frequentatissimi fino a tarda notte. Ero
ubriaco di luci e di movimento, ma non notai donne parti-
colarmente belle. Però Josephine che sedeva tra me e il ma-
rito era morbida, calda e forse disponibile. Era in stretto
contatto con me. Mi toccava e accarezzava con il marito
262.
presente. Forse così si usa a Parigi, chissà!
Rossini venne a prendermi al Bouden e mi condusse alla
Goubeline che occupava un intero grattacielo nei sobbor-
ghi di Parigi. Se gli uffici della Van Gogh mi avevano fatto
una grande impressione, quelli della Goubeline erano l'im-
magine evidente della colossalità. Migliala di impiegati, sa-
le smisurate, uso senza risparmio di alluminio, di doghe,
controsoffittature, plafoniere; condotti per aria condizio-
nata, centinaia dì tavoli da disegno, la sala delle telescri-
venti, dirigenti di fronte ai quali i nostri facevano la figura
di impiegatucci e dovunque ricchezza ed efficienza. Ma an-
cor più della sede mi impressionò lo stabilimento, stermi-
nato quasi quanto quello della FIAT a Torino e particolar-
mente il settore destinato a laboratori e studi che occupava
da solo oltre diecimila metri quadrati e cosa vidi e cosa mi
illustrarono! Le fibre di vetro sembravano appartenere alla
preistoria; poliuretani espansi, fibre di amianto, particola-
ri polistiroli espansi a coefficiente di conducibilità estre-
mamente bassi ottenuti a mezzo di speciali estrusioni. Pic-
cole case coibentate in un habitat dove erano procurate ar-
tificialmente tutte le possibili condizioni climatiche, rumo-
ri aerei e di percussione, soluzioni speciali per impianti
idraulici e strutture in cemento armato, pannelli fonoas-
sorbenti con particolari doti di esteticità e tutto ciò solo al-
lo stato sperimentale. Forse sarebbero stati immessi in
commercio dopo anni o addirittura mai.
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine   L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine EmptyMar Dic 30, 2008 2:18 pm

Conobbi gli altri cinque borsisti e mi accorsi con piacere
che ero il più giovane e l'unico che non era ancora laureato.
L'insegnante era francese, ma ognuno di noi aveva a dispo-
sizione una tràduttrice simultanea. L'altro italiano era un
ingegnere torinese di oltre trent'anni che aveva frequentato
la Normale di Pisa. Sembrava un topo di biblioteca, ma non
riusciva ad emergere sugli altri e nemmeno su di me. Certa-
mente non mi sentivo più il dominatore come lo ero stato
nei dieci giorni di Milano nei confronti di quei poveri corsi-
sti affidati a Sassi, ma nemmeno l'ultimo. Quante cose im-
parai in quei giorni, e dire che non mi trovavo in quella con-
263
dizione ascetica che i dieci giorni milanesi mi avevano pro-
curato. Parigi e Josephine me lo impedivano.
Quasi ogni sera i coniugi Rossini mi portavano fuori. Co-
nobbi il Lido, con il suo fantasmagorico spettacolo, il Mou-
lin Rouge, con una rivista giapponese, il Casino de Pans
con Line Renaud, il fantastico Crazy Horse con i suoi spo-
gliarelli artistici, il Sex Appeal, la Nouvelle Ève, gli Apa-
ches e il Can Can. Mi portarono a visitare di domenica Ver-
sailles che non mi impressionò più della Reggia di Caserta e
il Louvre, con i suoi tesori d'arte e la zona riservata agli Im-
pressionisti. Ricordai che Parigi dal 1880 al 1940 aveva co-
stituito il centro mondiale dell'arte visiva. Tutti i più gran-
di pittori vi erano confluiti, da Picasso a Braque, da De Chi-
rico a Mondrian, dai dadaisti ai surrealisti. Ma quello che
mi sorprese di più fu il comportamento di Josephine.
Questa parigina, dopo i primi giorni nei quali si era limi-
tata e essere cortese e affettuosa con me, a darmi bacetti
amichevoli, abbracci e carezze, una notte scivolò nel mio
letto e mi costrinse quasi a forza a fare l'amore con lei. La
mia camera era adiacente a quella dove dormiva la coppia e
io le chiesi preoccupato se il marito potesse sentire. Lei,
con un sorriso mefistofelico, mi disse di stare tranquillo.
Paolo aveva il sonno duro. Non avrebbe sentito e poi, anche
se ciò fosse avvenuto, cosa importava? Come cosa importa-
va! È vero che eravamo in Francia, ma il troppo era troppo
eppoi quei due erano in definitiva italiani!
Dopo quella notte, Josephine per tutte le altre prese l'abi-
tudine di venire a trascorrere un'ora o due da me e faceva-
mo follemente l'amore. Lei, ed anche io, eravamo insaziabi-
li. Non avevo mai conosciuto un'amante così calda ed
esperta, ma era anche saggia e cosciente che io ero lì per un
corso di studi impegnativo, per cui a un certo momento mi
diceva:
"Basta, amore, pensa ai tuoi studi".
Era un soggiorno bellissimo e di pieno appagamento sot-
to tutti i punti di vista, ma un giorno avvenne una cosa che
mi sconvolse!
264
Era di domenica pomeriggio ed io, seguendo il suggeri-
mento di Paolo, mi ero recato a riposare nella mia stanza. A
un certo momento la porta si aprì ed entrò Josephine in ca-
micia da notte tutta veli e trasparenze. Si infilò nel letto e,
alle mie obiezioni sulla presenza di Paolo che stava sveglio
a vedere la televisione, lei rispose:
"Gianni, ma ancora non hai capito?"
"Cosa?"                                  . .     „.
"Che io faccio quello che voglio con i miei amici e quelli
di Paolo".                                .
"Sì, questo l'ho capito, ma lui non lo sa. E un uomo mo-
derno che forse si fida della sua compagna".
Mi guardò con un senso di superiorità affettuosa, mi sor-
rise e mi costrinse ad alzarmi e a seguirla nella stanza vici-
na, quella matrimoniale. Qui, da una specie di quadro, si
poteva vedere il mio letto. Sembrava come in un film poli-
ziesco. In corrispondenza, nella mia stanza vi era uno spec-
chio. Ero stupito e mortificato e non sapevo più cosa pensa-
re. Josephine aggiunse:
"Non ti sei mai chiesto perché ho voluto fare l'amore
sempre con la luce accesa?"
"Pensavo che preferissi così".
"Anche, ma la ragione ora la puoi capire".
"Vuoi dire che Paolo guardava?"
"Certo, a lui piace così. Guarda, si eccita e poi facciamo
l'amore".
"E a tè piace?"
"Perché no. Sono stata io che l'ho spinto a tare cosi .
Mi trasse con la mano verso il salotto. Eravamo entrambi
quasi nudi. Josephine con aria di trionfo e particolarmente
eccitata, allacciò e baciò voluttuosamente il marito che non
osava guardarmi e disse:
"Vieni, jolie, seguici".
Ci condusse entrambi nella stanza matrimoniale e mi co-
strinse sul letto. Ero legato e bloccato da quella strana si-
tuazione. Ricordai Milano e quello strano trio che avevo vi-
sto a teatro. Lei mi carezzava e mi eccitava. Dimenticai tut-
265
to. Facemmo furiosamente l'amore. Dopo fui respinto e
Paolo prese il mio posto.
La sera in un locale anche noi demmo una rappresenta-
zione del tipo di quella che avevo visto a Milano. Josephine
baciava alternativamente entrambi e le mani stringevano
insieme i nostri sessi.
La mattina dopo come sempre Paolo ed io ci recammo al-
la Goubeline, ma uscimmo di casa prima del solito. Attra-
versando il Bois de Boulogne, il veneto fermò l'auto in un
luogo appartato e, senza guardarmi, straripò in pianto.
Non sapevo che fare e che dire. Mi sentivo sconvolto e pro-
vavo pena per quell'uomo così cortese e gentile. Era strano
vedere quella specie di gigante comportarsi come un bam-
bino. Stavo per dirgli qualcosa e gli posi una mano sulla
spalla. Lui, ancora senza guardarmi, con voce bassa e tesa
rotta da qualche singhiozzo, incominciò a raccontare:
"Vedi, Gianni, quello che è successo ieri ti sarà sembrata
una cosa strana. E lo è. Quando giunsi a Parigi non avrei
immaginato che sarei arrivato a questo. Conobbi Josephine
e mi innamorai di lei in modo pazzesco. Era una donna mol-
to attraente e corteggiata. Aveva avuto, come quasi tutte le
donne qui in Francia, amanti, ma questo lo sapevo e non
chiedevo certo la verginità. La sposai, ma prima lei pretese
che io facessi un giuramento. Sapeva che un uomo solo non
le sarebbe bastato, comunque ci avrebbe tentato. Io però
non avrei dovuto dire nulla se lei di tanto in tanto avesse
avuto un'avventura e io sarei stato libero di fare altrettan-
to. Rifiutai e ci lasciammo. Ma non potevo fare a meno di
lei e accettai. Il primo anno tutto andò bene, poi lei inco-
minciò ad avere avventure che non mi nascondeva. Era nei
patti. Li portava a casa nelle ore di ufficio. Poi un giorno lo
fece anche di sera. Ci fu una grande storia e andai via sbat-
tendo la porta. Ma ritornai e lei incominciò a dirmi se non
pensassi che il fatto che la sua donna fosse così ammirata
ed amata non mi inorgoglisse e mi eccitasse e perché non
provassi a guardare mentre lei faceva l'amore. Mi accennò
che lo facevano in tanti a Parigi. L'idea mi ripugnava e ri-
266
fiutai, ma tu hai visto come ci sa fare e come sa ottenere
quello che vuole. Una sera mi coinvolse e io, disgraziato, ne
provai piacere..." Fu interrotto da un altro accesso di sin-
ghiozzi. "... Pensai di essere un anormale. Andai da uno psi-
chiatra. Questi mi disse che, certo, non era proprio una nor-
malità, ma nemmeno una grande anormalità. Mi mostrò
statistiche e studi e mi dimostrò che vi erano tante forme di
piccole o grandi perversioni. Concluse dicendo che, se mi
faceva piacere, se questo avesse reso i nostri rapporti mi-
gliori, perché non farlo. Se invece ne avessi sofferto psico-
logicamente, avrei dovuto troncare con lei. Dovevo valutare
l'una e l'altra cosa e decidere... Puoi immaginare che perio-
do ho passato e poi maledettamente decisi di sì e mi feci co-
struire lo specchio che sai".
Non mi guardava e non sapevo cosa dire. Benedissi il fat-
to che ormai fra quattro giorni sarei ripartito per l'Italia.
Che strano mondo è mai il nostro! Avevo sentito parlare di
deviazioni sessuali, delle perversioni. Avevo anche letto
qualche libro, ma era la prima volta che, anche se marginal-
mente, ne ero protagonista. Lo incoraggiai. Che altro mi.re-
stava da fare?
"Su, Paolo, in definitiva ne hai parlato anche al medico".
"Ma tu come mi giudichi?"
"Cosa vuoi che possa giudicare".
"Senti, promettimi una cosa, lo farai?"
"Cosa?"
"Ti prego, non accennare ai nostri colleghi a Parigi o a
Milano di questo. Giuramelo".
Ero sollevato.
"Ma certo, Paolo, ci mancherebbe".
Andammo alla Goubeline.
Quegli ultimi giorni a Parigi trascorsero in un gran tur-
bamento e ne risentì anche il mio studio. Josephine era
all'apice della felicità e impazzò più che mai, come e quan-
do voleva, con Paolo sempre presente e costretto quasi a vi-
va forza.
