BRUNO COTRONEI E I SUOI LIBRI
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 L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.

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Bruno
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MessaggioTitolo: L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.   L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. EmptyLun Dic 29, 2008 2:51 pm

COPERTINA
L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. 11copr10

IV DI COPERTINA:
L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. Ss_iv_11


L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. 11coprlinserimentorw6.th
DA INSERIRE NELL' EBOOK  COME  PREMESSA

QUESTO MIO LIBRO CHE ORA DIVENTA UN EBOOK DA PARTE DELLA YOUCANPRINT
E' stato il mio primo romanzo. Scritto nel 1980, fu pubblicato nel 1981 dal noto editore SugarCo che lo inseri' al numero 62 della sua prestigiosa collana "I giorni".
Il romanzo vinse alcuni premi letterari e molto buoni furono le vendite ed i riscontri critici. Eccone alcuni stralci:

IL SECOLO XIX, GENOVA. Vincenzo Guerrazzi.
«Quest’uomo che produce un Balzac è un ingegnere: è un vulcano d’idee e potrebbe diventare il Mastronardi di Napoli... Il romanzo “L'inserimento” ha tutte le carte in regola per entrare nelle patrie lettere... Questo scrittore va incoraggiato: ha diritto di continuare a scrivere fuori del giro dei romanzi della Rosa e dei manufatti della Ditta Mora­via, questo scrittore-ingegnere è in grado di scrivere un romanzo di massa per il popolo.. . »

IL MATTINO, NAPOLI. Salvo Vitrano.
«Aperto da una pittoresca scena-prologo che ritrae un gruppo di giovani d’oggi stretti tra vertigini consumistiche e rabbie di disoccupa­zione incombente, il nuovo romanzo di Bruno Cotronei, “L'inserimento" (editore Sugarco, pagine 326, L. 8.000), prende spunto da questa visione per rievocare l’esperienza di avviamento al lavoro compiuta da un ventiquattrenne della media borghesia napoletana all’inizio degli anni Sessanta. Il protagonista narrante, Gianni Cruni, abbandona gli studi d’ingegneria quasi conclusi... La mentalità dell’ambiente familia­re e sociale, che disapprova la scelta di non puntare senz’altro al pre­stigio d’una “vera” libera professione, e il suo rispecchiarsi in qualche modo nelle convinzioni e nei disagi del giovane, emergono con pun tua­lità, e completa l’oppressivo quadro il periodo di collaborazione con un anziano rappresentate di materiali elettrici, figura di un mondo decre­pito e borioso che sopravvive per forza d’inerzia... Riportato alla realtà dall’inevitabile rottura con il vecchio, Gianni parte pieno di grinta ver­so Milano dove talento e fortuna gli permettono d’intraprendere una rapida e brillante carriera. Al racconto s’intrecciano episodi sentimen­tali ed erotici vissuti come al margine del fondamentale desiderio di sistemazione economica e sociale... fa pensare ad un personaggio di De Foe trasportato nell’italia del boom, tra gli splendori e le miserie delle aziende del miracolo e le crescenti minacce degli apparati burocratici. Lo stile asciutto e la vivacità delle situazioni rendono spedita la lettura. Le perplessità che si possono provare in qualche punto trovano spiega­zione nell’imprevisto finale che investe d’un ironica luce tutta la vicen­da e la fa diventare percorso simbolico della gabbia d’ideologia perbe­nistica in cui era rinchiusa la gioventù borghese di una ventina di anni fa. Proprio come la gioventù d’oggi, intravista nel prologo, è prigioniera dell’ideologia contestataria. Allora come oggi, sembra dire l’autore, la realtà è molto più complicata e resistente di quella desiderata nei mo­menti d’illusorio abbandono».


PAESE SERA, ROMA. Ugo Piscopo.
«... L’autore, che è nato e vive a Napoli, è un intellettuale fecondis­simo e versatile... In questo suo libro, che si ricollega agli altri due finora pubblicati per essenzialità di scrittura e per la limpida esempli­ficazione delle questioni, si affronta un tema delicatissimo, l’inseri­mento dei giovani nel mondo del lavoro e, per metafora, in quello an­cora più complesso della vita. il protagonista, Gianni Cruni... è assun­to a simbolo di una generazione catturata dalle attrattive del benessere, o almeno di un’effettiva indipendenza economica dalla famiglia e dal­l’ambito sociale di appartenenza. Generosamente e coraggiosamente proiettato verso la realizzazione di questo sagno... Gianni si muove da un capo all’altro dell’Italia del cosiddetto “miracolo economico” costa­tando gli squilibri e le contraddizioni di un paese, che s’ispira ad un modello di società industrialmente e tecnologicamente avanzata e che intanto è appesantito da situazioni di arretratezza e da sacche vasta-mente estese di povertà... Una notte che resta privo di benzina in alta Irpinia, verso Bisaccia, prende contatto con un mondo di orrore e di allucinazjone, dove le distanze si allungano paurosamente alludendo ad avamposti di deserto e le persone sembrano schiacciate da una gra­vezza di vita. Il protagonista, pero, può anche immergersi nelle atmo­sfere frizzanti delle metropoli industriali del Nord, dove si muove con disinvoltura e ottimismo, ma dove lo accompagnano anche sottili e melanconici ricordi delle terribili realtà meridionali. Tutta la sua forza è nell’estro e nella vitalità, anche animale della sua persona, a cui può ~ deve fare riferimento costantemente di fronte alle verifiche della diffi­denza e dell’egoismo, obbligatorie per chi si debba iniziare alla vita. E gradualmente il racconto si fa sempre più denso di allusioni ad altre dimensioni e ad altre realtà, tuttavia senza che perda mai la sua cifra fondamentale di corposo e descrittivo naturalismo».


LA REPUBBLICA, ROMA. Mario Testa.
«L’interessante libro di Bruno Cotronei descrive, secondo i moduli della narrativa neorealista, i problemi dei giovani, in conflitto con i genitori e con i pregiudizi borghesi, e le difficoltà d’inserimento nel mondo del lavo­ro. “I giovani sono il frutto dell’ambiente familiare e della società che li circonda — asserisce l’autore nell’efficace prologo—. La nostra generazio­ne ha subito quel sovvertimento dei valori causato dalla seconda guerra mondiale... Certo, noi oggi, bene o male, siamo inseriti, ma dimentichia­mo quanto noi stessi, chi più chi meno, abbiamo dovuto lottare per rag­giungere quel tale inserimento che ci soddisfacesse e per quanto tempo?”. Eccoli, i figli degli anni Sessanta: tra i volumi di Freud, di Marcuse, di Sartre, e i dischi di Pink Floyd o di Dire Straits; con la vespa 50, se gli affari non vanno bene, o con la moto giapponese di grande cilindrata. Pretendono i loro diritti, tutti anche la droga!, e si stordiscono per dimen­ticare i più pesanti problemi d’inserimento di oggi. Solo per la scuola, nessuna preoccupazione, dalla prima elementare alla laurea, il buon voto è sicuro. Il disadattamento sembra inevitabile. Ma il dinamico protagoni­sta del romanzo, Gianni Cruni, un ‘figlio di famiglia” di tempi passati, desideroso d’indipendenza e risoluto ad abbandonare gli studi universita­ri per un utile posto in società, non è ancora vittima delle nevrosi, che incombono su quelli della sua generazione, e combatte per vincere. Egli non condivide il parere dei suoi (‘qual era la razza eletta secondo quello che si diceva in casa mia? Innanzitutto i professionisti :gente superiore!”) e vuole presto inserirsi. L’attualità dei temi.., emerge drammatica e le molteplici esperienze del giovane Cruni inducono a riflessioni spesso do­lenti. Gli stati d’animo del protagonista, non privo di abilità ma costretto all’attesa, le contraddizioni ed i sogni dell’adolescenza inquieta, i diversi personaggi, ora diffidenti e legati a strutture convenzionali, ora simpatici e premurosi (assumono un immediato rilievo le figure femminili) sono scolpiti con finezza psicologica. E la narrazione dei non facili impatti con la realtà quotidiana è sempre lineare... L’abile disegno della società con­temporanea e le pagine di misurata ed opportuna polemica costituiscono i risultati migliori».


Ultima modifica di Bruno il Lun Gen 21, 2013 2:38 pm - modificato 2 volte.
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.   L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. EmptyLun Dic 29, 2008 3:01 pm