267
Provavo odio e grande attrazione per quella specie di Ape
Regina e non so se lasciai Parigi e la loro abitazione con sol-
lievo o rimpianto. Giurai a me stesso di non mettere più pie-
de in quella casa!
268
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine   L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine EmptyMar Dic 30, 2008 2:24 pm

CAPITOLO XXVII
Ed eccomi a Londra. Qui avrei iniziato il vero corso ri-
guardante la borsa di studio. Mentre a Parigi alla Goubeli-
ne si era trattato di un corso aziendale, anche se ad alto li-
vello presso un'organizzazione gigantesca, ora invece avrei
seguito un corso a carattere universitario e altamente spe-
cializzato nell'ambito dell'ingegneria civile.
Dopo aver lasciato Parigi, ero ritornato per pochi giorni a
Napoli dove mi ero ritrovato come un piede si ritrova e si
distende soddisfatto in una vecchia scarpa. Trascorsi ogni
momento possibile con la mia ragazza che mi accompagna-
va anche in ufficio dove cercai in quattro giorni di sistema-
re tutto quello che si era accumulato durante la mia assen-
za. Non si trattava per la verità di molto e l'attività langui-
va. Il povero Artini aveva cercato di fare qualcosa, ma con
scarsi risultati. Solo la SOFIRI, con il diretto intervento di
Garofani e alla presenza formale del mio collaboratore,
aveva concluso un discreto ordine a Caserta. Poi, dopo ab-
bracci e raccomandazioni, la partenza verso l'isola più im-
portante del mondo.
Del mio lungo viaggio ricordo solo quando sul traghetto
ero in ansiosa attesa di scorgere le famose bianche scoglie-
re di Dover. Ma le mie speranze furono deluse. Eravamo
sbarcati a Folkestone.
Londra non mi accolse per la verità molto bene. Già
all'uscita dell'immane e disordinata Victoria Station le pri-
me difficoltà con la lingua. Parlavo bene inglese in Italia, in
269
Francia e dovunque. Ebbene, nella capitale britannica nes-
suno mi capiva, ne io riuscivo a comprendere alcuno. Le
prime ore furono quasi drammatiche, poi piano piano riu-
scii a prendere orecchio. Giunto all'ufficio CIT nei pressi
della celeberrima Piccadilly Circus, non riuscivo a trovare
una stanza in un qualsiasi albergo o pensione e solo dopo
molti miei sforzi, che cozzavano contro la classica flemma
inglese, mi fecero la grazia di indicarmi una strada dove
avrei potuto trovare un alloggio, anche se provvisorio. Era
una di quelle strade che si distendono a vista d'occhio dove
sorgevano costruzioni a tré piani tutte uguali fra loro, co-
me le avevo viste solo nei films. Erano tutte pensioncine do-
ve non vi erano camere libere. Bussavo ai portoncini che si
schiudevano appena e volti sospettosi mi rispondevano che
era tutto occupato. Per certi versi ricordavano Fontana Al-
banese. Ad una di esse mi aprì una vecchiaccia piccola e
brutta che mi fece cenno di seguirla. Vani stretti e sporchi e
poi in una vasta ma buia cucina posta in un seminterrato
umido, vi era un'altra vecchia più robusta e grassa dell'al-
tra che divorava avidamente, aiutandosi con le mani grosse
e unte, cosce e petti di pollo. Mi guardò e poi disse all'altra
di farmi visitare la stanza, libera. Era di una sozzura davve-
ro unica come non ne avevo mai visto nemmeno nei più pic-
coli paesi dell'interno della Campania, quelli che visitavo ai
tempi della travagliata collaborazione con Mortini. Che
schifo! Avrei preferito dormire all'aperto. Andai via e fortu-
natamente riuscii a trovare una stanza decente. Il tassista
al quale avevo chiesto di aiutarmi a portare le mie tré pe-
santi valigie mi rispose in modo brusco:
"l'm not a porter" e mi piantò lì.
Le proprietario, due giovani donne che sarebbero potute,  '"
apparire migliori se si fossero curate un po', mi chiesero
subito il pagamento anticipato, precisandomi che per una
sterlina avevo solo diritto alla camera e al breakfast. Stan-
co e depresso com'ero, cercai di farmi preparare un tè, be-
ninteso pagando, ma non vi fu verso. Non c'era dialogo. Mi
270
trattavano peggio di come un negro è trattato nel Sud degli
Stati Uniti.
Uscii disgustato e mi recai in centro con l'Underground e
fu la prima cosa decente di cui mi accorsi a Londra che tut-
to sommato prima mi aveva dato l'impressione di una città
sporca non molto meno di Napoli.
Comunque di sera le grandi insegne di Piccadilly Circus,
di Regent e di Oxford Street e i negozi che occupavano inte-
ri fabbricati, le lussuose Rolis Royce che uscivano da stra-
dette con impeccabili autisti e con a bordo passeggeri vesti-
ti da sera, incominciarono a darmi un'altra immagine della
città.
Quando presi contatto, ancora spaesato, con l'istituto do-
ve avrei seguito il corso, provai ancora una delusione. Mi
attendevo di trovarmi in una specie di College con fabbrica-
ti lunghi e bassi immersi nel verde. Invece nulla di tutto
ciò, ma un palazzone vetusto di anni se non di secoli. Anche
le attrezzature erano scadenti, ma, me ne resi conto subito,
un grande rispetto per gli allievi e una lodevole preparazio-
ne e dedizione del corpo insegnanti. In pochi giorni non ve-
devo l'ora di recarmi fra quelle vecchie mura e provavo un
enorme dispiacere quando dovevo andarmene. Le lezioni
erano meravigliose, il dialogo continuo, i testi scorrevoli e
ricchi di esempi pratici. Che differenza con l'Italia!
Fra i corsisti della Goubeline fu gioco forza legarmi con il
torinese, Vittorio Emanuele Gaiottino. La frequentazione
con lui mi portò ad alloggiare in una pensione modesta ma
pulita e contribuì a farmi studiare, studiare, studiare.
Qualche volta riuscii, forzando il suo carattere di vero topo
di biblioteca, a condurlo in qualche locale e la domenica a
fare qualche gita, ma più facilmente ai musei. Visitammo il
British Museum e la National Gallery, ricca di dipinti me-
ravigliosi. Andammo anche al famoso Covent Garden e a
Windsor, quel bellissimo castello ricco di storia e di coraz-
ze. Mi ricordo di essere rimasto particolarmente colpito
per lo stridente contrasto tra la piccolezza dell'armatura di
Riccardo III e l'enormità di quella di Enrico Vili che si evi-
271
denziava per la vicinanza. Anche Eaton mi colpì profonda-
mente con quello sciamare all'ora di libera uscita dei tanti
collegiali, tutti vestiti con quella particolare divisa e tutti
che, nonostante la giovanissima età, cercavano già di confe-
rirsi quell'atteggiamento composto e cohtrollato che gli in-
segnanti si sforzavano di inculcare loro. Di qui quel repri-
mere gli atteggiamenti vivaci o le risate che così natural-
mente nascono fra gruppi di ragazzi. Ricordo il verdissimo
Hyde Park con i suoi tanti viali e le acque lucenti del Ser-
pentine; mentre il Cambio della Guardia davanti a St. Ja-
mes's Palace mi sembrò davvero ridicolo, con quel rituale
che manda in visibilio gli inglesi e i turisti, che non è più
consono al nostro caotico e nevrotico secolo. Particolar-
mente la passeggiata finale fra i due comandanti delle com-
pagnie che si danno il cambio è davvero fuori dai tempi.
Forse nel passato si scambiavano le consegne e si comuni-
cavano le novità di carattere militare. Ora, cosa si potevano
raccontare se non la ristrettezza dello stipendio o il bambi-
no col morbillo? Ma forse anche in passato era cosi. Perche
dobbiamo sempre nobilitare tutto del passato? Bello mi ap-
parve il Tamigi che in alcuni punti, con quei palazzi che fi-
niscono direttamente nell'acqua, mi ricordava un po' il Ca-
nai Grande di Venezia. Stupendo Westminster Hall nelle
cui sale che ospitano i due rami del Parlamento sono state
promulgate tante leggi che hanno costituito un modello per   ^
la civiltà occidentale. Il Ponte della Torre con le parti che si
aprono al passaggio delle grandi navi e il vecchio Castello
della Tower of London, dove è custodito il tesoro della Re-
gina difeso per così dire da quelle solite guardie dai grandi
cappelli che devono rimanere, poveretti, per ore e ore nelle
più strane e scomode posizioni, mentre i turisti si fanno
beffe di loro, tanto che a loro volta devono essere difesi dai
policemen.
Di giorno in giorno quella città mi conquistava, come i
suoi abitanti, a prima vista così scostanti, ma che invece
possiedono quella tenacia, quel senso dell'ordine e del ri-
spetto del proprio e dell'altrui diritto, anche nelle occasio-
272
ni meno importanti. Tutto ciò mi fece comprendere come
Londra era riuscita a resistere compostamente ai bombar-
damenti nazisti e a dare la forza al proprio governo per re-
spingere le offerte di pace hitleriane, quando da sola si op-
poneva allo strapotere germanico.
Solo lo stomaco non reagiva nella maniera migliore alla
vita in quell'isola e incominciai di tanto in tanto a rifarmi il
palato nel quartiere di Soho, quasi tutto abitato da italiani
e dove si poteva finanche sorbire un vero caffè espresso e
bere del buon Chianti. Ma tutto questo nei ritagli di tempo.
Luglio e agosto trascorsero essenzialmente a studiare
con accanimento che mi procurava un'intima soddisfazio-
ne che si esaltò quando ricevetti i complimenti dei miei in-
segnanti. Quando mai mi era capitato questo all'università
di Napoli. Ogni giorno il mio sapere nel campo aumentava e
presto dovetti fare quasi da ripetitore al mio amico torine-
se il quale era sì bravo nella teoria, ma mal si adattava alle
esercitazioni e alla risoluzione di problemi o all'imposta-
zione di progetti che ormai incominciavamo sempre più
spesso a fare.                                           .
Arrivò settembre, il mese del mio matrimonio. Chiesi
quindici giorni di permesso e partii per l'Italia. Nella mia
famiglia mi guardavano ormai con un considerevole rispet-
to. Non ero ancora un "eletto", ma pur uno che era vissuto
a Milano, Parigi e Londra, perbacco! Mi era stata assegnata
una borsa di studio e guadagnavo benino. La mia azienda
languiva, ma nonostante tutto sopravviveva.
Ci sposammo e trascorremmo alcuni giorni meravigliosi.
Da Firenze andammo a Venezia, poi a Nizza, a Parigi e infi-
ne a Londra. Non mi sentii mai tanto bene in vita mia come
in quei giorni. Annamaria ed io eravamo perfettamente feli-
ci.
Nella grande città inglese ripresi gli studi e rapidamente,
anche con l'aiuto di Vittorio Emanuele, mi rimisi alla pari
con gli altri. Ora non ero più solo e nella stanza della pen-
sione Annamaria aveva creato una minuscola e accogliente
casetta. Uscivamo di rado. Ella intelligentemente riuscì a
273
non turbare il mio sforzo per superare quei difficili studi e
risultare uno dei migliori del corso. Comunque la condussi
all'Hippodrome, un teatro cabaret dove vi era uno spettaco-
lo tipo quello del Lido a Parigi, ma naturalmente più mode-
sto, al Churchill Club, un famoso night e qualche volta a
pranzare negli eleganti locali italiani come lo Spiedo in Pic-
cadilly Circus e da Gennaro's a Soho. Londra è un'immensa
metropoli, di tanto più grande di Parigi, che è a sua volta
molto più estesa di Milano. Eppure a Milano avevo avuto la
sensazione della città industriale e degli affari per eccellen-
za, mentre Londra e Parigi, pur ricche di industrie e princi-
palmente di uffici, non mi davano quest'impressione.