PROLOGO
Siamo a cena dai Lanna, i nostri buoni amici Prof. Dott.
Nico Lanna e la moglie Milena. Una quieta coppia sui
quaranta/cinquant'anni: lui medico primario anestesista
con tré docenze, lei insegnante di musica alle scuole medie
superiori. Abitano una villa dei primi del secolo in un paese
una volta frequentato per tranquille villeggiature, che la cit-
tà ha inglobato nella sua periferia ingabbiandola fra alti e
densamente popolati palazzoni. Hanno cinque figli tutti bel-
li, tutti alti, tutti in piena salute: sembrano l'immagine di
una famiglia americana o svedese così come i films prima e i
viaggi poi ce le hanno fatte conoscere. Ci ripromettiamo una
serata tranquilla, distensiva che smorzi le tensioni della
giornata di lavoro. Vogliamo parlare di cose futili, ascoltare
qualche disco di Paoli, beninteso, o tutt'alpiù di Battisti pri-
ma maniera, vogliamo giocare a cun-cain, o alla dama nera.
Il poker no, è troppo eccitante e poi non è un gioco da amici.
Lo giochiamo già troppo di frequente e, alla fine, siamo agi-
tati per la battaglia vittoriosa o irritati per la somma persa.
Ma fortunatamente i Lanna non lo giocano. Con loro si può
davvero trascorrere il tempo in una tranquilla distensione.
In definitiva è una coppia appagata. La tranquillità econo-
mica, il raggiungimento di un buono "status" sociale,
un'abitazione ampia e decentemente arredata, tré automo-
bili, il fuoribordo a mare e cinque bei figli in buona salute.
Già, i figli!
Li troviamo in agitazione, Nico e Milena, non i figli. Quelli
non ci sono, sono usciti tutti, anche il più piccolo che ha
quindici anni. Lo ha fatto per protesta, il padre nonio ha vo-
luto accompagnare allo stadio per il concerto di Bennato.
Ora ne è pentito. I giovani della fine anni settanta non sono
come quelli degli anni cinquanta. Sono coscienti dei loro di-
ritti e li pretendono tutti! Con violenza, con sicurezza, con il ricatto.
Hanno letto Freud, Jung, Sartre, Marcuse; partecipano a
collettivi di ogni genere, sono negli ARCI nei sindacati sco.
tastici, in qualche radio privata. Fanno i disk-,jockeys, gli in-
tervistatori, i camerieri, i gestori di discoteche, partecipano
a piccoli traffici di droga leggera. Hanno l'automobile, la
moto giapponese di enorme, media e piccola cilindrata. Nel-
la peggiore hanno la Vespa 50. Fanno un maledetto rumore
con la marmitta truccata; camminano spesso su una ruota
sola, vanno con sicurezza per i sensi vietati Hanno lo stereo
di potenza 20, 40 e 80 Watt a cassa e mandano dischi di Ge-
nesis Pink Floyd, Dire Straits a tutto volume a qualsiasi ora.
Debbono stordirsi, debbono dimenticare che l'inserimento
nel mondo del lavoro non sarà facile. Tutti studiano o sem-
brano farlo, tutti arrivano alle medie superiori, quasi tutti al
diploma e moltissimi all'università e alla laurea. Hanno pre-
teso corsi, esami e professori facili. In alcuni casi si sono da-
ti loro stessi il voto di esame. I giornali, i partiti li hanno ap-
poggiati. Via il nozionismo, via le troppe materie di esame,
via i troppi e allucinanti scritti.
Tutti diplomati, tutti dottori. Via dalle campagne La zap-
pa in mano è un'assurdità. Anche la chiave inglese, la sega, il
martello, la tenaglia, la pialla, il giravite via. Al più la salda-
trice elettrica, i circuiti stampati, la valigetta con i moduli.
Via nel cestino il guasto, su il nuovo.
Auto vecchie, mobili vecchi, vestiti vecchi, scarpe con le
suole consumate, via. Si comprino le nuove!
Ma attenzione, chi le fa? Le catene di montaggio sono
alienanti, i vapori dei collanti dannosi, gli altifomi troppo
caldi, l'industria pesante troppo rumorosa.
Tutti impiegati e non uscieri, tutti medici e non infermie-
ri, ingegneri e non capisquadra, magistrati e non cancellieri,
dottori analisti e non tecnici di laboratorio, oculisti e non ot-
tici, odontoiatri e non odontotecnici.
L'inserimento è difficile sì. Trovare un posto una batta-
glia. Il domani sempre più incerto.
Gli esami dal trenta facile e dal diciotto garantito, dal ses-
santa frequente e dal trentasei sicuro si accumulano, ma a
cosa porteranno?                               .  . .
I giornali commiserano, i partiti piatiscono, i genitori si
agitano. Ma come, dopo anni di studio non si trovano sboc-
chi! Governo ladro, società infelice, giovani con tanto di tito-
lo disoccupati per anni!
Un concorso per l'INPS: duecento posti, ventimila candi-
dati. Un altro in banca: cento posti, quindicimila aspiranti
Quello per assistente ospedaliere, duecento raccomandati. E
la disoccupazione intellettuale!
Ma intellettuale non significa altra cosa? Non è così, atti-
vità intellettuale è quella che concerne l'intelletto. Quasi
che le mani si muovano per forza propria. Ma secondo i gior-
nali gli "intellettuali" sono gli studiosi di chiara fama, gli
scrittori, gli artisti.
Che c'è d'intellettuale nell'impiegato di banca.o nel fun-
zionario di qualsiasi ente che compie sempre le stesse prati-
che? Ma fa chic. I giovani con diploma e laurea, anche se an-
cora da conseguire, sono intellettuali. Tutta la struttura li
spinge a sentirsi disadattati se svolgono attività diverse da
quelle del loro indirizzo di studi.
Debbono allora stordirsi, anche la droga è giustificata.
Nico e Milena si sfogano, non sanno più a che santo votar-
si. La prima figlia è partita per un viaggio all'estero con il
suo ragazzo. Fanno ormai vita di coppia. Da anni la ragazza
ha abbandonato la pillola contraccettiva per adottare la spi-
rale.
Il figlio maggiore rientra in quel momento. Saluta appe-
na. Con lui sono tre quattro ragazzi e ragazze. Si ritirano nel-
la sua stanza. Hanno visi allucinati. Sentiamo lo stereo a tut-
ta potenza e altri rumori dal significato chiaro.
Ci guardiamo imbarazzati. Il giovane compare scapigliato
e scamiciato.
"In questa merda di casa", protesta, "si trovasse mai del
whisky quando serve!"
Milena va a prenderlo da una cassetta avuta in omaggio
quella mattina. Il ragazzo la coglie e va via borbottando.
"Sapessi cosa ho passato per fargli prendere la maturità.
Ho smosso tutte le amicizie, anche a livello politico. L'han-
no fatto ritirare dalla scuola per poi presentarlo in un paesi-
no dell'interno da privatista. Due anni in uno. Un milione al
mese per cinque mesi al professore, tanta ansia e poi final-
mente la promozione".
"Beh, hai risolto un grosso problema, puoi essere conten-
to", dico confortante.
"Macché! Ora l'università, la scelta e poi la sistemazione.
Spero solo che si senta perlomeno per un po' di tempo più
inserito di prima. Vedi, penso che fumi erba".
"Sì?"
"Marijuana e hashish".
"Ah!"
"E si limitasse a questo! Per un pò ' ho temuto si bucasse!"
"Ma gli hai parlato anche come medico?"
"Sì, ho tentato, ma sfugge o mi manda a quel paese... "
"Poveretto!", interviene Milena, "è tormentato dall'incer-
tezza del domani. Dice che i fratelli maggiori dei suoi amici
con tanto di laurea sono disoccupati o guadagnano tanto po-
co da non potersi permettere una buona casa, l'automòbile o
i viaggi".
"Ma mi sembra che pretendano un po' troppo all'inizio".
"Sono tutti così oggi".
"E no. Conosco giovani che studiano e si preparano seria-
mente scegliendo attività dove la concorrenza è minore. Ma-
gari debbono sgobbare di più, imparare davvero la lingua
straniera e non solo a livello dell'I love you. Ma non hanno
poi tanti problemi".
"Dice che il padre che ha studiato tanto, lo stesso non ha
raggiunto il vero benessere economico. Non abbiamo la
grande barca, non ho tanti gioielli e le nostre villeggiature
sono modeste. I Sindona, i Crociani o quei chirurghi che
prendono milioni per ogni intervento e che operano tutti i
giorni anche se non è necessario, quelli sì ci sanno fare!"
Un sospetto.
"Ma, scusa, Milena e principalmente tu, Nico; ma siete cer-
ti di non esservi lamentati voi di queste cose quando era più
piccolo?"
Arrossiscono.
"Mah, forse sì. Quando sono rimasto 'aiuto'per tanti anni
e altri mi scavalcavano per le raccomandazioni e non per i
titoli, quando medici della mutua con capacità professiona-
le praticamente nulla guadagnavano quattro volte quello
che guadagnavo e guadagno io, sì, l'ho detto".
"Ebbene, scusami, ma queste sono le conseguenze, anche
se naturalmente non dipende solo da te, ma da tutta la no-
stra sballata società. Non siamo mai contenti e noi stessi
non abbiamo mai compreso quali fossero i veri valori. Non
potevamo certo inculcarli ai nostri figli. Tu lo sai quanto me
che i ragazzi o meglio i bambini sono come delle spugne: as-
sorbono tutto, ma non tanto quello che si dice per casa o
nell'ambiente, l'atmosfera, le frustrazioni, le aspirazioni più
nascoste, oggi come ieri e come l'altro ieri. Nulla in effetti
cambia. I giovani sono il frutto dell'ambiente familiare e
della società che lo circonda. La nostra generazione ha
subito quel sovvertimento dei valori causato dalla seconda
guerra mondiale e dal benessere portato da società tecnolo-
gicamente più avanzate come quelle anglosassoni. I nostri
nonni forse avevano idee più precise, anche se probabilmen-
te non giuste, sui valori reali e riversavano anch'essi sui fi-
gli, i nostri genitori, speranze e aspirazioni e noi, ripeto, an-
cora non siamo riusciti, nonostante la nostra età, a com-
prendere i veri valori. Vorremmo tutti lo 'status' sociale e i
soldi, una condotta onesta e il superbenessere. Ma come si
fa? Abbiamo snobbato gli artigiani e oggi incominciamo a
comprendere cosa davvero valgono. Ma lavorano con le ma-
ni, si sporcano, spesso hanno la tuta e il nostro ambiente ha
sempre respinto la tuta come elemento squalificante. Certo,
noi oggi, bene o male, siamo inseriti, ma dimentichiamo
quanto noi stessi, chi più chi meno, abbiamo dovuto lottare
per raggiungere quel tale inserimento che ci soddisfacesse e
per quanto tempo? E l'influsso dei nostri padri? La storia si
ripete. Qualcuno di noi ha imparato la lezione ed è riuscito a
mostrare ai propri figli un'immagine di moderato equili-
brio. Ma molti hanno fallito anche in questo. Siamo però in
buona compagnia e poi, diciamo la verità, perlomeno i gio-
vani di oggi reagiscono a viso aperto, gridano, protestano,
dicono male parole alla nostra presenza, a quella degli inse-
gnanti, a quella dei superiori. Da qui forse la salvezza. Noi
no, subivamo e sopportavamo e le nevrosi si accumulavano.
Fai mente locale. Ricorda di te, di nostri amici, ricordiamoci
delle nostre esperienze..."