L'amico Gaiottino mi stupì quando mi annunciò che di lì
a pochi giorni lo avrebbe raggiunto, per trattenersi con lui
un paio di mesi, la sua ragazza. Chi avrebbe mai pensato
che quella specie di porcellino potesse avere una donna! La
notizia mi fece un infinito piacere. Annamaria avrebbe avu-
to finalmente una compagnia e non si sarebbe più annoiata
nelle lunghe attese, mentre ero in accademia e quando con
Vittorio Emanuele trascorrevamo lunghe serate immersi
nello studio che si faceva sempre più impegnativo, avendo
iniziato un lavoro originale su un isolamento realizzato con
materiali di assoluta avanguardia.
Antonella era una simpatica ragazza di origine meridio-
nale ed era fin troppo bella per uno come Vittorio Emanue-
le. Parlava correntemente l'inglese e con Annamaria si fece-
ro buona compagnia.
Giungemmo così a dicembre al termine del corso che sia
io che Vittorio Emanuele superammo brillantemente, ri-
spettivamente quinto e ottavo nella graduatoria dei trenta
allievi. Ma la nostra maggiore soddisfazione fu quella di
riuscire ad essere secondo e terzo fra i borsisti Goubeline.
Ricevemmo un telegramma di complimenti di Barbarisi ed
io un espresso di Pian con due righe aggiunte da Sassi che
mi riempì di piacere.
Rientrammo a Napoli.
274
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Bruno
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine   L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine EmptyMar Dic 30, 2008 2:25 pm

CAPITOLO XXVIII
Come quando ad un tennista che basa il suo gioco e le sue
maggiori possibilità di vittoria sulla regolarità e di game in
game aumenta il ritmo fino a che diventi irresistibile per
l'avversario che ne viene lentamente ma inesorabilmente
irretito e ineluttabilmente travolto, gli si riesce a "rompere
il ritmo", così la borsa di studio con i soggiorni a Parigi e a
Londra aveva interrotto, forse definitivamente, il mio con-
tinuo progredire nella carriera di rappresentante,
Ritrovai un'attività ormai ridotta al lumicino. Un ufficio
squallido e silenzioso, ben diverso da quello pieno di vita
che avevo lasciato alla mia partenza per il corso. Ma princi-
palmente non ne avevo più voglia. I problemi commerciali
non mi interessavano più. Avevo, forse per la prima volta
nella mia vita, assaporato i veri piaceri dello studio e avevo
scoperto quali gioie potesse dare se praticato in un ambien-
te consono e con colleghi, insegnanti e programmi non
avulsi dalla vita di tutti i giorni, ma ad essa intimamente e
intelligentemente collegati. Eppoi ero più che mai vicino a
poter raggiungere totalmente quell'attività "eletta" che mi
era stata inserita nel circuito sanguigno a goccia a goccia,
giorno per giorno, anno per anno, parola per parola. E
l'avrei potuto fare in modo ben più valido di quanto
nell'ambiente a me vicino si fosse mai concepito, con un'al-
tissima specializzazione e con una vera e approfondita co-
noscenza.
Quante volte a Londra ne avevo parlato con Annamaria e
275
quanti progetti, avevamo fatto. Spesso avevamo soppesato i
pro e i contro. I pro erano tantissimi, i contro costituiti
principalmente dalle ristrettezze economiche nelle quali ci
saremmo dibattuti per circa un anno, tempo minimo neces-
sario per condurre a termine gli studi senza che fossero
troppo sviati dall'unica attività che avrei potuto coerente-
mente ad essi svolgere, quella di consulente tecnico nel set-
tore degli isolamenti e condizionamenti. Naturalmente
avremmo dovuto trasferirci a Roma o a Milano. Non era
pensabile rimanere a Napoli ancora da studente e con le
tentazioni di più congrui guadagni, derivanti dal poter riat-
tivare la Cruni & C. che anzi avrebbe dovuto essere del tut-
to soppressa.
Ora o mai più! Bisognava agire con la decisione delle
truppe da sbarco! Andai a Roma e con l'aiuto dell'amico
Sardi prenotai una modesta casetta a Monteverde Vecchio
e avviai le pratiche per il trasferimento di università. Poi a
Napoli mi accinsi a chiudere gli affari ancora in corso per
la mia attività. Mi sentivo più che mai deciso a condurre in
porto quanto avevo stabilito e la cui genesi era da ricercare
in quel giorno di maggio nel quale avevo accettato l'offerta
della Van Gogh e le parole dell'ingegnere Pian avevano così
incisivamente risvegliato i miei più riposti e reali desideri.
Ma l'uomo propone e Dio dispone!
Questa volontà suprema si materializzò nel dottor Garo-
fani che giunto a Napoli per controllare i lavori in corso al-
la fabbrica di bevande gassate, era latore di una proposta
del signor Maffoni.
A pranzo mi chiese che gli raccontassi la storia delle
esperienze parigine e londinesi e aveva ascoltato con gran-
de interesse, interrompendomi di tanto in tanto con alcune
osservazioni che, se non fossi stato tutto preso dal mio rac-
conto, avrebbero dovuto insospettirmi per la palese e detta-
gliata conoscenza dei miei successi che dimostrava come
alla SOFIRI fossi stato attentamente seguito perlomeno
nella parte terminale dei miei studi.
"Caro Cruni, debbo davvero farle i miei più sinceri com-
276
plimenti per i successi conseguiti e principalmente per
quello studio originale sui poliuretani che sarà pubblicato
dall'accademia inglese e che le procurerà grandi soddisfa-
zioni oltre quelle già avute. Ne parlavamo giorni fa col si-
gnor Maffoni..."
"Che ne sapeva il signor Maffoni?"
Sorrise e proseguì calmo:
"Sapeva, sapeva e non solo da allora. Maffoni ha dei pro-
'rammi su di lei, ma da molto più tempo. Sa che ci ha riem-
pito la testa per il suo ordinativo alle bevande gassate".
"È un grande ordine, ma certamente non è il maggiore
che avete ottenuto", replicai fingendo un'ingenuità che non
sentivo.
"Ah, capperi, signor Cruni. In uno stabilimento di bevan-
de gassate migliala di metri quadrati di Metalpav!... Poi
quando l'ha conosciuta al congresso della Van Gogh ha avu-
to subito un'ottima impressione di lei anche fìsica e fin da
allora va dicendo che lei può essere un elemento prezioso
per la SOFIRI. Sa, Maffoni si picca di non aver mai sbaglia-
to un giudizio sui collaboratori che vuole. Dice che è tutta
una questione di intuito, come negli affari. Dice che il suo
fiuto nell'iniziare un'attività e nel concludere un affare e,
bontà sua, noi collaboratori, siamo la fortuna della SOFI-
RI!... Sa, io ero un socio di una piccola impresa di costru-
zioni. Mi conobbe e dopo pochi giorni mi volle con lui per il
settore pavimentazioni che allora iniziava la sua attività".
Era visibilmente compiaciuto. Provai gusto a lisciargli la
coda.
"Nel suo caso ha avuto certamente ragione".
"Grazie. Ma non è di me che dobbiamo parlare, ma di
lei... Quando ha saputo del corso e della considerazione di
cui gode alla Van Gogh ha detto: - Visto che avevo ragio-
ne? È proprio in gamba, fa per noi! - Allora qualcuno ha
insinuato con cattiveria che sì, lei poteva essere un buon
venditore e un gran competente di isolanti, ma da questo a
gestire un'azienda e guidare molti dipendenti ce ne
corre!..."
277
Incominciai a provare un ben maggiore interesse.
"Ma quali programmi ha su di me?"
"Glieli sto dicendo. La vuole con noi".
"Anche l'ingegnere Pian mi offrì di entrare alla Van
Gogh".
"Ma con quale incarico e qualifica?"
"Non lo approfondimmo perché rifiutai subito. Avevo la
mia azienda. Poi accettai l'offerta per il corso".
"Lo credo bene... Senta, io le sono amico e lo sa. L'offerta
è quanto di meglio Maffoni abbia mai fatto a un giovane
della sua età ed esperienza". Non replicai, ma ero tutto teso
a quello che mi avrebbe finalmente detto in modo comple-
tò. "Lei conosce la legge dei due quinti?"
"Non bene, anche se ne ho sentito vagamente parlare".
"È la legge sul rinnovamento di tutto il parco delle Ferro-
vie dello Stato e due quinti dei lavori debbono essere ese-
guiti da aziende del Sud. Maffoni ha subito afferrato la si-    ~~
tuazione ed ha costituito la MERIDIONAL SOFIRI S.p.A.
con sede a Napoli e giurisdizione da Roma alla Sicilia. Buo-
na parte del personale operaio e impiegatizio è già stato as-
sunto o trasferito. Manca solo il direttore e Maffoni è con-
vinto che quello deve essere lei e io sono d'accordo con lui".
Ero esterrefatto. Quella era davvero una grande propo-
sta! Ma, cavolo, ora che stavo per trasferirmi a Roma, che
avevo riprovato gusto negli studi. Perché dovevo sempre fa-
re delle scelte? Che strano destino il mio. Sembrava quasi
di percorrere l'itinerario di un labirinto con i tanti bivi.
Quale sarebbe stato il filo d'Arianna per uscirne vittorioso
ed appagato? Avevo la testa in fiamme e il cuore mi batteva
all'impazzata per l'emozione. Io, a soli ventisei anni, diret-
tore di un'azienda di primaria importanza! Che soddisfa-
zione e che salto rispetto alle normali trafile a cui sono co-
stretti quelli che intraprendono un lavoro dipendente. Un
lavoro dipendente! Già, si trattava pur sempre di un lavoro
dipendente e quindi impiegatizio. Uno di quei lavori vicino
al ludibrio, secondo le maledette concezioni che mi erano
state inculcate. Il primitivo entusiasmo si attenuò in un
278
lampo e fu quasi con freddezza che replicai a Garofani:
"Ringrazio Maffoni e lei per la stima, ma sapete che ho
una mia azienda che non sarà certo nemmeno la millesima
parte della MERIDIONAL SOFIRI, ma è mia e mi rende be-
ne".                                        , ., .
"Lo so, ma forse lei non conosce il trattamento che il si-
gnor Maffoni riserva ai suoi collaboratori con funzioni di-
rettive".
"No, non lo so. E quale sarebbe, se è lecito?"
"Veramente non sono autorizzato a parlare di questo ar-
gomento con lei, in quanto il signor Maffoni stesso gliene
accennerà al vostro eventuale incontro. Comunque, Cruni,
da amico a amico, circa quattrocentomila lire al mese per
quattordici mensilità e spesato di tutto".
Mi guardò con evidente soddisfazione e cercai disperata-
mente di mascherare l'enorme effetto che quella cifra mi
aveva, fatto. Circa quattrocentocinquantamila lire al mese.
Un impiegato di banca ne poteva guadagnare sessanta, set-
tantamila; dirigenti di grandi complessi con tanti anni di
anzianità certamente meno. Un'automobile 1100 costava
meno di un milione e un decente appartamento di cinque
vani e accessori sugli otto, dieci milioni! Annamaria ed io
avevamo pensato di vivere a Roma con centomila lire al me-
se! Era la ricchezza e la tranquillità economica raggiunta a
così giovane età e certamente suscettibile di ulteriori mi-
glioramente! Deglutii e:
"È indubbiamente interessante, ma non credo di essere
portato ad un lavoro dipendente..."
"Lei chiama dipendente la nomina a direttore di una so-
cietà per azioni con capitale di alcune centinaia di milioni?