Ultima modifica di Bruno il Lun Gen 21, 2013 2:32 pm - modificato 1 volta.
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CAPITOLO I
Quando decisi di lasciare l'università, due strade mi si
aprivano: l'impiego in banca o l'attività di rappresentante.
Nella mia casa avevo sempre sentito dire che gli impiega-
ti altro non erano che dei parassiti e gente senza particolari
ambizioni, destinati a una vita piatta e priva di interessi, le-
gati a precisi orari e alla stretta e asfissiante sorveglianza
di un capo ufficio e di dirigenti vari.
D'altra parte si diceva anche che i commercianti erano
gente di razza inferiore, dediti a truffare o quasi i clienti, a
trattare e mercanteggiare continuamente e levantinesca-
mente ogni cosa.
Qual era la razza eletta secondo quello che si diceva in ca-
sa mia? Innanzitutto i professionisti: gente superiore!
Oppure gli imprenditori, beninteso quelli industriali.
Gente forte, gente che crea e costruisce, gente che da lavoro
agli altri, gente indipendente!
L'ideale assoluto era quindi l'imprenditore laureato. In
lui si sommavano le grandezze di ambedue le attività!
Cos'era un rappresentante per la mia famiglia?
Un individuo di razza media, ma non certamente alta-
mente rispettabile come i professionisti o gli imprenditori
industriali, ne tantomeno come gli industriali laureati. Co-
munque il suo ceto era considerato un po' meno basso di
quello del commerciante. Inoltre di sicuro più indipenden-
te dell'impiegato.
In definitiva il rappresentante prospetta e vende prodotti
di vario genere. Egli però non vende per conto proprio —
cosa orribile! — ma per conto di un'azienda a industriali, a
commercianti, a enti pubblici o privati e le sue mani non
toccano direttamente — cosa obbrobriosa! — il denaro del-
la vendita. In aggiunta positiva, se la ditta rappresentata
produce qualcosa di "tecnico", egli stesso assume la figura
del tecnico. Inoltre il rappresentante o agente di commer-
cio non è dipendente della ditta che rappresenta o ditta
mandante, ma ha con essa un rapporto autonomo entro i li-
miti del contratto e può anche assumere più incarichi di
agenzia da parte di molte ditte.
In definitiva può essere considerato una specie di profes-
sionista con un proprio ufficio e propri dipendenti. È quin-
di un piccolo imprenditore.
La mia decisione, con tali premesse, era scontata in par-
tenza, anche se nella mia famiglia una voce petulante, ma
proprio per questo non molto ascoltata, suggeriva sommes-
samente che l'impiego sicuro, lo stipendio a fine mese, il la-
vorare in un ambiente pulito e sano — almeno esteriormen-
te — potevano costituire l'ideale per chi, appartenendo a
una famiglia benestante, avrebbe affiancato allo stipendio
"sicuro" una piccola rendita.
In me però il "lavaggio del cervello" subito per tanti anni
trovava riscontro nel fatto che l'impiego, così come mi era
stato sempre descritto, ricordava la scuola con i suoi orari
fissi, le interrogazioni, gli esami e principalmente i superio-
ri. Inoltre nella scelta, comunque mortificante perché ap-
punto in nessuno dei due casi si trattava di un'attività "elet-
ta", fu determinante la considerazione che qualche rappre-
sentante raggiungeva presto un'invidiabile posizione eco-
nomica. Se fossi riuscito a farlo anch'io, avrebbe significa-
to una specie di rivalsa sulla mortificazione provata.
Ma come iniziare a fare il rappresentante? Non esisteva
un corso, non una strada chiara e precisa.
In casa mia suggerirono che affiancassi come collabora-
tore il marito di una cugina di mia madre, il quale svolgeva
con successo tale attività nel settore elettrico.
Gli fu chiesto se era d'accordo e, per i buoni uffici della
moglie che era molto legata alla mia famiglia, disse di sì.
Mi presentai a lui una mattina molto di buon'ora con una
grande ansia e molta umiltà.
Fui introdotto nello studio dalla moglie che maternamen-
te mi augurò buon lavoro e mi suggerì di fare molta atten-
zione e di avere molta pazienza.
Il commendatore Mortini era un uomo vicino all'ottanti-
na, ma che sembrava molto meno anziano. Piccolo, magro,
completamente pelato, con un grosso naso che saltava fuori
da un volto ossuto caratterizzato prevalentemente da occhi
vivacissimi. L'abbigliamento e i modi erano quelli di un no-
bile decaduto.
Mi accolse con cortesia — aveva avuto sempre simpatia
per me — e mi disse:
"Vieni pure. Ora io esco per andare alla SMEMEL e tu
verrai con me". Prese da un tavolino un'elegante borsa por-
tacarte e, con me al seguito, si diresse verso la porta di ca-
sa.
Prendemmo l'ascensore, attraversammo l'atrio dell'ele-
gante palazzo salutati con deferenza dal portiere e uscim-
mo sulla strada. L'autista privato del commendatore si pre-
cipitò ad aprire lo sportello posteriore della grande e vetu-
sta automobile, lanciandoci con voce squillante un "Buon
giorno, commendatore. Buon giorno, signore". Prendemmo
posto e Mortini con voce imperiosa:
"Alle case puntellate". L'autista mise in moto e partim-
mo.
Ero intimidito, ma anche confortato. 'Perbacco', pensa-
vo, 'guarda un rappresentante com'è rispettato!', mentre
mi domandavo dove mai potessero essere quelle case pun-
tellate. Dopo un po' Mortini si rivolse a me:
"Non sei mai stato alla SMEMEL? È la maggiore cliente
delle Officine Leonardo che io rappresento. L'anno scorso
sono stato per una settimana ospite del professor Di Sagno
nella sua villa di Bari".
"Chi è Di Sagno?", domandai.
"È il presidente della SMEMEL! mio intimo che ho cono-
sciuto tanti anni fa a Milano in casa del fratello di Einstein.
Il cuoco cucina benissimo e hanno dell'olio e del vino eccel-
lenti che sono prodotti nelle loro tenute. Ogni anno me ne
mandano in regalo una buona quantità".
Non sapevo cosa dire, ne ne ebbi il tempo.
"Anche la figlia cucina benissimo e da dei punti a mia
moglie, anche se lui quando è stato a pranzo da me ha detto
che Dear è insuperabile con la sua pizza di spinaci".
Avrei tanto voluto che mi parlasse, invece che delle pizze
di spinaci, della sua attività, della SMEMEL e di tutto quel-
lo che ero ansioso di apprendere, ma mi rendevo conto che
era troppo presto e continuai a sentir parlare di amicizie al-
tolocate, di pranzi e di viaggi il logorroico Mortini.
Giungemmo infine alla vecchia sede della SMEMEL.
Smontammo dall'auto, ci dirigemmo verso l'ingresso e
prendemmo l'ascensore diretti al terzo piano, quello degli
uffici tecnici. Mortini si rivolse a un usciere:
"Sono Mortini. Dica all'ingegner Bracale che desidero
parlargli".
"Sì, si accomodi nella sala d'attesa".
"No, resto qui. Mi riceverà subito".
"Va bene, signore, vado a riferire".
L'aria da padrone del commendatore subì un fiero colpo
quando di lì a poco l'usciere ritornò e disse:
"Commendatore, l'ingegnere ora è occupato e la prega di
attendere".
Con un gesto di stizza Mortini si diresse, con me al segui-
to, verso un salottino ben arredato, ricco di poltrone, sedie,
giornali e riviste varie. Trascorse quasi mezz'ora. Mortini
era irritatissimo, sembrava un leone in gabbia. Uscì dal sa-
lottino, facendomi cenno di seguirlo e, fatti pochi passi nel
corridoio, entrò senza bussare in una grande stanza dove,
dietro scrivanie poste parallelamente l'una all'altra, erano
seduti due uomini di età media.
"Buon giorno", disse Mortini.
I due si alzarono.
"Buon giorno, commendatore. Come sta?"
"Bracale dov'è? Da mezz'ora sto facendo anticamera". E
poi: "Questi è il cugino di-mia moglie che da oggi inizia a
collaborare con me. L'ingegner Pirro e l'ingegner Nemo".
Ci stringemmo la mano. Mi guardavano con curiosità e
uno dei due commentò:
"Bene, commendatore. Era ora che si facesse aiutare nel
suo lavoro. Quanti anni ha e cosa ha fatto finora questo bal-
do giovane?"
  "Ha ventiquattro anni e ha studiato per ingegnere. E qua-
si un vostro collega, gli mancano pochi esami alla laurea".
"E non continua?"
"Per ora no, vuole lavorare". Poi con tono nuovamente ir-
ritato: "Ma Bracale che fa. Io non posso più attendere, ne vi
sono abituato. Vada a dirglielo".
Uno dei due ingegneri uscì dalla stanza e dopo circa cin-
que minuti vi rientrò.
"L'ingegner Bracale dice di accomodarvi da lui".
"Era ora!"
Salutammo e uscimmo. Percorremmo un lungo e stretto
corridoio. Bussammo ad una porta ed entrammo in un'im-
ponente stanza fornita di tre ampie finestre, arredata con
eleganza, con mobili di legno pregiato, tappeti e quadri.
Dietro un immenso scrittoio notai un uomo alto, magro,
con le tempie brizzolate che, in piedi, ci rivolse un sorriso
forzato e tese la mano a Mortini.
 "Commendatore, mi scusi, ma oggi è una giornataccia.
Sono molto occupato e ho pochi minuti. Si accomodi, pre-
go".
"Le presento il mio collaboratore, Gianni Cruni, cugino
di mia moglie".
"Piacere", fece Bracale e mi strinse la mano distratta-
mente.
Ci sedemmo e Mortini si intrattenne qualche tempo con il
dirigente parlando di grandi isolatori per centrali elettri-
che e di un ritardo di consegna per la centrale di Bari. Poi,
dimenticando la sua precedente irritazione, incominciò a
parlare del più e del meno. Si vedeva chiaramente che Bra-
cale aveva fretta e rispondeva distrattamente a Mortini. In-
fine sbottò:
"Commendatore, ora mi scusi, ma ho purtroppo molta
fretta. Mi auguro di poterla vedere un altro giorno con più
calma".
"Ah, sì, d'accordo. Arrivederci". Si alzò di scatto e si di-
resse verso la porta. Lo seguii dopo avere a mia volta salu-
tato.
In ascensore e nell'atrio l'anziano Mortini non fece altro
che parlare male dei dirigenti di oggi, giunti chissà come a
posti di grande responsabilità senza possedere alcuna edu-
cazione. All'autista comandò:
"A casa!" E in auto proseguì: "Ricordo venti anni fa che
ambiente c'era alla SMEMEL! Che signori! I dirigenti era-
no quasi tutti nobili come il marchese d'Orazio e il conte
d'Acquara. Fior di tecnici e di gentiluomini". E così di se-
guito.
Giungemmo finalmente al palazzo. Qui Mortini prese la
posta e insieme salimmo a casa, dove ci recammo diretta- —-.
mente nello studio. Si sedette dietro lo scrittoio antico di
noce a massa e mi fece cenno di sedere. Da uno sportello
prese un copricapo tipo basco con il quale ricoprì la testa
calva e poi incominciò ad aprire la corrispondenza che era
composta di una decina fra lettere e piccoli pacchi.
Rimasi seduto dall'altra parte dello scrittoio annoiando-
mi e non sapendo cosa fare esattamente. Mi sentivo in diffi-
coltà e incominciavo a pensare che qualcosa non andasse
con quello snob.
Dopo un po' Mortini mi porse una lettera e poi via via tut-
te le altre. Finalmente avrei potuto vedere qualcosa di inte-
ressante. Cominciai a leggere con avidità. Si trattava di vari
tipi di lettere provenienti in gran parte dai tanti uffici della
SMEMEL, come quello approvvigionamenti, tecnico e am-
ministrativo. Altre lettere erano delle Officine Leonardo
che, mi resi conto, costituivano il punto di forza dell'attivi-
tà di Mortini, altre ancora di una certa ditta di morsetteria
Gattago di Milano. In definitiva erano lettere di richiesta di
offerta materiali, preventivi, ordini e conferme di ordini
fra le ditte produttrici e quelle acquirenti, .avente centro di
smistamento il rappresentante in esclusiva per la Campa-
nia, commendatore Mortini. I prodotti erano grandi tra-
sformatori, interruttori, isolatori e morsetteria elettrica
per grandi centrali o per grossi complessi industriali. Era-
no le dodici circa quando Mortini disse:
"Ora basta, andiamo a vedere Dear cosa ci ha preparato".
Passammo nella sala da pranzo dove Dear, ossia la mo-
glie, ossia la cugina di mia madre, era già lì pronta, tutta
gentile e premurosa verso entrambi. Ci fece sedere ad una
tavola imbandita con cura e fece servire dalla domestica
dei cibi squisiti e di fattura non comune, nei quali si poteva
notare una grande passione per l'arte culinaria. Durante il
pranzo la conversazione fu condotta da Mortini sui cibi, su
aneddoti relativi ad essi, su pranzi memorabili ai quali ave-
va partecipato il padrone di casa con persone importantis-
sime e in generale sulla sua vita ricca di tante esperienze.
Non potevo fare a meno di ammirare la vitalità di quel
vecchio quasi ottantenne che lavorava, divorava e parlava
con pari vigore. Certo, provavo fastidio di tutto quel suo
ostentare bravura e successo e principalmente di quel suo
spiccato snobismo.
Alla fine si alzò e si recò nella camera da letto, lasciando-
mi solo con la moglie, che mi chiese quali fossero state le
mie impressioni di quella prima mattinata di lavoro. Le ri-
sposi con cortesia che mi sembrava tutto interessante e il
marito era stato gentile con me.
Dopo circa un'ora Mortini ritornò e mi disse di seguirlo
nello studio. Qui prese posto al tavolinetto dell'antichissi-
ma macchina da scrivere e incominciò a battere velocemen-
te alcune lettere che poi mi faceva leggere. Si trattava di
lettere molto brevi nelle quali si chiedevano offerte di ven-
dita o si trasmettevano degli ordini alle ditte rappresenta-
te. Una sola fu più lunga delle altre e, in luogo delle solite
frasi fatte, vi era una violenta accusa di scarsa correttezza
21
per una presa di contatti diretta fra ditta venditrice e quel-
la compratrice senza aver appoggiato il tutto al Rappresen-
tante, ossia Mortini.
Più tardi il commendatore ritornò allo scrittoio e aprì un
cassetto da cui trasse un lindo registro, poi da un altro pre-
se due boccette di inchiostro e due penne del tipo di quelle
che si usavano alle elementari.
Con gran flemma sfogliò il registro fino alla pagina desi-
derata, poi prese una penna, la intinse nella boccetta conte-
nente inchiostro rosso e fece delle annotazioni. Ripose la
penna e prese l'altra, osservò attentamente il pennino, aprì
un altro cassetto, ne trasse uno scatolino contenente penni-
ni nuovi, sostituì quello che aveva osservato, poi intinse la
penna nella boccetta dell'inchiostro nero e fece sul registro
altre annotazioni. La scena si ripetè più volte per circa
un'ora con una lentezza esasperante.
Abituato com'ero a una vita dinamica, a volte frenetica,
mi annoiavo disperatamente. Mi alzai, camminai un po' su
e giù e poi mi portai alle spalle del rappresentante da dove
presi più esatta visione di quello che stava facendo. Era
l'annotazione dell'importo degli ordini e delle relative
provvigioni che gli sarebbero spettate. Rimasi stupito sia
dall'una che dall'altra cifra.
Quell'uomo ottantenne guadagnava davvero molto per
un lavoro che, a prima vista, mi sembrava estremamente
semplice.
Erano circa le cinque del pomeriggio quando Mortini ter-
minò il suo lavoro e mi congedò dandomi appuntamento
per il giorno dopo.
Quando uscii dal palazzo, la soddisfazione per quell'ini-
zio lavorativo fu sommersa da un vivo senso di sollievo e
aspirai voluttuosamente una boccata di aria libera, tanto   ^'
diversa da quella pesante e antica che aleggiava nella casa
dell'ottantenne.
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Bruno
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.   L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. EmptyLun Dic 29, 2008 6:24 pm

CAPITOLO II

Quella giornata si ripetè quasi in copia conforme per

molto tempo. In breve tutto il meccanismo del lavoro di

Mortini mi fu abbastanza chiaro e incominciai anche a

compilare qualcuna di quelle semplici lettere di richiesta

di offerta o di trasmissione di ordini. Ma il mio vero compi-

to fu quello di andare a fare qualche raccomandata o di im-

bucare la posta. Certo, il lavoro era semplice! I clienti si li-

mitavano a una decina fra i quali il pezzo grosso era la

SMEMEL. Ogni mese circa vi era un ordine importante per

svariate decine di milioni e quasi ogni giorno piccoli ordini

di morsetteria elettrica. Gli introiti erano notevoli. La per-

centuale, piccola per le Officine Leonardo, era cospicua re-

lativaróente alle Morsetterie Gattago. Il tutto dava un in-

casso lordo di circa sette, ottocentomila lire al mese, cifra

notevolissima nel 1959.

Le responsabilità non erano molte e le difficoltà tecniche

venivano superate con l'intervento di ingegneri della Leo-

nardo che venivano nel Sud e discutevano direttamente con

quelli della SMEMEL. Certo, nelle cose più semplici avreb-

be dovuto cavarsela il rappresentante, senza il costoso in-

tervento dei tecnici che dovevano venire da Venezia. Ma mi

resi conto che il commendatore Mortini ora viveva quasi di

rendita, evidentemente per il grande rispetto che l'età avan-

zata incuteva ai dirigenti della sua ditta, anche perché que-

sti, quando lui aveva iniziato a rappresentarla, erano impie-

gatucci alle prime armi e ricordavano che egli era già in ot-

timi rapporti con i dirigenti di allora. Anche importante era

la sua grande introduzione presso la SMEMEL dove il ri-

spetto aveva analoghe origini.

Ovviamente avevo sentito dire in qualche visita che avevo

fatto da solo all'ufficio approvvigionamenti che i dirigenti

della SMEMEL incominciavano a fare pressioni presso

quelli della Leonardo affinchè la rappresentanza, una volta

terminata quella di Mortini, passasse a qualche loro paren-

te. Affermavano, a sostegno delle loro intenzioni, che quella

era una rappresentanza da ingegnere e quindi qualche loro

parente con tale titolo di studio e da loro appoggiato avreb-

be potuto ben ricoprire, e con sicuri risultati, tale incarico.

Fu fórse questo fatto che mi spinse a fare un qualcosa

che incominciò a rendermi meno gradito a Mortini.

Il vecchio aveva iniziato a farmi vedere di tanto in tanto

depliants degli isolatori, degli interruttori e dei trasforma-

tori e con aria di grande competente cercava di spiegarmi

cose che, a causa dei miei studi tecnici e della mia facilità

di apprendimento, erano per me estremamente semplici.

Ebbi quindi la dabbenaggine di far capire a Mortini la

mia superiorità su di lui, che tecnico non era, prevenendolo

in qualche sua spiegazione. Non lo feci certo solo per sac-

centeria, ma proprio per dimostrargli che il rappresentante

ingegnere o quasi potevo essere io. Ciò lo dispose male ver-

so di me e la confidenza iniziale andò attenuandosi e i de-

pliants incominciarono a sparire.

A mia volta ero un po' stufo di quella collaborazione

estremamente limitata e così poco qualificata che si ridus-

se, un mese dopo, a fargli solo da autista con la mia 500

quando Mortini, in uno dei suoi frequenti scatti d'ira, aveva

licenziato il povero autista solo perché non aveva ben com-

preso uno degli strani appellativi che lui dava ai vari uffici

periferici della SMEMEL, che erano conosciuti solo da lui e

da pochi altri vecchi con nomi di oltre trent'anni prima.

Inoltre non avevo percepito stipendio o compenso alcuno,

ma ci avevo per di più rimesso i soldi della benzina, ne se ne

parlava mai.

Mortini portava bene i suoi anni, ma un episodio mi fece

comprendere che in parte era solo apparenza.

Un giorno andammo alla sede della SECREN, una vec-

chia fabbrica di Torre Annunziata. Il commendatore era ir-

ritato e durante il percorso non aveva detto una parola.

Giunti a destinazione salimmo tutto d'un fiato una ripida

scala che portava agli uffici e lì, con me al seguito, senza

nemmeno salutare, incominciò a inveire contro alcuni fun-

zionar! della ditta che, a suo dire, si erano macchiati di

quella che lui riteneva la massima scorrettezza: avevano

osato rivolgersi direttamente alla Leonardo senza interpel-

lare il rappresentante. Quelli incominciarono a replicare

con decisione, non erano vecchi conoscenti come i dirigenti

SMEMEL, ma si arrestarono presto quando videro questo

vecchio, con gli occhi fuori dalle orbite e rosso in viso, af-

fannare penosamente senza però interrompere le sue vee-

menti proteste contro di loro. Si guardavano l'un l'altro e

poi guardavano me e non sapevano cosa fare.

Mi sentivo mortificato per quella scena assurda e non

avrei voluto essere lì, comprendendo chiaramente tutta la

situazione, ma non sapendo come venirne a capo. Pensai co-

me loro: 'Ora al vecchio viene una sincope!' Provavo pena e

irritazione al tempo stesso. 'Questo maledetto, povero vec-

chio non la smette. Ma perché deve continuare a vivere in

questo modo, quando io potrei sostituirlo per lo meno nei

compiti più faticosi?' Cercai infine di intervenire con deli-

catezza e finalmente riuscii a placarlo, mentre contempora-

neamente facevo segni disperati a quelli di rispondere solo

sì. Che mortificazione!

Finalmente andammo via e lungo la strada lui se la prese

anche con me. Ma guarda che pazienza! E a quale scopo?

Non si parlava di stipendio, non di associarmi nella rappre-

sentanza. Che cavolo stavo a fare lì?

Nei giorni successivi incominciai con maggiore decisione

a rovistare fra i depliants delle ditte rappresentate che mi

erano quasi proibiti e scoprii cose interessanti.

Un'altra branca della Leonardo produceva nella fabbrica

di Bologna contatori e piccoli trasformatori. Perché il vec-

chio non li vendeva mai?

Colsi l'occasione per parlargliene quando lo vidi un po'

più calmo e disposto verso di me come i primi giorni di col-

laborazione.

"Scusi commendatore", iniziai, "ho visto che la Leonardo

produce dei contatori che hanno caratteristiche migliori di

quelli che normalmente monta la SMEMEL presso i suoi

utenti. Naturalmente avrà pensato di fargliene ordinare un

certo numero, però in questi mesi non ho visto nessun ordi-

ne di contatori. C'è qualche motivo?"

"Il motivo c'è: è che io sono troppo occupato con cose più

importanti e poi una ditta napoletana produce pessimi con-

tatori, ma a prezzi più bassi".

"Ma se sono di scadente qualità non vengono a costare al-

la fine di più?"

"Certo, ma io non desidero occuparmene. Tutto il settore

Leonardo di Bologna produce più di cento articoli e non

posso perder tempo a prospettarli tutti".

"Ma non potrei occuparmene io?"

Sul volto del vecchio passò un'ombra di stupore che si

trasformò in breve in forte irritazione e si sciolse infine in

un sadico sorriso.

"Con la SMEMEL tratto solo io! Se vuoi puoi tentare di

venderli alle altre aziende che erogano energia elettrica in

Campania". Aprì un cassetto e prese un libricino. "Vedi,

qui ci sono gli indirizzi. Fai pure, vediamo cosa riuscirai a

combinare!"

"Grazie, vedrò", mormorai e con raggiante gioia presi il

volumetto, mi accomodai su una poltrona e incominciai a

sfogliarlo.

Diavolo, finalmente qualcosa di serio da fare! Ora avrei

potuto dimostrare se ero capace o meno di svolgere

quell'attività. I mesi trascorsi fino ad allora con Mortini po-

tevano essermi stati utili per "rubare il mestiere", per far-

mi delle conoscenze nell'ambiente. Ma non certo nel modo

che avevo desiderato io! Che significato poteva avere il

compilare lettere che erano più o meno sempre le stesse fa_

rè raccomandate, consegnare regali nelle abitazioni di

Qualche alto funzionario SMEMEL senza neanche poterlo

^vicinare, passare di tanto in tanto all'ufficio approwigio_

namenti per chiedere se ci fosse qualche piccolo ordine per

nori ascoltare per otto ore al giorno le petulanti chiacchie-

re di Mortini che si ripetevano con continuità ossessiva. òi

certo, avevo imparato qualcosa, ma ero convinto che le

stesse cose avrei potuto apprenderle impiegando molto me-

no tempo. E poi? Il vecchio non parlava di associarmi a lui

non dTcompensi, ne del mio avvenire. Cosa stavo a fare h?

Seco invece una cosa interessante, viva, da gestire quasi da

^el piccolo volume vi erano elencate tutte le aziende che

producevano in Italia energia elettrica e la erogavanone le

zone di loro competenza. Scoprii con meravlgha„henell ln,

tera nazione, a parte le grandi società tipo SMEMEL ve ne

erano moltissime altre che operavano in zone ristrettissime

?con un numero limitato di utenti. Nella Campania, zona di

m^o imeresse in quanto Mortini era l'esclusivista per que-

Sa regione, ve rierano ancora circa cinquanta non assor-

bite dalla SMEMEL. Nomi di ditte e di paesim a me scono-

sciuti eppure in linea d'aria non lontani da Napoli.

Ne feci un dettagliato elenco e chiesi a Mortini se poteva

dotarmi di un certo numero di cataloghi dei prodotti della

Leonardo di Bologna.

"Ho solo questi due! Tè ne posso dare uno .

"Ma non possiamo chiederne altri?"

"Si può, ma non ne ho il tempo; solo quando parlerò con

loro per altre cose più importanti ne chiederò altre copie .

"E un listino prezzi?" .

"Per ora ti detto solo i prezzi dei contatori, per le altre co-

se di' loro che gli faremo un'offerta".

Il tono era tanto duro e scostante che ritenni opportuno

di non insistere. Era evidente che al vecchio la mia iniziati-

va non faceva piacere. Forse era geloso, forse voleva sba-

razzarsi di me! Ma perché avevo mostrato di comprendere

meglio di lui, che chissà quanto aveva impiegato ad impa-

rarlo, il funzionamento e la tecnica delle sofisticate appa-

recchiature? Avevo in coscienza pensato di far bene, ma

non ero stato un buono psicologo. Un buon venditore è prin-

cipalmente un attento conoscitore della psicologia umana.

Forse non sarei mai stato un buon venditore, ma certamen-

te quell'errore mi sarebbe servito!

Di sicuro non avrei accettato l'insuccesso così presto e

tanto più non volevo finire a fare l'impiegato di banca, spe-

cialmente ora che avevo potuto toccare con mano i congrui

guadagni che un abile rappresentante può raggiungere, ol-

tre all'autonomia che dimostrava Mortini.

Al termine di quella giornata, dopo aver sbrigato i soliti

modesti incarichi affidatimi dal rappresentante, ritornai a

casa munito del catalogo e dell'elenco degli indirizzi tratto

dal prezioso volumetto. Mi sentivo rodere per il recente

comportamento del vecchio commendatore, ma pieno di

speranze e di voglia di fare.

I nominativi erano circa cinquanta, il catalogo, di circa

sessanta pagine, uno solo. Come avrei fatto? Ci pensai un

po' su, poi infilai sei fogli e relativa carta carbone nella mia

Olivelli Lettera 22 e incominciai a battere un testo così inti-

tolato:

ARTICOLI PRODOTTI DALLE OFFICINE LEONARDO DI

BOLOGNA

e giù una lunga sfilza di contatori, misuratori vari, appa-

recchi di precisione e così via con le loro principali caratte-

ristiche tecniche. Ne venne fuori, dopo circa otto ore, un fa-

scicolo di trenta pagine scritte ordinatamente in sei copie,

le cui ultime si leggevano a stento, per quanto avessi battu-

to con violenza sui tasti. Che fatica! Ma, speravo, ne sareb-

be valsa la pena.
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.   L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. EmptyLun Dic 29, 2008 6:28 pm