Sa, Cruni, che lei è davvero incontentabile? Io non varrò
quanto il signor Maffoni stima valga lei, ma a me fu offerto
molto meno e non avevo certo la sua età".
"Capisco, Garofani, ma ho altri programmi, specialmen-
te dopo il corso... Comunque lei capisce che non mi attende-
vo quest'offerta e dovrò ben valutare il tutto prima di dare
una definitiva risposta. E ora, sia gentile, mi descriva in
279
dettaglio in cosa consisterebbe questo lavoro".
"Anche questo è compito del signor Maffoni e del diretto-
re del personale della SOFIRÌ, ma ritengo che lei debba pre-
siedere a tutta l'attività della nuova società sia per la parte
tecnica che amministrativa e commerciale, principalmente
per quanto riguarda i lavori di isolamento di carrozze fer-
roviarie, carri frigoriferi e così via e poi anche l'altro com-
pito che ritengo verrà riservato alla MERIDIONAL SOFIRÌ,
ossia quello di fungere da filiale per il Sud per tutte le altre
aziende del nostro gruppo, ivi compreso la mia. Quindi pen-
so che tutti gli agenti Sud, quelli che già ci sono e quelli che
bisognerà nominare, passeranno sotto la sua giurisdizione.
Ma ora sarà opportuno avviarci alla sede della società di
cui stiamo tanto parlando che è in via Marconi, sa, nel grat-
tacielo costruito da poco.. Debbo sistemare alcune faccende
per il mio settore e controllare alcune cose per conto del si-
gnor Maffoni. Sarà anche una buona occasione per lei per
visitare quelli che potrebbero essere i suoi uffici".
Annuii pensieroso e durante il tragitto parlammo d'altro,
del lavoro alla società di bevande gassate, di automobili,
che costituivano il pallino di Garofani, e del suo ultimo ac-
quisto, una FIAT 1400 coupé.
Prendemmo uno dei tanti ascensori a prenotazione dei
quali era dotato il nuovo grande edificio che sorgeva nei
pressi di piazza Municipio e al nono piano uscimmo per im-
boccare la porta della MERIDIONAL SOFIRÌ. Un ampio in-
gresso con una signorina la cui testa bionda e attraente
spuntava di dietro una modernissima macchina da scrivere
elettrica e poi un corridoio di oltre venti metri lungo il qua-
le innumerevoli porte conducevano in altrettanti uffici con-
trassegnati da targhe ben visibili. Mentalmente le catalo-
gai: attesa, segreteria, contabilità, amministrazione, ufficio
tecnico, riunioni, segreteria di direzione, direttore. Fummo
ricevuti, oltre che da alcuni impiegati che incontravamo
percorrendo il corridoio, dal ragioniere Mazzoni, un anzia-
no fiorentino che svolgeva ad interim la carica di direttore,
essendo stato distaccato provvisoriamente dalla SOFIRÌ
280
dove svolgeva da molti anni un incarico di notevole respon-
sabilità.
Garofani mi presentò come l'agente di Napoli, ma mi ac-
corsi che qualcosa Mazzoni doveva sapere di quanto mi era
stato offerto perché si rivolse a me con particolare deferen-
za e con una curiosità a malapena mascherata. Entrammo
nell'ufficio del direttore attraversando quello della segreta-
ria di direzione che era vuoto. Meraviglia! Una stanza de-
gna di un alto dirigente, tipo quella dell'ingegnere Bracale
della SMEMEL, che il lettore ha incontrato nelle prime pa-
gine del libro, ma con una vista di molto superiore. Le am-
pie finestre davano sul porto di Napoli, sul golfo e su parte
della piazza Municipio con uno scorcio del Maschio Angioi-
no. Mobili in noce e tre telefoni di cui uno dotato di una po-
derosa serie di bottoni per comunicazioni con i vari uffici.
Avevo fino ad allora mascherato abbastanza bene lo scon-
volgimento che l'offerta e le relative delucidazioni fornite-
mi da Garofani mi avevano procurato, aiutato anche dai
miei pregiudizi sui lavori dipendenti. Ma c'è un limite a tut-
to e quell'ufficio, che poteva essere mio solo che lo avessi
voluto, mi creò uno stato di esaltazione e confusione men-
tale al tempo stesso. Mi accorsi appena degli sguardi sfotti-
tori che Garofani di tanto in tanto mi rivolgeva e solo con
grande sforzo di volontà riuscii a seguire quanto i due diri-
genti si andavano dicendo.
"No, dottore, la squadretta per l'Aerea Sicula di Palermo
ancora non è giunta, mentre sono in funzione quelle per gli
stabilimenti di Colleferro, Pozzuoli, Castellammare, Torre
Annunziata e Bari".
"Quanti operai e capisquadra avete in forza quindi fino-
ra, ragioniere?"
"Attenda, chiedo in amministrazione... Pronto, ragionie-
re Misiani, sono Mazzoni. Mi vuoi fornire quest'informazio-
ne?... Ah, 112? Bene, grazie..."
"E come impiegati?", insistè Garofani.
"Circa una quindicina, compresi l'ingegnere Bianchi e i
geometri ispettori".
281
"Soddisfatto di tutti?"
"Per la verità no, ma il signor Maffoni mi ha ordinato di
non modificare nulla in attesa del direttore definitivo".
"In effetti è così. Si attende solo lui per ampliare i quadri
e per una migliore selezione e dislocazione dei dipendenti",
confermò Garofani con lo sguardo rivolto diritto verso di
me.
Quando ci salutammo avevo davvero la testa in ebollizio-
ne, ma credo che anche ad un volpone come Garofani non
fosse facile accorgersene, perché con gran flemma gli dissi:
"Grazie, Garofani, di tutto, anche della visita e delle do-
mande che ha posto al ragioniere. Lei è sempre molto abile
e amico. Non sarà una decisione facile, ma penso di poterle
dare una risposta entro quindici giorni".
"No, scusi, Cruni, ma come ha visto qui si ha molta fretta
e lei sa che tipo vulcanico è Maffoni. Già l'ha atteso a lungo
e questo non fa per lui. La riceverà comunque al congresso
agenti pavimentazioni che terremo a Firenze dal tre gen-
naio. Il no o il sì lo dica a lui in quell'occasione. Se sarà sì,
potrà discutere su tutto quello che più le preme di ottenere
e di chiarire".
"È un po' presto, ma farò il possibile. Me lo saluti e lo rin-
grazi da parte mia e arrivederci a Firenze".
"Sì, a Firenze, caro collega".
Si allontanò sorridendo, mentre il mio: "Via, non corra
troppo" si perdeva fra i rumori del traffico.
282
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine   L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine EmptyMar Dic 30, 2008 2:27 pm

CAPITOLO XXIX
Il treno entrò precisissimo nella luminosa stazione Ter-
mini di Roma e subito vidi il fedele amico Edoardo Sardi in
attesa sul marciapiedi. Il 1961 stava per chiudere il suo cor-
so e Roma era allietata da un bei sole che attenuava il fred-
do intenso che da qualche giorno attanagliava la penisola.
Mi attendevo molto dall'incontro con l'amico, perche sof-
ferte esperienze parallele ci permettevano di essere davve-
ro sinceri l'uno con l'altro e di partecipare senza alcuna in-
vidia ma con gioia o sofferenza, all'alterno evolversi della
vita di ognuno dei due. Nei momenti delle grandi decisioni
ci incontravamo e ci raccontavamo tutto, valutando i prò e i
contro visti da ottiche diverse. Consideravo una grande for-
tuna avere un amico che poteva veramente definirsi tale e
che stimavo e al suo giudizio avevo deciso di affidare la so-
luzione del problema che da alcuni giorni mi tormentava.
Ne avevo è vero, parlato con Annamaria, con la quale avrei
diviso la mia sorte, ma la mia cara compagna non aveva
l'esperienza per potermi dare un consiglio davvero ponde-
rato e che tenesse conto di tutti i risvolti del problema. Era
giovanissima e innamorata e col solo desiderio della mia fe-
licità. Non era una di quelle ragazze viziate e troppo abitua-
te a vivere nella bambagia, che antepongono a tutto il vive-
re comodo e prestigioso. Si rendeva conto certo delle diffi-
coltà delle mie decisioni, ma non poteva capire, perche non
lo aveva provato, cosa potesse significare per me conclude-
re gli studi e conseguire quel titolo che così profondamente
283
era conficcato dentro di me, anche se a volte sembravo di-
menticarmene. Pur di starmi vicino era disposta a tutto; al-
la vita di sacrifici, ma così bohémien che avremmo fatto a
Roma, a quella di lusso e da arrivati che avremmo invece
potuto condurre a Napoli accettando l'offerta SOFIRI. Ave-
vo anche accennato a mio padre, non certo dei miei dubbi,
ma solo dell'offerta. Mi ero accorto con soddisfazione e una
punta di rivalsa che ne era stato profondamente colpito, ma
non erano certo i suoi consigli, che d'altra parte non veniva-
no mai, che mi interessavano. Riponevo quindi tutte le mie
speranze nell'incontro con Edoardo e nelle sue considera-
zioni.
"Ebbene, Gianni, un altro dilemma?"
"Sì, Edoardo, questi ultimi due anni della mia vita sono
davvero movimentati e racchiudono tutto il passato e il fu-
turo. .Andiamocene da qualche parte tranquilla perché la
chiacchierata sarà lunga".
Ci recammo in un quieto Caffè di Villa Borghese. Mi in-
formai della moglie e del figlio nato da poco e del suo lavo-
ro. Notai con piacere che la sua vita si era stabilizzata in un
corso abbastanza quieto e regolare che gli permetteva sere-
nità dopo le apprensioni e i disagi degli anni precedenti.-
"Dunque, Edoardo, ti inquadro il problema. Come sai più
che bene decisi di lasciare gli studi di ingegneria, anche se
con un anno intenso avrei potuto concluderli. Le motivazio-
ni le conosci e anche le prospettive di lavoro. O la banca o la
rappresentanza. Sai di Mortini e dell'inizio da solo dopo la
Fiera del Sessanta e le prime rappresentanze; poi della so-
cietà con Alberto Fani, dei successi e guadagni sempre
maggiori, del corso alla Van Gogh, dei grandi consensi e
della rivelazione per me di un interesse insospettato per gli
isolamenti termoacustici e poi del conferimento della bor-
sa di studio per Parigi e Londra, della mia accettazione qua-
si impulsiva, unica nella mia vita, e degli ottimi risultati di
Londra e di quella ricerca originale condotta lì all'accadè-
mia inglese e poi della decisione, questa volta molto soffer-
ta come al solito, di venire a Roma e completare gli studi _
284
italiani. Fosti d'accordo con me e lieto che Annamaria ed io
venissimo ad abitare qui vicino a tè e a Liliana. Stavo liqui-
dando tutto della Cruni & C., quando il dottor Garofani mi
comunicò l'offerta di Maffoni che ti ho accennato per tele-
fono. Ed eccomi qui per decidere in modo definitivo".
Mi allungai e mi distesi dopo la contrazione quasi spa-
smodica che aveva accompagnato il mio breve riassunto.
Desideravo abbandonarmi e sapevo di poterlo fare.
Edoardo aveva ascoltato come al solito attentamente e il
suo sguardo intelligente aveva seguito le emozioni che tra-
sparivano dal mio volto e dal mio gesticolare, cercando di
comprendere al di là dei fatti e delle parole.