CAPITOLO III
Di buon'ora telefonai a Mortini.
"Buon giorno, commendatore. Allora oggi, se non le di-
spiace, andrò in giro per i prodotti di Bologna".
"Sì, fai pure, ma ricordati che tu rappresenti me e non le
Officine Leonardo".
"Lo so bene, stia tranquillo" e attaccai.
Partii quindi per la mia avventura, ed era veramente
un'avventura, forse penosa, ma splendida, emozionante,
esaltante, piena di fermenti che pervadono tutti quelli che
vanno alla conquista di nuove esperienze e dell'affermazio-
ne. La solitudine esalta tutto ciò. È stimolante poter pro-
grammare da soli senza intoppi, senza redini, senza coper-
ture protettive o oppressive.
Cosa avrei detto, cosa avrei fatto non sapevo, ma era me-
raviglioso tentare. Pensai:
'Certamente le prime volte non farò una bella figura per-
ché non ho esperienza. Mi conviene quindi visitare prima
quelli più piccoli e poi quelli più importanti.'
Diressi l'auto verso un paesino ai piedi del massiccio del
Malese, una zona di pianura-collina dove non ero mai stato
precedentemente.
Quante cose ci sono da scoprire al mondo! Quanti luoghi
e modi di vivere diversi, anche se sembrano posti alle porte
di casa propria!
Da quando avevo quindici anni avevo sempre girato e
viaggiato molto: in bicicletta, moto, automobile e treno.
Pensavo di conoscere bene tutta l'Italia, perlomeno quella
che va da Napoli alle Alpi. In Campania avevo visitato più
volte le località turistiche famose o meno, come Capri,
Ischia, la costiera sorrentina e quella amalfitana, tutta la
costa che va da Napoli ad Agropoli e da Napoli a Formia, il
Faito, Montevergine, il monte Taburno nel beneventano, il
Matese da Piedimonte al lago e così via. Ma quant'altro ci
fosse da vedere incominciai a scoprirlo subito, fin dal pri-
mo giorno della mia avventura.
Alla guida della mia 500 mi avviai lungo l'Appia per ab-
bandonarla al bivio per Santa Maria Capuavetere e di lì a
Caiazzo e poi Alife, posta in una verdeggiante pianura alle
falde del massiccio montuoso del Malese. La vera avventu-
ra incominciò quando imboccai una strada stretta e scon-
nessa che conduce a una miriade di microscopici paesini, il
cui nome mi era stato fino ad allora sconosciuto e ai quali
si giungeva attraverso strade non asfaltate che si dipartiva-
no ora a destra, ora a sinistra di questa. Un piccolo cartello
stradale a freccia segnalava i nomi.
Era una nitida e fredda giornata invernale, l'aria pungen-
te ma balsamica, il rombo del motore accompagnava la mia
gioia di vivere con il suo suono ritmico e a volte assordante.
I cambi di marcia rumorosi esaltavano la mia voglia di fare,
di conquistare il mondo, un mio posto nella società del la-
voro. Come mi sentivo bene e padrone di me! Com'è meravi-
gliosa la gioventù, piena di entusiasmi e di speranze. Tutto
sembra bello, le cose brutte si trasformano in breve in
un'ottica che è filtrata dalle fresche energie. Perché tra-
scorrere giorni, settimane, mesi, anni piegati su uno scrit-
toio a studiare per apprendere cose che certo non insegna-
no a vivere. La vita va vissuta con l'acquisizione attiva di
esperienze.
E poi senza oppressioni. Quante ne subiamo da quando
apriamo gli occhi sul mondo. I genitori, l'asilo, le elementa-
ri, la maestra, i professori, l'università, le lezioni, gli esami,
le firme di frequenza, il fidanzamento, il lavoro controllato
e ancora i genitori, gli affetti, i parenti, le convenzioni so-
ciali, il dover essere per forza qualcuno, il dover superare il
padre, cosa tanto più difficile quanto più quello eoe stato
importante. Mi fanno ridere quelli che dicono: "Beato tè,
hai un padre che è questo, ha fatto quell'altro, ha soldi, ha
tanti titoli accademici e onorifici...". Non sanno gli sciocchi
che, pur essendo vero che si hanno dei vantaggi nel vestire
e nel mangiare, nel poter studiare, nel poter andare in vil-
leggiatura in luoghi eleganti, vi è però l'enorme responsabi-
lità, se si è sensibili, di dover superare traguardi più ardui
e, una volta superatili, sentire dire: "Ma quello ha il padre
che è un pezzo grosso, grazie che è giunto lì". Se invece non
ci si riesce, ci si sente dire: "Ma come, con un padre così im-
portante non c'è riuscito? Ma allora è davvero un fesso!"
Il figlio di un manovale o di un modestissimo impiegato
può in definitiva solo migliorare, come dato esteriore. Cer-
to, la gente difficilmente si accorge che molto spesso un
manovale che adempie bene il proprio lavoro, che è onesto,
che ha la dignità e l'orgoglio di quello che fa vale di più di
un industriale poco onesto o di un professionista che sfrut-
ta i clienti! Quello che conta è la facciata, è il Mestiere preso
nel suo insieme. Quante valutazioni sbagliate, quante con-
venzioni assurde!
Ci sarà mai un sistema politico che farà capire tutto ciò?
Ne dubito. E se ci riuscirà, a quale prezzo?
E la libertà cos'è?
Domande difficili con risposte quasi impossibili. Tanti
saccenti sono soliti dare una precisa definizione di tutto,
ma sono solo degli illusi. I veri conoscitori del mondo e del-
la vita si pongono e cercano di risolvere tutti gli interrogati-
vi possibili, e più studiano, vivono, più si rendono conto che
a simili domande si può solo tentare di dare la propria valu-
tazione, la più possibile aderente al vero.
Ma la verità dov'è? E Dio? Chi è? Esiste? Cosa è mai l'uo-
mo? Qual è la sua funzione?
Troppe, troppe domande! Ma quanti se le pongono, acce-
cati come sono dal dover seguire precise convenzioni e mo-
duli della ristretta società nella quale vivono.
Tutte queste elucubrazioni mi passavano nella mente,
mentre in un vortice di gioia percorrevo quella strada stret-
ta e piena di buche, ma intorno alla quale non si scorgevano
palazzoni o sporchi cumuli di rifiuti, ma terra coltivata e
non e verde, tanto verde e monti che si stagliavano puri
all'orizzonte e le cui basi sembravano potersi toccare quasi
allungando una mano.
Abbandonai tutti quei pensieri. Cosa mi importava? Io in
quel momento mi sentivo libero e felice.
Scorsi finalmente il cartello che cercavo. Fontana Alba-
nese.
Diressi l'auto in una stradina sterrata che si inoltrava nei
campi coltivati, ma dove non si vedeva nessun essere uma-
no. Più avanti la strada incominciò a salire e a una svolta vi-
di, a un tiro di schioppo, un paesino abbarbicato su un con-
trafforte del grande monte. Incrociai un uomo su di un mu-
lo. Bloccai l'auto e chiesi:
"È quella Fontana Albanese?"
"Sì, signurì".
"Dove posso trovare Giacinto Cavaterra?"
"Ah, chillu du mulino?"
"Quello che ha la centrale elettrica".
"I nun saccio si tene chello che vui dicite. Saccio che tene
o' mulino".
"Ma voi la corrente la pagate a lui?"
"Ah, sì, è isso".
"Dove lo trovo?"
"Ghiate annanz' fino a' piazza e dumandate".
"Grazie e buona giornata" e proseguii.
Arrivai alle prime case. Che delusione! Da lontano sem-
bravano graziose e pulite, ma da vicino erano ben povera
cosa! Vecchie quasi come il monte, alcune avevano l'intona-
co sgretolato, finestre poco più grandi di buchi e portoncini
d'ingresso difesi da grosse imposte di legno. In giro non vi-
di quasi nessuno. Imboccai uno stretto vicolo e sbucai in
una piazzetta da presepe. Non era una piazza, era un largo
di una cinquantina di metri quadrati senza sbocco. Su di es-
so si affacciavano case un po' meglio tenute delle altre che
avevo visto. Un'angusta scalinata immetteva in una stradi-
na non carrozzabile. Scesi dall'auto, non ne avevo visto nes-
sun'altra in giro. C'erano quattro o cinque persone in un
angolo della "piazza".
Erano solo uomini anziani dai volti rugosi, consunti
dall'aria e dalla pioggia. Chiesi:
"Dove posso trovare Giacinto Cavaterra, quello del muli-
no, quello che vi da la corrente?"
Si guardarono l'un l'altro, mi guardarono con curiosità e
poi mi dissero:
"Che vulite 'a lui?"
"Debbo parlargli per la corrente".
"Ah, venite 'a Napule?"
"Sì".
"Allora site della grande ditta che fa l'elettricità?".
"Parlate della SMEMEL?"
"Nun saccio. Tre mesi fa venette nu signore comme a
vui".
"Ah, sì? Allora mi dite dov'è?", feci io che incominciavo,
anche se tutto mi piaceva di quel presepe, a perdere la pa-
zienza.
"Signò, chella è 'a casa sua" e mi indicarono la casa più
bella che si affacciava sulla piazza, sopra la scalinata.
Alzai la testa e, meraviglia!, il presepe si era animato: die-
tro le finestrine vidi molti volti che mi osservavano attenta-
mente. Alcune, le più nascoste, erano donne e qualche viso
mi sembrò di giovane. Altre persone erano apparse nella
piazza, vi era ora quasi una piccola folla. Mi guardavano,
parlavano fra di loro e indicavano me e la mia automobile.
Presi la borsa portacarte e mi diressi verso la scalinata che
salii velocemente, incrociando alcuni di quegli elementi del
presepe che erano così improvvisamente e velocemente
comparsi.
La mia figura alta, ben vestita, la borsa che portavo sotto
il braccio e principalmente l'auto li avevano dovuto incu-
riosire e impressionare molto. Era per loro un avvenimen-
to, un signore da Napoli! la Metropoli! la Capitale! forse
pensavano ancora che lo fosse!
Giunsi a casa Cavaterra e bussai. Mentre tutti guardava-
no dopo un po' la porta si dischiuse, ma non di molto. Una
donna comparve. Che età poteva avere? Era indefinibile.
Vestita di nero, piena di panni, il volto forse era stato bello.
"È qui che abita il signor Giacinto Cavaterra?"
"Sì, ma ora nun ci sta".
"E dov'è?"
"Ma vui chi site e che vulite?"
"Mi chiamo Cruni, vengo da Napoli per parlargli della
centrale elettrica".
"Ah, siete della SMEMEL?"
"No, mi occupo di apparecchiature elettriche, ma per
un'altra ditta, la Leonardo di Bologna".
"Bologna? In alta Italia?"
"Sì. Allora, dove posso trovare il signor Cavaterra?
"Aspettate, signurì, mio marito non c'è, scusate". Chiuse
la porta e io rimasi ancora lì fuori sotto gli occhi di tutta la
gente che era diventata ancora più numerosa.
Dopo un po' la porta si riaprì. La donna ricomparve con
un ragazzo magro di circa tredici anni.         ,    r
"Signurì, ora Peppino vi accompagna da lui al mulino,
così lo trovate e ci parlate".
"Grazie" e a Peppino: "È lontano? Andiamo con l'auto?"
"No, tagliammo pe' i campi. Facimmo chiù ampresse".
"Guidami".
"Venite".
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.   L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. EmptyLun Dic 29, 2008 6:29 pm

Attraversammo alcuni stretti e scuri vicoli, sbucammo su
f una strada più larga dove vidi due o tré negozietti e il Catte
e uscimmo nei campi.
Che bell'odore di campagna, che aria pura! Costeggiam-
mo un grosso torrente e più su vi era un vecchio e grande
mulino. Entrammo e Peppino chiamò:
"Papa, vien' 'a ccà. Ci sta nu signore 'e Napule' .
Un uomo robusto vestito meglio degli altri, con un cap-
pello nero che aveva conosciuto tempi migliori, si diresse
verso di noi.
"Chi è?"
"Mi chiamo Gianni Cruni e sono delle Officine Leonardo
di Bologna. Vengo per la vostra centrale elettrica. È qui?"
"Sì, nel mulino. Accomodatevi, ve la faccio vedere".
Cavaterra era orgoglioso di quanto aveva e mi condusse
all'interno dove potetti vedere apparecchiature che anche a
me, non esperto del settore - non avevo mai visitato una
centrale elettrica - sembrarono modeste e antiquate. Vi era
un generatore che sfruttava l'energia idraulica, un alterna-
tore e un trasformatore.
Cavaterra mi raccontava che il padre aveva avuto l'idea
di sfruttare il mulino per dare la corrente al paese che non
l'aveva. Era un uomo abbastanza civile e si vedeva che ave-
va avuto contatti anche con gente di città e non solo con i
suoi compaesani. Gli domandai molte cose e ancora di più
gliene chiesi quando mi resi conto che parlare della sua
centrale lo rendeva felice.
Incominciavo ad essere un buon venditore!
Seppi che aveva un centinaio di utenti fra Fontana Alba-
nese e casolar! dei dintorni.
"Quali contatori usate?"
"Ho sempre comprato quelli della Perfetta di Napoli".
"E hanno funzionato sempre bene?"
"Ah, che vi debbo dire. Aggio passato nu guaio con quelli!
Pensate che con cento utenti sono costretto ad avere cento-
cinquanta contatori, pecche si. rompono sempre".
"E non avete mai pensato di sostituirli con altri più dura-
turi?"
"Sapisseve quante volte. Ma a Caserta dove vado a com-
prarli e farli aggiustare hanno solo quelli".
"Beh, ora avete davvero la possibilità di applicare conta-
tori prodotti da una grande azienda che vi dureranno per lo
meno dieci anni. Guardate qui...". Aprii la borsa e ne trassi
l'elegante e voluminoso catalogo della Leonardo di Bolo-
gna.
Cavaterra lo osservò con avidità e grande interesse. Gli il-
lustrai dettagliatamente le qualità e i vantaggi di acquista-
rè materiali da un'immensa azienda come la Leonardo, che
forniva tutto alla SMEMEL. Lo solleticai con abilità che
sorprendeva anche me dicendogli che poteva cominciare ad
allinearsi a quanto faceva una grande produttrice di elettri-
cità. Lo elogiai per l'azione utile che svolgeva per il suo pae-
se. Gli feci notare che, sì, il padre aveva avuto un'idea bril-
lante, ma lui, uomo più moderno, doveva capire che l'Italia
non finiva a Napoli e così via.
In breve una corrente di simpatia si era creata fra di noi e
ad un certo momento Cavaterra proruppe:
"Dottò, è ora di pranzo. Fatemi l'onore di venire a casa
mia e di mangiare con me, poi continueremo a parlare di
tutte chesti ccose belle che mi facile vede'".
Accettai. Ero curioso e poi comprendevo che Cavaterra
voleva dimostrare ai compaesani che lui, e solo lui, nel pae-
se poteva avere a pranzo un tecnico della grande città. Ri-
percorremmo il tragitto fatto prima con Peppino e questa
volta ammirai con maggiore attenzione quello stupendo
luogo.
Che calma e tranquillità vi era lì intorno! Non le strade
affollate, non automobili e mezzi pubblici, nessun negozio,
nessun albergo, nessun cartellone pubblicitario, solo la na-
tura allo stato quasi primordiale.
Giungemmo alla sua casa. La porta fu questa volta spa-
lancata con rapidità e la moglie ci fece entrare. Che delusio-
ne l'interno! Era poco più di una stalla: muri che avevano
bisogno di una buona mano di pittura, infissi vecchi e scon-
nessi, travi in legno a malapena ricoperte di pittura a calce
tutta macchiata, mobili antiquati e zoppicanti, nessuna pol-
trona, ma nella grande stanza al centro solo un semplice ta-
volo rettangolare, forse costruito dal falegname del paese
con legno di scarsissimo valore. In fondo vi era una porta
che conduceva alla cucina dove, poco discosto dal focolare,
riuscii a intravedere un vecchio e.malandato gabinetto. Su
uno dei lati una scala senza ringhiera conduceva al piano /-^
superiore. E quella era la famiglia più ricca ed importante
del paese!
Il mulino, i campi intorno, la centralina elettrica erano di
proprietà del Cavaterra. Dovevano valere parecchi soldi.
Ma le dimensioni fra città e paesini sperduti come quello
sono molte diverse, ancor più lo è la concezione di vita. Se
un modesto impiegato cittadino sentisse parlare di un pro-
prietario terriero, di un mulino e di centrale elettrica, riu-
scirebbe a immaginare solo una casa ricca, piena di como-
dità. Invece quella casa era poco più di un basso napoleta-
no. Evidentemente è questione di relatività e di mentalità.
Se all'aspetto esterno corrispondeva anche quello interno,
dovevo pensare che la casa di Cavaterra fosse la più bella
del paese. Forse di questo lui si accontentava e, pur avendo-
ne, credo, la possibilità, non pensava di arredare ed attrez-
zare la sua casa perlomeno al livello di quella di un buon
aperaio o di un piccolo impiegato di città. Bastavano cento
;hilometri o meno in linea d'aria per cambiare tante cose, e
quelle che avrei visto di lì a poco mi avrebbero meravigliato
ancora di più!
Sedemmo intorno alla tavola. Era apparecchiata senza
tovaglia. Vi erario piatti, forchette e bicchieri di qualità de-
cente, i posti preparati erano quattro. Insieme col padrone
di casa e me sedettero due figli maschi, Peppino e un giova-
notto di età maggiore.
E le donne?
' La moglie, dopo averci fatto entrare e apparecchiata la
tavola, rimase in cucina da dove di tanto in tanto veniva so-
lo per servirci. I cibi erano ottimi e naturalmente genuini.
Mangiammo pasta e fagioli, formaggio, salame, prosciutto,
olive e sottaceti, tutto in porzioni abbondantissime. Bevem-
mo un eccellente vino prodotto da Cavaterra stesso.
Gli domandai quanti figli avesse. Mi rispose che ne aveva
sei, i due maschi che erano con noi a tavola e quattro fem-
mine. L'età variava dai diciotto della figlia maggiore ai sei
anni della minore.
Dov'erano le ragazze? Naturalmente non lo chiesi.
Mentre mangiavo però avevo notato di tanto in tanto che
dalla sommità della scala qualcuno ci osservava. A un certo
momento sollevai di scatto lo sguardo e vidi due teste di
bambine che ci spiavano.
E la figlia maggiore dov'era? Osservava anche lei?
Solo alla fine del pranzo, dopo aver acceso le sigarette,
Cavaterra ordinò con voce imperiosa il caffè e poco dopo
entrò nella grande stanza una ragazza.
Era alta e bruna con degli occhi stupendi che mi fissava-
no con curiosità e con un qualcosa di indefinibile. Indossa-
va un vestito modesto e tagliato male, calze pesanti e scar-
pe che, se non lo erano, sembravano zoccoli. Fui profonda-
mente attratto da lei e tanti pensieri mi attraversarono ra-
pidamente il cervello. La fissai a lungo, poi mi ricordai di
Cavaterra, che a sua volta mi guardava, e pensai bene di
non insistere. Un gran calore aveva acceso i miei sensi.
La ragazza era scomparsa, ma riapparve di lì a poco per
portarci il rosolio fatto in casa. Il suo sguardo era intensis-
simo. Mi sembrava di scorgervi amore, ammirazione, desi-
derio.
Mi aveva visto quando ero arrivato nella piazza del prese-
pe? Aveva pensato a me in tutto quel tempo? Aveva sperato
o atteso di rivedermi, anche se solo per poco? Era contenta
della mia presenza in quella casa? In me vedeva tutto quel-
lo che lei non aveva e forse non avrebbe avuto mai? La città,
i viaggi, una casa bella da film, bei vestiti, un vivere più ci-
vile?
Chissà! Scomparve.
Con Cavaterra riprendemmo a parlare di contatori, tra-
sformatori e altro. Mi informai sul paese che non raggiun-
geva i mille abitanti; non vi era cinema, ma solo il bar. Il
centro importante più vicino era la piccolissima Venafro.
Rimanemmo d'accordo che gli avrei spedito un'offerta per
cinquanta contatori Leonardo e per un trasformatore di
media potenza. Era molto ben disposto. Mi accompagnò
all'automobile.
Prima di partire mi guardai intorno: il presepe era ani-
matissimo; molta gente mi osservava dalla "piazza" e dalle
finestre. Dietro una di quelle di Cavaterra occhi meraviglio-
si mi scrutavano: erano i suoi, di quella misteriosa e bella
ragazza. Partii.
Percorrendo le strade che mi avrebbero ricondotto a Na-
poli provavo contentezza, soddisfazione e turbamento. Ero
esaltato da quella giornata così piena e ricca di esperienze
nuove. Che diversità da quelle uggiose trascorse con Morti-
ni, che differenza fra il suo mondo pieno di snobismo e
quello genuino al quale mi ero appena accostato. Ora avrei
potuto incominciare a dimostrare a lui e agli altri cosa vale-
vo. Un primo contatto e già un primo discreto ordine quasi
ottenuto. Ma gli occhi di quella ragazza della quale non sa-
pevo nemmeno il nome mi tormentavano. Come mi sarebbe
piaciuto sapere di più di lei e anche di quello strano mondo
che le ruotava intorno. Ero abituato a Napoli dove le ragaz-
ze, specialmente quelle di famiglia non appartenente alla
classe più danarosa, avevano notevoli limitazioni di libertà.
Avevo sempre notato la differenza fra le meridionali e le ra-
gazze delle città dell'alta, o meglio dell'altra Italia.'Durante
le villeggiature in Alto Adige il confronto fra i due modi di
vivere era più che mai evidente, ma il mondo che avevo ap-
pena intravisto era superiore a qualsiasi mia immaginazio-
ne. Ma come, le donne sono tenute ancora nel 1960, in pieno
boom economico, con l'Italia ad uno dei primi posti indu-
striali del mondo, non solo chiuse in casa, ma che addirittu-
ra non possono sedere a tavola con gli uomini. E ciò avveni-
va sempre o solo quando c'era un estraneo? Perché non po-
tevano parlare con gli altri? Sono ancora considerate degli
"oggetti", buone solo a far figli e a cucinare, rassettare, la-
vare e cucire?
Che strano paese il nostro, quante contraddizioni! Quan-
to ancora ci sarebbe stato da operare per portare tutte le
regioni e tutti i posti di una stessa regione a uguali conce-
zioni di vita e pari diritti e doveri!
Mi imposi di non pensare più a quello che avevo visto, ma
a concentrarmi solo nel mio lavoro. Dovevo riuscire!
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.   L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. EmptyLun Dic 29, 2008 6:32 pm