"Gianni, cerchiamo innanzitutto di capire quale può es-
sere il successo nella vita per un uomo. In famiglie come le
nostre le attività come tu dici "elette" sono solo quelle ac-
compagnate da una laurea. Ora tu sai benissimo che ci sono
lauree che immettono a una professione e altre che in gene-
re conferiscono solo una specie di titolo onorifico che serve
solo a nobilitare, secondo i pregiudizi borghesi, l'attività
che si svolge, privata o pubblica. Inoltre alcune intermedie
necessario per intraprendere attività dipendenti ma specia-
lizzate. Facciamo degli esempi: la laurea in medicina, in
agronomia, in veterinaria, in legge per chi fa l'avvocato, il
giudice o il notaio, in architettura e infine in ingegneria,
quella che ci riguarda più da vicino. Tutte queste permetto-
no, dopo l'abilitazione, di esercitare libere professioni con
studi propri. Caso a sé è quella facilissima in legge che è
una specie di maturità super per poi sfociare nella vera se-
lezione che avviene all'esame di procuratore o ai concorsi
di magistrato o di notaio. Poi ci sono quelle tipo scienze po-
litiche che davvero non servono a nulla, se non come abbia-
mo detto a conferire il titolo di dottore a coloro che finisco-
no col fare gli impiegati, i commercianti e gli industriali,
ma nobilitati da quel titolo, oggi considerato più qualifican-
te di quelli tipo commendatore, grande ufficiale e simili. In-
fine il gruppo fisica, chimica, matematica, filosofia per ri-
cerche o per la scuola come quello di lettere moderne. Alcu-
285
ne sono. di facilissimo conseguimento per chi ha un po' di
tempo da dedicare e mediocre intelligenza, altre molto più
difficili. Infine, ce lo insegnava Caccioppoli, vi sono periodi
nei quali gli studi sono resi più facili da programmi ridotti
e disposizioni ministeriali e altri nei quali i programmi, gli
sbarramenti biennali e l'alta percentuale di bocciature ren-
dono tutto estremamente complicato. Sai benissimo che la
nostra facoltà è indubbiamente la più difficile e noi l'abbia-
mo anche iniziata in un periodo di massima severità. Tu,
come me, conosci laureati in ingegneria del periodo qua-
ranta, quarantotto che hanno fatto la metà dei nostri pro-
grammi e delle nostre fatiche e a volte bastava loro presen-
tarsi per prendere perlomeno il diciotto, bocciature mai.
Ma il titolo è il titolo e un ingegnere laureato nel quaranta-
cmque e uno nel cinquantotto hanno lo stesso valore per la
gente e gli enti pubblici. Solo le industrie private tengono
nel debito conto la grande differenza. I loro titolari sanno
che oggi il biennio viene superato in due anni solo dall'un
per cento circa e tutto il corso nei cinque anni da una per-
centuale ancora minore. Noi abbiamo fatto, dopo la maturi-
tà, una scelta forse non sufficientemente ponderata e chi
più chi meno abbiamo incontrato grandi difficoltà e un ab-
bandono o un cambiamento quasi in massa degli studi".
Prese fiato e cambiò posizione. "Come rimanevamo dopo
quella decisione che ci lasciava sfiniti, senza nulla, perché
la maturità non è un titolo professionale come quello di
geometra o ragioniere che, anche se nella loro modestia,
permettono di esercitare una professione, anche se noi la
consideriamo di serie B". Lo ascoltavo con interesse, nono-
stante fossero cose che conoscevo fin troppo bene e che
sembravano allontanarmi dal mio problema. Sapevo, cono-
scendo il tipo, che gli serviva per inquadrare bene il noccio-
lo della questione che mi aveva condotto da lui. "Il succes-
so nella vita, converrai con me, non è solo acquisire un tito-
lo, ma esercitare la professione o iniziare la carriera dipen-
dente che ci porti alle vette più alte. Per tè sarebbe stato
torse diverso perché tuo padre avrebbe potuto metterti a -
286
disposizione un'azienda già ben avviata. Ma lo avrebbe fat-
to?" Mi guardò diritto negli occhi e proseguì: "Mi hai rac-
contato più volte che tipo assolutista e possessivo sia e poi
il costruttore lo si fa anche senza laurea. Anzi le maggiori
imprese sono gestite non da professionisti, ma da chi ha
uno spiccato senso organizzativo e commerciale. Gli inge-
gneri si assumono e con stipendi non tanto alti. Abbiamo
amici comuni brillantemente laureati che hanno stipendi
intorno alle cento, centocinquantamila lire..." Bevve un
sorso dalla bibita. "... Tu ora hai avuto quest'offerta dalla
SOFIRI di direttore generale di un grosso complesso. Cosa
vuoi di più? Ti rendi conto che per prestigio e stipendio sei
giunto quasi all'apice? Cosa ti importa di non essere inge-
gnere? Gli ingegneri saranno alle tue dipendenze".
"Ma sì, lo so, hai ragione, ma il titolo?"
"È questo il nostro dramma e quello delle nostre fami-
glie. Bisogna andare avanti per anni, uscire anche fuori
corso, vegetare forse fino ai trent'anni e poi finalmente par-
tire con il titolo per non arrivare mai ai vertici. Vogliamo
comprendere, e. tu per la miseria che sei stato e sei nel mon-
do industriale privato tè ne puoi rendere ogni giorno conto,
che quello che importa è la capacità dell'individuo, non il
suo titolo? Secondo tè è più importante essere ingegnere
delle Ferrovie o quello che ti ha offerto Maffoni?... Maffo-
ni ti affida una sua creatura e suoi capitali. L'altro è il fun-
zionario di un grosso carrettone dove il deficit è consuetu-
dine".
"Edoardo, lo so, hai ragione. Ma allora quanto stai dicen-
do sarebbe valso anche quando ho praticamente ucciso la
mia attività di rappresentante che era così bene avviata".
"E no, Gianni, non è la stessa cosa! Questo non lo devi di-
re! Là era un'attività che come soddisfazione ti dava princi-
palmente quella economica e poi solo o quasi commerciale.
Anche se non vedo grande differenza tra l'essere rappresen-
tante o commerciante, rispetto al professionista. In defini-
tiva il cosidetto professionista cosa fa? Anche lui ha dei
clienti proprio come il rappresentante o il commerciante e
287
li corteggia e circuisce continuamente per conservarli e
farsene mandare altri potenziali. Naturalmente tutto di-
pende dall'onestà di base, che è dell'individuo e non di quel-
lo che fa, nel gestire con dignità il proprio lavoro. Vedi
quanti medici speculano da delinquenti sulla salute dei
propri clienti. E quanti avvocati creano cause interminabili
per aumentare le proprie parcelle. E quanti ingegneri e ar-
chitetti percepiscono percentuali dai fornitori consiglian-
do materiali più costosi e magari meno adatti a quel tipo di
costruzione e così via. Ma ti dicevo della corte al cliente,
fatto comune a tutte le attività cosiddette libere. Agiscono
con maggiore dignità solo quelli che nei vari settori hanno
coscienza delle loro reali capacità e quindi possono permet-
tersi di trattare il cliente con onestà e senza servilismo o
false cortesie. Ciò è appunto comune al medico, all'ingegne-
re, all'avvocato come al rappresentante o al commerciante.
Tornando all'offerta SOFIRI vi è un grosso industriale che
ha riconosciuto i tuoi meriti e ti-conferisce lui, senza racco-
mandazioni delle quali se ne sbatterebbe, un titolo presti-
gioso, quello di direttore".
"E i miei studi a Londra?"
"  293
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine   L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine EmptyMar Dic 30, 2008 2:28 pm

"Li utilizzerai proprio nella tua nuova attività. Scusa, tu
hai studiato isolamenti e qui dirigerai anche tecnicamente
l'applicazione di isolamenti. Il caso è ben diverso. Poi quel-
lo che hai fatto a Londra ti servirà, come mi accennasti, an-.
che per un titolo e anche di grande prestigio. Cosa vuoi di
più?"
"Ma io pensavo di concludere e poi si sarebbe visto".
"Ma chi ti dice che fra un anno le condizioni saranno le
stesse. Sì, rafforzeresti le tue posizioni, anche se gli studi
italiani, così poco specializzati, possono portarti fuori stra-
da. Ma ho capito, è sempre quella maledetta cosa che le no-
stre famiglie e i loro amici ci hanno inculcato e da cui le no-
stre sofferenze. Avremmo dovuto fare legge o scienze politi-
che, laurearci in quattro anni e poi pensare al lavoro. Ma
ora che sappiamo è tardi. E prima nessuno ce lo aveva chia-
rito. Ma scusa, tu diventerai direttore e guadagnerai quasi --
288
sei milioni all'anno, avrai centinaia di dipendenti, come mi
hai detto, e non ritieni che questo venga considerato dalla
tua famiglia un'attività "eletta"? Per la miseria, se non la
pensano cosi, allora è meglio perderli!"
"Sì, d'accordo, ma con la SOFIRI si tratta pur sempre di
un'attività dipendente. Invece con la laurea e l'abilitazione
avrei potuto svolgere, fregiandomi del titolo, una libera at-
tività, o avere un'azienda mia o eventualmente unirmi a
mio padre".
"Per essere certamente più dipendente di quanto saresti
ora, dato il tipo?"
"E no. Avrei ben altra autorità".
"È da dimostrare. Eppoi, Gianni, consideri davvero di-
pendente l'attività di direttore? Io non conosco molto il
mondo industriale, ma penso che i dirigenti sono loro che
creano la politica delle ditte che dirigono. Tu poi su di tè
non avresti nessuno, tranne le generiche disposizioni di
Maffoni con te concordate... E infine parliamo anche di
questo. Cos'è la libertà? Tu hai fatto il rappresentante con
un'azienda tua e non eri costretto dalle disposizioni delle
case rappresentate? Non dovevi dipendere da loro per con-
dizióni, consegne, prezzi e altro?"
"Sì, è vero, però il tempo lo gestivo io".
"Ti illudevi di gestirlo. Se ci ripensi, per tutto quello che
mi hai raccontato del tuo lavoro, non era affatto così. Eppoi
tuo padre e mio padre sono liberi?"
Aveva ragione e diceva cose che già io avevo pensato nei
giorni precedenti, ma era difficile fare marcia indietro da
una decisione largamente sofferta e che aveva tranquilliz-
zato la mia psiche.
"Sì, lo so, forse è giusto. Liberi sono solo gli artisti. Ma
qual è la loro funzione nella società e quella di tutti gli altri
elementi attivi?"
"Quella degli artisti è una funzione importantissima, ma
ora ci mettiamo a fare della filosofia. Comunque io penso
che libero non è nessuno, nemmeno l'artista. Chiunque è in-
serito nella società è condizionato da essa. Più volte mi hai
289
raccontato del colloquio che avesti a Milano con il rappre-
sentante della Ricci. Egli si sentiva appagato e importante
quando gli imprenditori facevano la fila da lui per chieder-
gli, come una grazia, la vendita di macchinari per edilizia,
allora carenti. Ma così si sente o si è sentito anche un salu-
miere o un macellaio, quando la gente fa la fila per la spesa;
o un farmacista o ancora un impiegato comunale dell'uffi-
cio anagrafe; o il funzionario del Monte di Pietà. O ancora
di più il vigile urbano, quando viene scongiurato da perso-
ne ricche e affermate di non applicare le multe. Certo ogni
mestiere ha le sue soddisfazioni e ci mancherebbe se non
fosse così. Io a scuola mi dovrei sentire importante durante
gli esami e invece sono molto più appagato quando un mio
allievo capisce per mio merito un concetto difficile. Come
puoi comprendere, ogni individuo attivo ha la sua impor-
tanza nella società. Certo, a mio avviso, vi sono delle gra-
dualità. Ma se non fossimo avvelenati dai pregiudizi delle
nostre famiglie e dell'ambiente in cui vivono, non ci dovreb-
be importare nulla se nell'esercizio di quello che facciamo
siamo chiamati signore, dottore, ingegnere, avvocato. Ep-
poi, anche nelle cosiddette professioni, tutte le attività so-
no per me professioni, vi sono quelle utili e quelle no. Ad
esempio il medico è ed è sempre stato necessario, come l'in-
gegnere e altri; l'avvocato e il commercialista no. Lo sono
oggi per come si è sviluppata la società nei secoli con le sue
leggi. Ma allo stato primordiale serviva chi curasse, chi co-
struisse, chi ideasse cose nuove, studiando i materiali e i fe-
nomeni naturali, che servissero a vivere meglio. Ma gli av-
vocati a che servivano, e per assurdo i fiscalisti?"