CAPITOLO IV
Di mattina mi precipitai da Mortini, gli annunciai con or-
goglio i risultati della mia visita a Fontana Albanese e gli
chiesi i preventivi. Nel mio entusiasmo giovanile avevo già
dimenticato il suo atteggiamento ostile ed ero convinto che
mi avrebbe elogiato per la mia abilità. Invece no. Mortini
freddamente proferì un semplice "Va bene" e poi, accen-
tuando il suo tono distaccato, mi comunicò che i preventivi
sarebbero stati pronti dopo qualche giorno. Lo salutai e
partii per nuove visite.
Questa volta mi sarei recato in altri due piccoli centri del
casertano. In uno, la centrale elettrica era di proprietà del
Comune; nell'altro di un privato.
Avevo acquistato sicurezza e riuscii a farmi valere sia nel
primo che nel secondo contatto e me la cavai brillantemen-
te anche quando parlai con il Sindaco e il tecnico del Comu-
ne, un anziano geometra locale. Ottenni altre richieste di
offerta per piccoli quantitativi di contatori e qualche altra
fornitura.
Proseguii così per alcuni giorni e completai tutto il caser-
tano. La mattina, prima di partire, passavo da Mortini e tra-
smettevo le richieste.
Il suo comportamento era sempre più scostante e la con-
vinzione che i miei successi lo infastidissero prese ancora
più consistenza.
Una mattina partii per un giro che sarebbe durato due
giorni e che mi avrebbe condotto a visitare alcuni produtto-
ri di elettricità nel beneventano e nell'avellinese.
40
Erano paesini in linea d'aria a circa cento chilometri da
Napoli, ma raggiungibili solo attraverso strade tortuose,
strette, desolate e piene di buche. Chi è abituato a viaggiare
sulle belle autostrade e superstrade che attraversano l'Ita-
lia, non potrà mai immaginare lo squallore e lo stato pieto-
so in cui erano tenute strade definite "nazionali" e segnate
in rosso sulle carte automobilistiche. Chi è abituato a tro-
vare ogni pochi chilometri pompe di benzina, stazioni di
servizio, ristoranti, meccanici e così via, non può assoluta-
mente credere che vi erano strade di cosiddetta grande co-
municazione completamente o quasi sfornite del più ele-
mentare di questi servizi. Inoltre chi come me, anche se con
una modesta 500, percorreva centinaia di chilometri in po-
che ore, aveva un'idea riduttiva delle distanze, invece sono
del tutto relative alle condizioni delle strade e dei servizi.
Una regione come la Campania, di circa tredicimila chilo-
metri quadrati può sembrare piccola, invece è immensa. Le
condizioni di vita cambiavano poi in pochi chilometri e, da
moderne che erano lungo la costa, diventavano arcaiche
più ci si inoltrava verso l'interno.
Il secondo giorno di quel mio giro sarei dovuto, da Pie-
tralcina, paesino vicino Benevento, giungere a un piccolo
centro posto quasi ai confini con la Basilicata. Erano circa
le 14 quando partii. Non avevo molta benzina nel serbatoio
della mia auto, ma questa è una mia abitudine e, accingen-
domi a percorrere una strada "nazionale", ritenevo di tro-
vare pompe di benzina in abbondanza.
Ero contento, i contatti erano stati positivi e viaggiando
pensavo agli importi degli eventuali ordini.
Stavo conducendo una vita pazzesca. Il giorno continua-
mente in viaggio per quelle strade difficili con incessanti
contatti e visite, e quasi ogni sera lunghe ore a preparare
quell'elenco della Leonardo che lasciavo a mo' di depliants.
Infatti, come ricorderete, della ditta ne avevo solo uno, ne
Mortini si era commosso, dati anche i risultati, a fornirme-
ne altri. Ma non mi importava: ero giovane, forte ed entu-
siasta e consumavo tesori di energia senza risparmio. Solo
41
più tardi avrei imparato a mie spese che tutto si paga. Una
vita troppo dispendiosa di energie fisiche e mentali è dan-
nosa quasi quanto una vita troppo monotona, noiosa e stati-
ca.
Pensavo a tutto ciò, incominciando a provare stanchezza.
La strada era disperatamente desolata. Incrociavo solo do-
po lunghi tratti qualche altro automezzo. Sui lati della stra-
da si stendeva un pianoro enorme non coltivato e dove non
si scorgevano fattorie, case coloniche e nient'altro. Solo so-
litudine e silenzio.
Ogni dieci, venti chilometri appariva in lontananza qual-
che piccolo paese arroccato su contrafforti montuosi. La
benzina era a riserva da tempo e mi proposi di fare il pieno
alla prima pompa che avessi trovato. Ma non ve ne erano.
Incominciavo ad essere disposto a deviare dalla strada se
avessi visto in lontananza un nuovo paese dove recarmi a
fare benzina. Ma non scorgevo più nulla: solo squallore e si-
lenzio. Non un'auto, non un carro, non un essere umano. Mi
sembrava di essere in un deserto, eppure ero in Italia, pae-
se civile, non lontanissimo da Napoli, grande città, e da
Avelline, piccola città, ma capoluogo di provincia. Sentivo
freddo e, nonostante avessi il cappotto, accesi il riscalda-
mento. Inoltre incominciava a far notte: era inverno. Provai
paura! Cosa avrei fatto se fosse finita la benzina? Non pas-
sava nessuno. Sarei rimasto nell'auto fredda: il riscalda-
mento funzionava solo a motore acceso.
A che altitudine ero? Non lo sapevo. Sulla carta automo-
bilistica in mio possesso non era indicata. Fermai l'auto,
scesi e guardai attentamente in tutte le direzioni. Nulla.
Sperai che passasse qualcuno. Nessuno. Faceva un freddo
terribile. Unica soluzione era rimettere in moto e prosegui-
re fin quando fosse finita la benzina. Poi si sarebbe visto.
Con ansia e guidando con piede leggero, andai avanti in
quella desolazione, guardandomi intorno angosciosamen-
te, mentre si faceva sempre più buio.
Finalmente scorsi una casa.
Che felicità! Era una casa cantoniera. Bloccai l'auto e
42
scesi. Bussai alla porta con le mani. Non rispose nessuno.
Bussai ancora più forte e chiamai. Nulla.
Ero quasi disperato quando finalmente la porta si aprì.
Comparve un anziano cantoniere. Quasi uno spettro. Gli
chiesi dove mi trovavo e gli raccontai in che condizioni ero.
Quell'uomo, abituato a vivere in quella solitudine, mi
guardò con indifferenza e, senza alcuna partecipazione, mi
disse che mi trovavo al bivio tra Lacedonia e Bisandretta, il
paese a cui ero diretto, e che l'altitudine era di circa nove-
cento metri.
Com'ero arrivato così in alto? Quella strada piena di bu-
che non aveva la pendenza a cui ero abituato quando mi re-
cavo in montagna o in alta collina. Chiesi cosa mi convenis-
se fare e lui con flemma rispose che a Bisaccia, a circa cin-
que chilometri, vi era una pompa di benzina. Cosa sono su
un'autostrada cinque chilometri? Nulla. Ma lì sembravano
una distanza incolmabile.
Comunque decisi di tentare. Non mi faceva piacere il do-
ver passare la notte, ammesso che mi fosse stato consenti-
to, in quel posto triste e allucinante in compagnia di quella
specie di fantasma. Imboccai la strada per Lacedonia e do-
po esattamente sette chilometri, e non cinque, giunsi a Bi-
saccia, attraversando un paese costruito con criteri moder-
ni, ma stranamente del tutto disabitato.
A Bisaccia, nella parte bassa del paese, vi era la tanto so-
spirata benzina in una pompa antidiluviana, di quelle alte e
strette che si usavano intorno agli anni quaranta. Natural-
mente il gestore non c'era. Lo andarono a chiamare e dopo
più di venti minuti venne e fece il pieno alla mia auto.
Avevo nel frattempo chiesto informazioni su quel paese
abbandonato che, anche se più piccolo di Bisaccia, era però
più moderno e certamente più adatto, perlomeno come co-
struzioni, ad ospitare i suoi abitanti. Mi chiarirono che si
trattava di uno dei tanti paesi costruiti durante il Venten-
nio per alloggiare agricoltori, ma che erano rimasti abban-
donati per difetti di ubicazione.
Che strano paese è il nostro. Quanti soldi sprecati ieri co-
43
me oggi e forse come sempre!
Con il serbatoio pieno ritornai sulla strada già percorsa
fino alla casa cantoniera e poi giunsi a Bisandretta, dove mi
ero proposto di effettuare l'ultima visita della giornata, an-
che se avevo programmato di arrivarci molto più presto.
Trovai il proprietario dell'aziendina elettrica locale e ot-
tenni l'ormai solito buon risultato. Il signor Muccio era un
melanconico individuo, fra i più civili di quelli che avevo in-
contrato nei miei giri, cieco ad un occhio, che mi intristì ul-
teriormente raccontandomi come lo aveva perso.
Decisamente non era una buona giornata! Ero stanco, ma
decisi di ritornare a Napoli o per lo meno ad Avelline. Im-
boccai un'altra tortuosa e malandata strada nazionale e
giunsi, dopo alcune ore, ad Atripalda e di lì planai su Avelli-
no che si scorgeva, in basso, come un miraggio, ricca di luci
e di civiltà.
Ero a pezzi, gli occhi mi bruciavano di sonno e di stan-
chezza; ciò nonostante proseguii, dopo una breve sosta, ver-
so il paradiso: Napoli!
Quella sera trassi un bilancio, non tanto del mio lavoro,
ma delle sensazioni e delle esperienze che avevo provato e
fatto durante tutti quei miei giri e in particolare di quegli
ultimi due giorni. Avevo conosciuto un mondo a me com-
pletamente ignoto, con le sue bellezze e i suoi grandi pro-
blemi. Da sempre avevo sentito parlare dello stato di scarso
sviluppo e progresso delle zone agricole del Sud. Ma ora lo
avevo potuto toccare con mano. Era, oltre che economico,
un problema di comunicazioni e principalmente di scuole e
di informazioni. Era assurdo come tanta gente vivesse, co-
me trattasse le donne, come rimanesse impressionata da un
giovanotto solo perché parlava e vestiva bene, aveva una
modesta automobile e abitava nella grande città. Il servili-
smo che mi mostravano era una conferma di ciò, anche se
in definitiva ero io che andavo da loro a chiedere qualcosa.
Non era solo cortesia, come poteva sembrare al primo con-
tatto. Sì, la vita in città, specialmente in una caotica e tutto
sommato misera come Napoli, non era perfetta. Ma che dif-
44
ferenza con quella di paesi così vicini come dato chilometri-
co e tanto distanti per tutto il resto.
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CAPITOLO V
Come al solito, di mattina presto mi recai da Mortini. Lo
informai delle ultime richieste che, unitamente alle prece-
denti, costituivano un cospicuo quantitativo di contatori, di
piccoli trasformatori e di altri articoli prodotti dalla Leo-
nardo di Bologna.
Il vecchio era gelido e più che mai mi sembrò distaccato e
sulle sue. Mi consegnò i preventivi e con violenta irritazio-
ne notai che non solo non erano completi, ma riportavano
per i contatori prezzi più alti di quelli che mi aveva comuni-
cato in precedenza e condizioni di vendita da capestro. Glie-
lo feci notare, ma lui seccamente mi rispose che quelle era-
no le nuove condizioni e i nuovi prezzi. Non vi era parteci-
pazione. Vi era però il preventivo per Cavaterra.
Avrei potuto spedirlo, ma era inarrestabile il mio deside-
rio di ritornare a Fontana Albanese per cercare di rivedere
quella bella figlia. Il pensiero di lei mi aveva accompagnato
per tutti quei giorni e molti progetti avevo fatto durante le
lunghe ore trascorse in automobile.
Partii e, invece che per la strada percorsa la prima volta,
andai per Venafro. Mi fermai a prendere un caffè nel bar
che era vicino al cinematografo di quella località. Fui at-
tratto dal suono di molte voci. Uscii e mi diressi verso un
grosso torrente dove vidi il lavatoio pubblico in piena fun-
zione. Decine di donne, vecchie, giovani e meno giovani,
erano intente a fare il bucato nel torrente e, mentre agivano
con energia, parlavano e ridevano fra loro.
Era uno spettacolo allegro e pittoresco, attraverso il qua-
46
le Venafro mi apparve più moderna e umana di Fontana Al-
banese o di altri paesini che avevo visitato in quei giorni E
poi c'era il cinema, ed era sulla strada per Roccaraso, meta
di molti cittadini. Ecco perché era più civile o meglio più
evoluta!                                              "
Presi la strada per Fontana Albanese e posteggiai l'auto
nella "piazza" del presepe.
Bussal alla porta che mi fu aperta da quella solita donna
indefinibile che era la moglie di Cavaterra. Lui non c'era
non era nemmeno al mulino, ma sarebbe tornato presto.
Fortunatamente c'era il figlio maggiore, per cui mi fu con-
cesso di attendere in casa.
Ero seduto alla tavola dove avevo pranzato giorni prima
e fingevo di leggere l'offerta e altre carte che avevo con me
Ma guardavo in continuazione la scala interna e a un certo
momento fui premiato. I due grandi occhi neri erano lì e mi
fissavano attentamente. Quel viso era ancora più attraente
di quanto ricordavo.
Facendo attenzione a non essere visto da altri, incomin-
ciai ad ammiccare e a fare larvati segni di saluto. Prima si
ritiro poi, che gioia!, rispose. Allora anch'io l'avevo colpi-
ta. Allora mi attendeva. Ma come fare a parlarle? Le idee
più pazze, dato il luogo, mi attraversarono la mente
Come avrei voluto stringerla a me con tenerezza! Come
l'avrei baciata con passione! Come avrei voluto portarla via
Continuammo a scambiarci segni. Nascosi uno dei pre-
ventivi. Giunse Cavaterra.
"Buon giorno, dottò. Siete venuto voi? Perché incomo-
darvi? Potevate anche spedirmeli i preventivi"
"Mi sono trovato sulla strada e ho pensato di portarvelo
di persona. Come va l'attività?"
"Non me ne parlate. Sono tre giorni che sto ascendo paz-
zo. Si e scassato l'alternatore e solo ieri è venuto 'o tecnico
da Caserta .
"Certo ci vuole pazienza e capacità a fare tutte le vostre
attività. Ora vediamo il preventivo che vi ho portato".
47
-Y,
"Senz'altro, dottò".
Guardammo e discutemmo con cordialità.
"E 'o preventivo del trasformatore?"
"Oh, l'ho dimenticato. Domani ve lo porto, tanto debbo ri-
tornare nella zona".
"Dottò, vui site troppo gentile. Con tutte le cose impor-
tanti che avite da fare".
"No, è un piacere venire qui e parlare con voi. E ditemi
signor Cavaterra, che tipo di vita fate qui? Andate mai a un
cinema?"
"Sì, ma pochi vvote. La sera vado al Caffè e giucammo 'o
scopone e 'a briscola".
"E le donne che fanno?"
Mi guardò sospettoso e poi:
"Cannaa fa. Stanno in casa, lavorano, cucinano, parlano
e vanno a chiesa".
"Ma i vostri figli hanno studiato o studiano?"
"Dottò, le elementari sì, ma poi faticano con me. E le fem-
mine si sposano quando è 'o mumento'".
Era diventato meno cordiale. Non insistei e dopo un poco
saiutai, rifiutando con gentilezza l'invito a pranzo.
Viaggiavo contento sulla mia auto. Giunsi al presepe e
leggero di felicità, bussai alla porta di Cavaterra. Mi aprì la
moglie.                                           '
"Signora, voglio parlare a voi e a vostro marito".
"Ora vo' chiammo. Aspettate e accomodatevi".
Avevo un fascio di fiori. Entrò Cavaterra.
"Buon giorno, signor Cavaterra. Vi debbo parlare e non
della centrale".
"Dicite, dottò".
"Signor Cavaterra, vengo a chiedervi la mano di vostra fi-
glia maggiore. Come si chiama?"
"Milena. Ma voi che dite?"
"Quello che ho detto. Domandatele se mi vuole"
"E lei che c'entra. Decido io. Dottò, ma voi, nu signore,
state pazziando".
"No, Cavaterra. L'ho vista e mi sono innamorato di lei. La
48
voglio sposare subito. Come vedete lavoro, ho studiato e so-
no di famiglia buona e benestante. Se volete, prendete in-
formazioni: questo è il mio biglietto da visita".
Cavaterra era esterrefatto. Poi chiamò:
"Mari, Milena, venite ccà".
Giunsero la moglie e la meravigliosa figlia.
"Milena, 'o dottore ccà che è di Napoli ed è persona im-
portante e istruita, mi ha chiesto la tua mano. Ti vuole spo-
sare subito".
Milena arrossì e abbassò quegli occhi profondi. Poi li
rialzò: il volto era infuocato e quali paradisi prometteva il
suo sguardo!
"Papa, io sono felice, io accetto".
Mi alzai e le porsi il fascio di rose che avevo con me.
"Tieni, Milena, io mi chiamo Gianni e ti amo. Saremo feli-
ci insieme. Ci sposeremo e ti porterò nella città in una bella
casa. Ti farò viaggiare, andremo al cinema, al ristorante e a
ballare. Farai la signora".
"Figli miei, venite ccà. Io vi benedico", disse Cavaterra
commosso e aggiunse: "Io a mia figlia per un matrimonio
così gli faccio 'o corredo a ventiquattro e na grande festa.
Tutto 'o paese adda vede... Peppino, vai a chiamare subito
don Felice. Digli che adda venì subbeto. Aggio una grande
notizia. Vai".
Venne il parroco e ci sposammo. Milena era fantascienti-
fica. Non solo il viso, ma tutto di lei era esaltante, per la pri-
ma volta valorizzato da un abito bianco ben fatto.
Salimmo in auto e lasciammo il paese. La baciai prima te-
neramente e poi ardentemente. Com'era calda e morbida.
Che gioiello in quel fienile!
"Ti ho tirato fuori da un posto non degno di tè. Ora vedrai
quant'è bella la vita".
Ero accaldato e agitato. Mi girai e mi rigirai e infine cad-
di dal letto e mi svegliai. Ero nella mia stanza in città. Allo-
ra era stato un sogno, che bello! Perché non poteva diventa-
re realtà? Lei mi amava, ne ero sicuro. Quegli sguardi, quei
segni e quel saluto appena accennato da dietro la finestra.
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Sì, la mattina sarei tornato e così avrei fatto. Perché una
simile perla doveva essere nata lì, perché doveva essere la
figlia di Cavaterra e non di un notabile di una città, perché
non aveva dovuto studiare oltre le elementari?
Se fosse nata a Milano o anche a Napoli, sarebbe stata
una donna ammirata, adorata e corteggiata. Avrebbe sposa-
to una persona importante e non un bifolco! Sarebbe stata
servita, non avrebbe fatto lavori umili.
Perché si nasce in un paesino fuori dal mondo e non in
una grande città? Perché figli di un contadino e non di un
professionista?
Ma anche, perché si nasce sani e non malati ? Perché belli
e non brutti?
Che strana cosa la vita e quante ingiustizie. Perché non
dovevo cogliere quel fiore? Ah, le solite convenzioni sociali.
I soliti pregiudizi. Le solite costrizioni!
Purtroppo anch'io ne ero schiavo- Ne sarei venuto fuori,
ma non subito. Prima dovevo crearmi una posizione mia,
una mia autonomia.
Ma poi ci saremmo intesi? Io, un cittadino, un universita-
rio e lei, una contadina o quasi. Che mondi diversi, che am-
bienti diversi! Ci saremmo divisi. L'avrei lasciata. E lei, ora
così docile - almeno così sembrava -, come sarebbe diventa-
ta?
No, non era il momento. Non sarei ritornato più a Fonta-
na Albanese!
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.   L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. EmptyLun Dic 29, 2008 6:37 pm