"Beh, da quando vi sono stati più uomini era normale che
sorgessero delle liti".
"Allora vi era necessità di giudici, non di avvocati".
"Non proprio, perché i due litiganti potevano esprimersi
in modi diversi e con capacità maggiore o minore. L'avvoca-
to pareggiava le cose".
"Avrebbe dovuto spiegarle direttamente al giudice, il~
290
quale doveva sforzarsi di capire il meno preparato, così co-
me l'avvocato".
"Sì, ma l'avvocato poteva svolgere una sua ricerca più
dettagliata in aiuto del suo cliente".
"Sarà, ma non sono del tutto d'accordo. Per non parlare
poi dei fiscalisti, prodotto di una società contorta con le
leggi contorte".
"Qui andiamo troppo lontano. Quello che invece mi pre-
me di chiarire è quale attività si presenta, nel mio caso, co-
me più prestigiosa ed importante all'occhio della gente".
"Allora ci risei. Questo è quanto pensavamo alla fine del
liceo e quando abbiamo fatto probabilmente scelte che se
non erano del tutto sbagliate, erano quanto meno poco cu-
rate. L'ingegnere, sì, fa effetto, specialmente in società e
sulle ragazze. È il professionista sportivo, intelligente,
creatore di opere che rimangono negli anni. Ma cosa c'en-
tra? Ognuno dovrebbe innanzitutto pensare a quello che
più gli piace svolgere nella vita e a quello che lo occupi con
soddisfazione e che non sia una condanna ne nella fase di
preparazione, ne in quella di gestione".
"Se è per questo a me sarebbe piaciuto fare lo scrittore e
quindi forse più adatto sarebbe stato seguire studi classici
dal liceo all'università".
"E perché non l'hai fatto?"
"Perché non esiste una strada precisa per fare lo scritto-
re. È un'attività artistica e come tale bisogna riuscire a
comprendere se se ne possiedono le grandi doti. Eppoi
c'era il mestiere paterno, la cosiddetta strada già tracciata
e quelle idee che la famiglia e l'ambiente ti stillano giorno
per giorno per farti seguire le aspirazioni dei genitori. Ma-
ledizione! Sono davvero convinto, oggi a ventisei anni, che
siamo strumentalizzati dai genitori. Questi considerano la
vita dei figli come il prolungamento della loro, quasi una vi-
ta eterna e cercano di realizzare attraverso di noi ciò che a
loro è riuscito magari solo in parte. E così noi iniziarne car-
riere che spesso non sono le nostre e agli insuccessi ci in-
sorgono le nevrosi. Quelle maledette frasi del tipo: - Papa
291
ne soffrirebbe molto, se non facessi questo -, oppure: -
Mamma ne morirebbe se tu facessi quest'altro- sono il ve-
ro veleno che ci viene istillato giorno per giorno e vi parte-
cipano tutti alla congiura, fratelli, sorelle, zii, nonni, amici
di famiglia e forse finanche i dipendenti o i fornitori".
Tacqui imbronciato e poi: "Sì, hai ragione quando dici che ra-
giono ancora come ai tempi del liceo. Ma ora mi pongo e ti
pongo queste domande, anche ingenue, perché non so più
se la decisione di riprendere gli studi e completarli sia do-
vuta a un mio reale desiderio o ancora al veleno di cui ti ho
parlato. Ma di una cosa sono certo che quello che ho fatto
prima a Milano alla Van Gogh, poi a Parigi e infine a Lon-
dra mi ha profondamente appagato. Perché usciva fuori dai
normali schemi. Perché era un insegnamento attivo e del
quale si vedeva rapidamente l'utilizzazione. Perché svilup-
pava mie capacità insospettate e perché è bello cercare di
contribuire alta creazione di qualcosa di nuovo e di perlo-
meno appena appena più avanzato di quanto era già stato
fatto".
"In effetti era come se, anche se in un altro campo, faces;
si lo scrittore, ossia l'artista, ossia il creatore, l'attività più
nobile".
"Sì, forse è così. Ma mi sono anche convinto che non
avrei potuto facilmente comprendere tutto quello che sen-
tivo se non avessi fatto i normali studi di ingegneria. Capi-
sci? Di qui la confusione".
"Capisco".
"Allora, vedi, il posto alla SOFIRI mi immetterebbe nel
diretto campo che mi interessa, ma al tempo stesso mi da
responsabilità, anche in altri settori come quello ammini-
strativo e commerciale. Mentre, se proseguissi negli studi,
mi allontanerei per un anno dal settore, ma forse dopo po-
trei ritornarci per svolgere finalmente la funzione che ho
scoperto piacermi".
"Povero Giannil È davvero complicata la situazione. Ma
tu sei da me non solo per sfogarti, ma anche per avere un
mio consiglio e per sapere io come mi comporterei al tuo ~
292
posto. Ebbene, ti dirò che non perderei una grande occasio-
ne che forse non si ripeterebbe più. Inoltre ti dico che po-
tresti tentare, anche se so che è difficile, di laurearti in fisi-
ca, mentre sei alla SOFIRI. Credo ti mancherebbero solo un
paio di esami e li potrai fare anche in due anni approfittan-
do di ferie e giorni liberi. Eppoi, Gianni, anche se tu non
trovassi il massimo appagamento in questo incarico e un
giorno decidessi di lasciarlo, ti rimarrebbe sempre la gran-
de soddisfazione di essere stato un importante dirigente in-
dustriale. Nella vita si può vivere anche di ricordi! Pensa
che di ingegneri ce ne sono tanti, ma di direttori di aziende
di notevole livello ce ne sono molti di meno!"
Una grande serenità mi pervase tutto! Il mio buon amico,
l'impagabile Edoardo, aveva trovato la chiave del dilemma.
Sì, era così. Avrebbe dovuto essere così.
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine   L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine EmptyMar Dic 30, 2008 2:30 pm

CAPITOLO XXX
Faceva un freddo polare e tutta l'Italia centro settentrio-
nale era avviluppata in una stretta morsa di gelo, quando
giunsi a Firenze con un ritardo di oltre tré ore. Anche se
eravamo, ai primi di gennaio, e quindi periodo consono a ta-
li manifestazioni climatiche, non mi era mai capitato di in-
capparci nel tragitto Roma-Firenze. Invece proprio dopo
Roma intense nevicate, che erano iniziate nella nottata,
avevano costretto la dirczione del movimento ferroviario a
dirottare i convogli dalla grande dorsale Roma-Milano sul-
la linea tirrenica e a far raggiungere Firenze via Livorno. Di
qui intasamenti, ritardi e disagi.
Percorrere il breve tratto che separa la stazione di Santa
Maria Novella dall'hotel Baglioni, sede del convegno SOFI-
RI, fu estremamente disagevole e vagamente somigliante a
un percorso polare in miniatura. Duecento metri non sono
molto. Ebbene, provate a farli con una grossa valigia e tan-
te altre piccole cose da portare mentre nevica e i marciapie-
di interamente ricoperti da alcuni centimetri del bianco
mantello e le strade estremamente sdrucciolevoli. Dopo sa-
rete convinti che ciò rappresenta, specialmente per chi è
abituato a vivere in una città del Sud, un'impresa non indif-
ferente e approdare in quelle condizioni nella calda e acco-
gliente hall dell'albergo è davvero il conseguimento di
un'ambita meta.
Questo fatto poteva avere per me un significato simboli-
co? Il colloquio con Edoardo mi aveva convinto per il sì e
294
avevo quindi fatto la mia scelta, anche se di tanto in tanto
nuovi e vecchi dubbi turbavano la serenità raggiunta. Natu-
ralmente però, una volta deciso, avrei dovuto affrontare il
colloquio con Maffoni e riuscire a ottenere il massimo co-
me condizioni e posizioni e principalmente confermare l'al-
ta considerazione che aveva di me. Sono convinto che è
sempre più facile creare una buona impressione che mante-
nerla nel tempo.
Fui accolto con cortesia da un funzionario del settore pa-
vimentazioni e accompagnato nella stanza che mi era stata
riservata. Quando ne discesi un cordialissimo Garofani mi
guidò verso i vari gruppi che si erano formati nella hall in-
torno ai dirigenti della SOFIRI. Il buon toscano mi aveva
chiesto più volte con aria di complicità quale fosse stata la
mia decisione. Schivai abilmente e alla fine mi limitai a ri-
spondergli con un vago "Dopo l'incontro con Maffoni".
Vi erano tantissimi partecipanti, agenti, funzionar!, diri-
genti, anche di altre aziende. Mancava però Maffoni che, mi
dissero, sarebbe intervenuto il giorno successivo a inizio
dei lavori.
Sul resto della serata è bene stendere un pietoso velo,
perché il programma aveva previsto una cena fuori Firenze
in un suggestivo castello trasformato in ristorante, dove pe-
rò fu estremamente penoso e decisamente poco opportuno
recarsi a un'ora così tarda e con molti dei partecipanti or-
mai stanchi del lungo e disagevole viaggio affrontato. La
SOFIRI era molto ben organizzata e diretta e lo avevo potu-
to constatare non solo nei rapporti precedenti, ma anche da
quanto mi era stato riferito da autorevoli personaggi della
Van Gogh, CondizionalAcustica e finanche della Goubeline.
Quella disgraziata cena costituì un neo che aveva come uni-
ca scusante l'improvviso peggioramento delle condizioni
climatiche.
La mattina dopo però tutto ritornò nella normalità e la
sala nella quale si svolgevano i lavori e l'organizzazione de-
gli stessi mi ricordava tanto il congresso della Van Gogh a
Napoli, a cui evidentemente si ispirava. Conobbi molti diri-
295
genti o funzionar! direttivi del gruppo SOFIRI e tutti gli
agenti che erano nella generalità persone apparentemente
affermate e ben preparate. Una delle cose che mi arrecò
maggiore soddisfazione, ma anche un vago senso di timore,
fu il rendermi conto che i dirigenti avevano tutti un'età no-
tevolmente superiore alla mia. Rividi anche Maffoni che mi
salutò con affabilità, ma che non fece alcun accenno alla fa-
mosa offerta di cui Garofani era stato latore. Ebbi modo,
sia in quello che nel giorno successivo, di osservare attenta-
mente quell'ometto che possedeva indubbiamente una
grande energia, prontezza di cervello e spiccata personali-
tà. Superai rapidamente il disagio iniziale causatemi dal
dover decidere che atteggiamento assumere, se da agente,
quale ancora ero, o da dirigente, quale mi era stato offerto
e mi accingevo ad essere. Anche il posto che mi era stato as-
segnato si prestava a sottolineare l'equivoco. Sedevo infatti
non al tavolo della presidenza, ma in una posizione molto
vicina ad esso e fui anche invitato a parlare all'assemblea,
subito dopo Maffoni, Garofani, Socci, l'ingegnere Malmver-
ni, direttore tecnico e altri dirigenti, ma immediatamente
prima dei più importanti agenti che ne avevano fatto richie-
sta. Ne rimasi sorpreso, ma ormai ero abbastanza abituato
a.parlare in pubblico anche se preso alla sprovvista e me la
cavai brillantemente, mentre non potei fare a meno di nota-
re che Maffoni aveva prestato particolare attenzione a
quanto dicevo e a come lo dicevo. L'ulteriore esame doveva
aver dato esito positivo e il trattamento che mi veniva riser-
vato era sempre più dimostrativo di quanto si desiderasse
che entrassi a far parte di quella poderosa organizzazione.
Non fui mai lasciato solo, tranne ovviamente che nella mia
stanza. Dirigenti e alti funzionari si alternavano a farmi
compagnia, non so loro con quanta spontaneità, ma certo il
tutto faceva parte di un preciso disegno di emanazione su-
periore.
Al pranzo conclusivo fui invitato a sedere vicino alla mo-
glie di uno dei figli di Maffoni e solo a due posti dal massi-
mo esponente. La giovane donna era molto bella, con un vi-
296
so da madonna del Botticelli che la faceva supporre tutta
dedita alla sua bellezza e a una vita che i miliardi del suoce-
ro potevano permettere impiegata in raffinati divertimenti.
Invece non era così. Anche lei era inserita nel mondo del la-
voro, e occupava con merito una primaria posizione nell'uf-
ficio contabilità dell'azienda.
Al termine del pranzo il sempre gentile Garofani mi co-
munico che Maffoni mi avrebbe ricevuto il giorno dopo
presso la sede della SOFIRI. Eravamo arrivati al dunque e
mi preparai a giocare le mie carte nel modo migliore.
Percorsi le sale e i corridoi degli uffici e infine fui intro-
dotto nel principesco studio del titolare. Era una stanza di
oltre cinquanta metri quadrati con mobili antichi di alto
pregio. Alle pareti quadri d'autore, come Rosai, Morandi,
De Chirico, Sironi e Guttuso e un pannello che riepilogava
le undici aziende del gruppo con le loro specializzazioni e il
nome dei rispettivi direttori. Notai subito quello della ME-
RIDIONAL SOFIRI S.p.A. al quale mancava il nome del diri-
gente. Ne fui turbato e maggiormente consapevole dell'ini-,
portanza di quello che mi si offriva. Ma non dovevo farme-
ne influenzare. Intorno al mastodontico scrittoio, oltre
Maffoni, sedevano Garofani e l'alto, magro e distintissimo
dottor Fusini, direttore del personale. Ci scambiammo una
decisa stretta di mano e fui invitato a prender posto fra lo-
ro. Maffoni esordì:
"Egregio dottor Cruni, il dottor Garofani le ha riferito il
mio desiderio di averla nella mia organizzazione. Ho di lei
un'ottima opinione e ho ammirato sia la sua abilità com-
merciale che i suoi requisiti tecnici. Ho parlato di lei con
gli ingegneri Barbarisi e Pian e con il signor Milani della
Van Gogh e da tutti ho avuto conferma che la mia prima im-
pressione era esatta. D'altra parte credo molto alla mia pri-
ma impressione quando giudico gli uomini e le dico con
piacere che poche volte le mie intuizioni sono risultate er-
rate... Non le nascondo che la sua giovane età ha un po'
preoccupato alcuni miei più diretti collaboratori che riten-
gono non basti aver dimostrato ottime capacità di vendito-
297
rè e tecniche per esser posto alla testa di un complesso im-
portante, per dipendenti e fatturato previsto, come la ME-
RIDIONAL SOFIRI. Ma io so che lei anche amministrativa-
mente ha condotto avanti bene la sua piccola azienda e poi,
le ripeto, ho fiducia nel mio intuito. Le offro quindi il posto
di direttore della mia società napoletana. La qualifica e le
condizioni economiche gliele dirà il nostro direttore del per-
sonale, dottor Fusini".
Il raffinato dirigente che sedeva alla destra di Mattoni
aprì un'elegante cartella e con una voce esile ma chiara in-
cominciò:
"La sua qualifica come inquadramento previdenziale sa-
rà di impiegato di prima categoria con funzioni direttive e
procura, per cui il minimo previsto, che sarà da noi riporta-
to sui libri paga, risulta essere..." Consultò un altro foglio.
"... di lire centoquarantasettemila mensili, ma la reale cifra
sarà di lire trecentonovantasettemila mensili per quattor-
dici mensilità. Gli scatti di miglioramento saranno annuali
e pari al cinque per cento, salvo diverse disposizioni miglio-
rative del signor Maffoni".
Quell'uomo mi urtava con il suo tono troppo burocratico.
Mi trattava come se io avessi chiesto di far parte della sua
azienda, ma fortunatamente non era così. Io ero stato pre-
gato di farvi parte, e insistentemente. Ero io quello che do-
veva dettare le condizioni. Alzai la testa e guardai fisso sen-
za alcuna timidezza il signor Maffoni.
"Egregio signor Maffoni, sì, il dottor Garofani mi ha rife-
rito la sua offerta e desidero innanzitutto ringraziarla per
la fiducia che mi dimostra. Ma, vede, io non ho ancora ac-
cettato e ciò non perché non ritenga interessante l'offerta,
ma per alcuni motivi precedenti a questo nostro incontro e
altri che nascono ora. Glieli elenco. Primo, come sa ho
un'azienda avviata che in breve tempo ha raggiunto buone
posizioni sia di prestigio che economiche, ma sarei poco in-
telligente a nascondere a lei, sicuramente informato, che la
situazione attuale è ben differente da quella del maggio
scorso quando accettai la borsa di studio della Van Gogh.
298
Sono però convinto che la situazione di allora con qualche
mese di intenso lavoro possa essere ripristinata, se non mi-
gliorata. Secondo, dopo i risultati di Parigi e Londra ho de-
ciso di completare anche gli studi italiani di ingegneria e
quindi ciò contrasta con l'incarico da lei offertomi. Terzo,
mi si parla di impiegato di prima categoria e qui non ci sia-
mo. Condizione base è la qualifica a dirigente. Infine lo sti-
pendio è ottimo, ma non sufficiente per rinunciare alle mie
precedenti decisioni".
L'espressione di Maffoni era diventata accigliata e notai
alcuni gesti di nervosismo e insofferenza. Per un attimo
credetti che stesse per liquidare la partita mandandomi a
quel paese. Ma non fu così. In breve il viso di pugile si ri-
compose e si aprì ad un largo anche se brutto sorriso.
"Cruni, quando mi dicevano che lei è un duro, non aveva-
no certamente torto. Se alla sua età mi avessero offerto
quanto sto offrendo a lei, mi sarei precipitato ad accettare.
Invece lei no. Precisa e pone delle condizioni! No, non ho
proprio sbagliato nel giudicarla, ma mi stia a sentire. Lo sa
che nessuno a ventisei anni ha la qualifica ufficiale di diri-
gente, anche se ne ha i compiti? Sarà dirigente, ma non su-
bito. Diciamo fra due anni, anzi no, uno, se il dottor Fusini
riuscirà a risolvere le relative difficoltà. Sa lei quanti sono
ufficialmente dirigenti nel nostro gruppo che conta oltre
mille dipendenti? Glielo dico io, solo otto e una quindicina
sono invece di prima con funzioni direttive. È vero,
Fusini?"
"Sì, signor Maffoni", rispose la vocina del direttore del
personale.
"E poi per lo stipendio, ma già le ho offerto il massimo
che viene corrisposto nel nostro gruppo che è uno di quelli
che paga di più. Tenga anche presente che viene dato a diri-
genti con più anni di anzianità... E poi, scusi, quanto le ren-
deva la Cruni & C.?"
Decisi di rischiare ancora.
"Sicuramente meno, signor Maffoni, ma non è detto che
non possa rendere di più. Eppoi è qualcosa di mio e a me
299
piace essere indipendente".
"Anche laMERIDIONAL SOFIRI lo sarebbe. È il diretto-
re e non dovrà certo dipendere da alcuno. Seguirà solo le
mie direttive generali. Per il resto è lei che dovrà decidere,
certamente sempre entro i binari che di bimestre in bime-
stre tracceremo. E poi sa che le darò la procura? Il che, co-
me sa benissimo, significa che la sua firma varrà quasi
quanto quella dell'amministratore delegato. Ma che vuole
di più?"
"Io nulla, perché nulla ho chiesto, ma, se proprio lei mi
vuoi fare accettare, la qualifica a dirigente immediata e un
maggiore guadagno. Scusi, signor Maffoni, ma è mia abitu-
dine essere chiaro subito".
Ancora una volta ritenni di aver superato i limiti. Avevo
capito che gli piacevano i tipi decisi, così come sicuramente
era stato lui, ma il troppo è troppo! Fortunatamente la bat-
taglia che si svolgeva entro Maffoni si risolse ancora una
volta in mio favore e:
"Fusini, è possibile farlo dirigente subito?"
Il lungo direttore consultò carte e libretti e rispose con
evidente contrarietà:
"Sì, con parecchie difficoltà, ma penso di riuscirci".
"Ebbene, allora vada per dirigente. Per quanto riguarda
il maggior guadagno, sa che le dico? Consideri la MERI-
DIONAL SOFIRI come la sua azienda e la faccia produrre
al massimo. Le assegnerò, oltre lo stipendio, lo zero due per
cento del fatturato annuale con liquidazione a gennaio di
ogni anno. È contento così?"
Avrei tanto voluto conoscere il fatturato previsto, ma non
era il caso di insistere eppoi non era tanto il denaro che mi
interessava, ma il prestigio e far capire che con me non ci si
poteva imporre facilmente. C'ero riuscito, ero quindi più
che soddisfatto. Glielo dissi, ma senza mostrare soverchio
entusiasmo. Ci trattenemmo ancora a lungo a parlare del
funzionamento della mia, ormai potevo dirlo, MERIDIO-
NAL SOFIRI, dei compiti affidati, dei dipendenti e conve-
nimmo mi sarei trattenuto ancora alcuni giorni a Firenze
300
per conferire con i responsabili dei vari settori e per com-
pletare la mia istruzione sui meccanismi SOFIRI ai quali si
sarebbe ispirata la MERIDIONAL SOFIRI.
A ventisei anni ero un dirigente industriale! Appena due
anni dopo aver iniziato a lavorare come un modesto ap-
prendista rappresentante dal vecchio Mortini. Sì, erano ap-
pena due anni. Sembravano molti di più. Quasi una vita per
ricchezza di avvenimenti, conoscenze, esperienze e cambia-
menti.
301
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine   L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine EmptyMar Dic 30, 2008 2:33 pm

CAPITOLO XXXI
Quel mese di gennaio fu ancora più intenso, se ciò fosse
stato umanamente possibile, rispetto ai precedenti e colmo
di riconoscimenti. Avevo una qualifica e un incarico di mia
piena soddisfazione, che fu ingigantita, se non del tutto ge-
nerata, dal senso di rispetto e di invidia che suscitavo fra i
conoscenti e principalmente fra i parenti, anche quelli a me
più vicini. Ma solo Annamaria e pochi amici erano sincera-
mente partecipi del mio successo. Gli altri abbozzavano
complimenti e congratulazioni con sguardi non limpidi e
palese impaccio. Questo giovane, che avevano considerato
se non proprio uno sconfìtto dalla vita perlomeno uno che
si avviava a percorrerla con notevoli frustrazioni, solleci-
tando così piacevolmente il sadismo che sonnecchiava nel
profondo del loro io, doveva davvero rappresentare una
grossa e continua pena per costoro, vedendolo occupare
una posizione così importante, essere alla testa di oltre cen-
to dipendenti, essere insediato nel suo ampio ed attrezzato
ufficio, prendere in fitto un lussuoso appartamento nella
via più chic della città, acquistare una nuova e veloce auto-
mobile, far vestire la moglie presso sartorie che contano. E
non potevano certo dire che quanto avevo raggiunto fosse
frutto di raccomandazioni o di fortuna. No, non era proprio
possibile dirlo, pur con tutta la buona volontà! Nell'am-
biente di lavoro ero troppo stimato per poterlo fare!
Naturalmente non tutto era facile come dall'esterno po-
teva apparire. La giovane età e l'aver assunto di colpo l'in-
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carico di direttore senza aver fatto la trafila che consuetu-
dinariamente veniva svolta nell'ambito di una stessa azien-
da o presso altre similari, mi avevano posto di fronte a
grossi problemi. Il principale fu l'atteggiamento da assu-
mere con i dipendenti. Questi non erano i tre che avevo avu-
to con me nella Cruni & C., ma tanti di più e con qualifiche
ben diverse. Vi erano ingegneri, geometri, periti, ragionie-
ri, capisquadra, operai specializzati e qualificati, tutti o
quasi con notevole esperienza. E i settori erano tanti! Il tec-
nico, l'amministrativo, il commerciale...
Presi di petto la situazione e con alcune riunioni e visite
riuscii a fare una buona impressione su tutti e a ottenere la
loro stima. Mostrai sicurezza con quelli che reputai richie-
dessero questo, invece desiderio di collaborazione fino a
giungere anche alla tacita richiesta di una certa guida con
altri perlopiù anziani che avevo giudicato più intelligenti
ed esperti e in possesso di saggezza sufficiente tale da far
loro capire che il direttore non è il "padreterno" che tutto
sa e tutto fa bene.
La mia giornata era intensissima e senza orario. A volte
lavoravo anche per diciotto ore, interrotte soltanto da una
breve pausa. Avevo la responsabilità dell'ufficio, dei quat-
tordici cantieri distribuiti fra Colleferro e la Sicilia, dei
rappresentanti e spesso facevo puntate a Firenze.
Non tralasciavo però neanche la vita di società e la sera
frequentemente aderivo, anche se stanco e assonnato, ai
continui inviti che ci venivano rivolti. Non tanto per me, ma
per Annamaria ero lieto di quella nuova considerazione che
aleggiava intomo a noi e delle continue raccomandazioni
che mi venivano direttamente o a mezzo di mia moglie ri-
volte.
Annamaria come me non amava quel tipo di vita e, dopo i
primi tempi, preferimmo trascorrere la domenica da soli
nelle tante belle località che contornano Napoli, come Posi-
tano. Amalfi, Sorrento e Capri. Ma sempre più spesso era-
vamo a Roma da Edoardo e Liliana e, quando era possibile,
facevamo rapidissime puntate a Montecarlo, Nizza, Can-
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nes, insomma in quella splendida zona che è la Costa Azzur-
ra, con i suoi casino, night, cabaret, ville e insenature mera-
vigliose, dove nessuno ci conosceva e potevamo, nell'anoni-
mato, dare libero sfogo al desiderio di vivere e agire non se-
condo la posizione sociale, ma la nostra giovane età e quin-
di esprimere liberamente la più sfrenata allegria. Quelli
erano per me i veri momenti di riposo nei quali non ero co-
stretto ad assumere gli "atteggiamenti" che la gente che
frequentavo nelle comitive napoletane o nel lavoro sembra-
vano attendersi da me.
L'organizzazione della SOFIRI, che con alcune varianti
veniva adottata anche da noi, era un vero e proprio gioiello
e qualche volta addirittura geniale. Ad esempio le nostre
squadre, che operavano presso i grandi stabilimenti pro-
duttori di materiale ferroviario, erano organizzate in que-
sto modo: il caposquadra era il responsabile verso di me
dell'esecuzione a perfetta regola d'arte dell'isolamento ter-
moacustico di carrozze viaggiatori, carri frigoriferi, loco-
motive ecc. e gli veniva forfettariamente liquidata una cifra
precedentemente concordata "a corpo". Lui a sua volta po-
teva assumere quanti aiutanti voleva e stabilire con loro
dei piccoli cottimi. Tutti venivano presi in forza nei nostri
libri paga, ma le relative retribuzioni non erano a nostro ca-
rico, bensì a carico del caposquadra. Si otteneva così una
regolare copertura assicurativa di tutti gli operai, ma con
una cifra fissa da pagare per ogni lavoro completato. Quin-
di il guadagno della MERIDIONAL SOFIRI era sicuro e ri-
sultante dalla differenza del prezzo da noi praticato alle va-
rie aziende e quello da noi corrisposto al caposquadra, più
assicurazioni varie e spese generali. Ciò permetteva a que-
sti di guadagnare cifre veramente considerevoli e di lascia-
re contenti anche i loro diretti collaboratori che erano infa-
ticabili. Producevano bene, non vi erano lavativi e l'armo-
nia era generale. Non ci capitò mai alcuna contestazione
durante i collaudi che, a consegna del lavoro, avvenivano
alla presenza dei nostri tecnici e di quelli delle aziende
committenti. In breve riuscimmo ad arricchire il primitivo
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nucleo di quasi tutti gli specialisti del settore, per cui la no-
stra ditta, che consegnava sempre in anticipo sui tempi pre-
visti i lavori commissionati, diventava sempre più egemo-
ne.
I capitolati d'appalto, alla voce "isolamenti", riportavano
quasi sempre e in maniera crescente la dizione "tipo SOFI-
RI" e ciò incrementava notevolmente il nostro lavoro e le
nostre maestranze.
La piccola percentuale che mi era stata assegnata sul fat-
turato della società faceva sì che i miei guadagni andassero
a loro volta incrementandosi in maniera cospicua. Ma già
lo stipendio era di gran lunga superiore alle mie necessità,
per cui navigavo in un assoluto benessere economico. Ma
non era solo questo che mi interessava. Ben più appaganti
erano certe richieste di favori che io, giovane ventiseienne,
ricevevo da autorevoli personaggi, come il direttore della
filiale meridionale della grande Chianciani S.p.A., una delle
prime cinque aziende italiane, che venne con i suoi capelli
bianchi e la sua lunga esperienza dirigenziale, quasi piaten-
do, a chiedermi di concedergli alcuni miei operai per com-
pletare un lavoro senza uscire dai tempi stabiliti. Acconsen-
tii senza indugio e non facendo minimamente pesare la mia
posizione in quel particolare momento di superiorità, mo-
strando anzi molta modestia e rispetto. L'anziano ingegne-
re apprezzò il mio gesto e la mia discrezione che risolveva-
no una situazione che avrebbe potuto compromettere tanti
anni di onorata carriera. Mi fu molto grato e lo dimostrò
per anni e anni, mantenendo rapporti sempre gentili e cor-
diali.
Al contrario quelli con i miei colleghi di Firenze, ad ecce-
zione di Garofani e Socci, non erano altrettanto buoni, an-
che se formalmente improntati alla massima correttezza.
Io, così giovane, davo loro ombra e le loro previsioni di miei
insuccessi, se non immediati almeno a breve scadenza, era-
no state frustrate dal consolidamento sempre crescente
della mia posizione e della stima di Maffoni che, ad ogni
mia visita a Firenze, mi invitava nella sua splendida villa
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dove mi colmava di cortesie.
I cari colleghi cominciarono a boicottarmi in tutti i modi:
gli operai più lavativi, i macchinari più difettosi, le prati-
che o gli incontri più rognosi venivano, con varie scuse, di-
rottati presso di me. Durante le mie frequenti assenze da
Napoli per visite di controllo presso i vari cantieri o per ag-
giornamenti tecnici a Parigi, avvenivano incidenti e compli-
cazioni.
L'invidia è davvero una brutta bestia e riesce a danneg-
giare quasi quanto i cataclismi naturali. Fui costretto, sem-
pre più spesso, ad occupare parte del mio tempo produttivo
con visite a Firenze, durante le quali cercavo di parare i col-
pi che mi venivano portati così proditoriamente.
Annamaria si ammalò recandomi altre preoccupazioni e i
cari parenti non riuscirono o non vollero darle quell'assi-
stenza che io, impegnatissimo nel lavoro e spesso fuori se-
de, avrei desiderato.
Sottile si incominciava nuovamente a insinuare nella mia
mente, anche se in forma molto attenuata, la carenza di
quel requisito che rende, secondo quel maledetto ambiente
nel quale ero cresciuto e nel quale in parte ancora vivevo,
totalmente "eletti".
La stanchezza di quel lavoro stressante e le preoccupazio-
ni incominciarono a rendermi più nervoso e meno sereno
nei giudizi. Alcune relazioni normali con Maffoni e alcuni
colloqui con lui, che fondamentalmente non erano diversi
dai precedenti, iniziarono a far risvegliare un'altra delle ne-
vrosi che il mio ambiente mi aveva regalato. L'insofferenza
alla dipendenza. Non è l'individuo che è nevrotico, ma l'am-
biente che lo circonda, dice Jung.
Incominciai a intravedere imposizioni che non esisteva-
no. Alcune nuove iniziative del titolare della MERIDIONAL
SOFIRI, che avrei accolto solo qualche tempo prima con en-
tusiasmo perché interessanti e originali, mi irritarono e co-
minciai a essere meno gentile con lui.
Un imprevisto intervento chirurgico subito da Annama-
ria e una successiva gravidanza extrauterina, mi turbarono
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molto e incominciai a pensare che hanno ragione a Napoli
quando affermano che "possono più gli occhi che le schiop-
pettate".
Insomma tutto il lavoro mi sembrò meno affascinante ed
appagante e sempre più forte ricominciarono a far capoli-
no i primitivi pregiudizi e quindi il desiderio di piantare
tutto, andare fuori, riprendere e completare gli studi.
Quant'è terribile il veleno che ci viene inculcato da ragaz-
zi! Costituisce la forza guida della nostra vita! E forse il ve-
ro destino! Ma allora non me ne rendevo pienamente conto,
altrimenti a qualsiasi costo sarei andato diritto per la mia
strada. Ma non lo feci. Le "voci di dentro" si stavano sem-
pre più impadronendo di me e fu verso la fine dell'anno che
presi spunto da un piccolo dissidio con Maffoni, provocato
da quel maledetto istinto - regalo dell'ambiente - all'au-
todistruzione, per presentare le mie dimissioni.
Avrei proseguito gli studi che ora potevo portare avanti
con tranquillità, dato il benessere economico che mi ero
procurato. A nulla valsero gli interventi sinceri di veri ami-
ci, come Garofani e Socci e nemmeno quelli di Edoardo
Sardi. Anche un'allettante offerta, propostami dalla mag-
giore concorrente della SOFIRI con condizioni ancora mi-
gliori, non mi fece deflettere dal proposito, generato da quel-
le forze che erano intimamente dentro di me.
I primitivi pregiudizi avevano vinto!
Mi accingevo a diventare un "eletto" secondo la più vieta
e tarda tradizione.

* * *

Una lama cruda di luce penetrava fra le stecche dell'av-
volgibile e finiva proprio sui miei occhi. Li aprii, mi rigirai
e affondai il viso nel cuscino. Volevo a tutti i costi riprende-
re a dormire, ma una voce dietro la porta squillò:
"Gianni, c'è Vittorio al telefono. Chiede quando vai a
prenderlo per andare all'università... dice di fare presto!"
Oh, cavolo, come avevo fatto a dimenticarlo. Dovevo cor-
307
rere a dare uno degli ultimi esami.
In quell'anno avrei dovuto terminare assolutamente gli
studi. La laurea in ingegneria e poi l'azienda paterna mi at-
tendeva!
Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh

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L'INSERIMENTO dal cap. XXVI al XXXI Fine
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