CAPITOLO VI
Una visita effettuata a uno dei più organizzati piccoli pro-
duttori di elettricità per la consegna e la discussione di un
preventivo che gli avevo portato, mi fece comprendere con
cruda evidenza che i nuovi prezzi e le condizioni praticate
dal Mortini per le possibili vendite da me promosse erano
quasi inaccettabili, perché troppo distanti da quelli della
concorrenza.
C'era già differenza quando avevo cominciato a fare i
miei giri per la Campania, ma questa poteva in parte essere
giustificata dalla migliore qualità dei prodotti e definitiva-
mente colmata dal mio saper fare. Ora invece diventava
quasi impossibile concludere qualcosa di serio e di conti-
nuativo.
Quell'improvviso aumento, avvenuto solo in pochi giorni,
e principalmente le condizioni di vendita così severe erano
un chiaro boicottaggio alla mia azione da parte del Mortini
che evidentemente voleva sbarazzarsi di me in modo defini-
tivo.
Un pomeriggio, nello studio del rappresentante, sollevai
la questione senza più la timidezza dei primi giorni. Non mi
sembrava giusto, ne onesto quel suo comportamento e tan-
to sarebbe valso chiarire definitivamente la questione.
"Commendatore, ho mostrato la sua offerta al Comune di
Ferola. Sono rimasti meravigliati dei prezzi e delle condi-
zioni per i contatori e contrariati per non avere ancora rice-
vuto il preventivo per i tre trasformatori. Anch'io per la ve-
rità mi sono trovato in difficoltà, perché avevo accennato
51
nella prima visita ai prezzi di massima che solo quindici
giorni fa lei mi aveva dettato".
"Non posso farci nulla. Queste sono le condizioni e i prez-
zi di oggi. Se li accettano, bene, se no passi. Debbono capire
che le Officine Leonardo sono la ditta più importante del
settore".                                  .      .,   .
"Sì questo è quanto ho detto loro e proprio perciò mi
hanno fatto comunque richiesta d'offerta. Mi dispiace pero
che i prezzi sono così improvvisamente aumentati e che il
mio lavoro così difficile, come può immaginare, diventi
inutile anche per ritardi inspiegabili".              
"Questo è il mio modo di fare. Non ho altro da dire .
"Nemmeno io. A questo punto non mi rimane che salutar-
la  Qui ci sono i suoi depliants".
Lasciai sullo scrittoio il materiale che mi aveva dato e,
senza dire altro, andai via definitivamente.
Quant'è misero e gretto l'uomo. Perché deve comportarsi
in modo così subdolo? Perché non dirmi più chiaramente e
prima di tutti quei miei lunghi e faticosi giri che non aveva
intenzione di proseguire la collaborazione con me?
La causa era così evidente. Il suo comportamento cordia-
le e paterno era improvvisamente cambiato da quando ave-
vo mostrato di essere in possesso di maggiori conoscenze
tecniche delle sue e mente più duttile e aperta.
Ma già nella definizione di "paterno" vi è una contraddi-
zione Tale termine viene comunemente usato per rappre-
sentare un sentimento affettuoso e di sincera partecipazio-
ne Invece nella vita reale esso è sempre o quasi indice di
competizione e invidia. Per molti padri i figli dovrebbero
sempre essere inferiori a loro, richiedere consigli e dimo-
strare di aver bisogno di loro e loro 'paternallsticamente'
si beano a concedere con degnazione i loro insegnamenti,
consigli e aiuti.                                    .
La psicanalisi ha studiato il perché di ciò e ne ha spiegato
le origini. Difficilmente il padre è amico del figlio e vicever-
sa. Essi, a livello inconscio e certe volte conscio, sono in
continua competizione.
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Ero irritato e deluso, ma mi sentivo anche liberato da
quell'oppressione che aveva per me rappresentato il Morti-
ni, specialmente nei giorni in cui eravamo stati più di otto
ore insieme.
Però, tutto sommato, quell'esperienza mi era stata utile.
Avevo capito chi è un rappresentante, in cosa consiste il
suo lavoro. Avevo conosciuto un certo ambiente industria-
le, mi ero abbastanza specializzato nei prodotti elettrici e
poi avevo fatto l'esaltante esperienza di quei giri nell'inter-
no della Campania che mi aveva permesso di conoscere un
mondo per me totalmente nuovo, di cui forse avrei solo po-
tuto leggere in qualche libro e al quale forse non avrei cre-
duto. Alcune cose solo vivendole e facendone esperienza di-
retta si possono ammettere.
Non provavo poi tanto astio per il Mortini. Egli in defini-
tiva mi aveva immesso nei suoi segreti di lavoro, anche se
forse non totalmente e probabilmente all'inizio dei nostri
rapporti aveva davvero pensato di fare di me il suo collabo-
ratore. Il suo carattere era però troppo forte e dispotico e il
mio non era certamente di quelli che si adattano a subire o
a leccare.
Certo, in quei giorni ero stato più volte tentato dal suo
comportamento indisponente di spaccargli quella testa du-
ra di vecchio snob borioso, ma era il marito di una parente
di mia madre e poi non era peggiore di tanti altri individui
che avevo conosciuto e molto da vicino, forse proprio nel
mio ristretto ambito familiare.
Ora però dovevo cominciare tutto da capo. Ma indubbia-
mente i presupposti erano diversi. Avevo comunque inizia-
to un'attività che non mi era dispiaciuta, anzi mi era sem-
brata estremamente interessante, indipendente e remune-
rativa e per la quale, tutto sommato, mi sentivo tagliato.
Ciò lo avevo potuto verificare nei contatti diretti con i
piccoli produttori di elettricità, dove avevo fatto valere la
mia preparazione tecnica in generale e una predisposizione
insospettata ai contatti umani. Quindi avrei voluto conti-
nuare in quel lavoro, ma naturalmente come rappresentan-
53
tè diretto e non più come collaboratore.
Era chiaro nella mia mente che subito non avrei certo po-
tuto aspirare a una rappresentanza importante, ma a quelle
di ditte più piccole e modeste delle quali avrei potuto assu-
mere l'agenzia in esclusiva per la Campania con un ufficio
mio.
Ma dove e come procacciarmele?
Certo, non avrei potuto farlo da Napoli senza sapere nem-
meno a chi rivolgermi.
Era la fine di marzo e in aprile vi era la Fiera di Milano
della quale tanto avevo sentito parlare e dove confluivano
per esposizione, prospezione e contatti, tutte o quasi le in-
dustrie italiane e molte straniere. Sarei dovuto andare lì e
cercare di farmi valere. Non potevo e non dovevo conside-
rare la rottura con Mortini un insuccesso, ma piuttosto un
trampolino di lancio per costruirmi un futuro senza dovere
nulla a nessuno.
Comunque qualcosa sempre avrei dovuto chiedere,
sprovvisto com'ero di soldi, e quindi affrontare una discus-
sione con i miei che indubbiamente mi avrebbe dato molto
fastidio. Conoscevo la loro mentalità. Essi, già offesi dal
fatto che non mi ero avviato a svolgere un'attività "eletta",
si erano rassegnati a ciò con dispiacere, ma senza eccessi-
vamente impegnarsi a cercare di prospettarmene un'altra
più consona ai loro desideri come quella di imprenditore
industriale. Non ritenevano forse prudente rischiare su di
me i soldi occorrenti per fare ciò e quindi avevano scarica-
to ogni loro responsabilità sul conoscente che avrebbe po-
tuto farmi entrare in banca o sul Mortini. Secondo loro pro-
babilmente avrei dovuto vegetare accanto a quel vecchio,
subirne le bizzarrie e sperare, alla sua morte, di subentrar-
gli nell'attività. Chissà che non avessero ragione. Ma il mio
temperamento non mi permetteva di vegetare e di attende-
re a lungo.
Volevo conquistare, e subito, una mia autonomia, lascia-
re la casa paterna e poi sposarmi. Ciò mi aveva fatto decide-
re di abbandonare gli studi, anche se abbastanza vicino al
54
traguardo. Avevo capito che non sarei potuto andare avanti
come prima, un esame dopo l'altro e poi l'attività forse
sempre nell'ambito familiare, dal quale invece desideravo
andare via e subito. Allora perché non la banca? Lì avrei
guadagnato subito. Poco, ma subito. Ma la banca era il luo-
go degli impiegati e gli impiegati erano peggio degli studen-
ti, anche più di loro soggetti a controlli ed esami.
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.   L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. EmptyLun Dic 29, 2008 6:39 pm

CAPITOLO VII
Era una limpida mattina primaverile. L'aria profumata e
colma di nuovi fermenti e di nuova vita. Come la primavera
è indice di rinnovamento, di nascita e di una natura che ten-
de alla maturità estiva, così il viaggio a Milano avrebbe po-
tuto rappresentare per me la nascita e l'avvio alla mia ma-
turità di uomo inserito in un ambiente di lavoro prosperoso
e indipendente.
Avviai la mia 500 e mi diressi verso la via Domiziana e
quindi per Roma. Avevo con me tré lettere di presentazione
consegnatemi con molta degnazione da mio padre. La pri-
ma era per un ingegnere napoletano che viveva a Roma, le
altre per dirigenti milanesi. Mi sentivo libero e sicuro di
me, anche se andavo verso contatti del tutto nuovi e il cui
risultato era davvero incerto. Ma la sensazione di libertà e
felicità, che provavo ogni volta che mi allontanavo per un
periodo abbastanza lungo dalla mia famiglia e dal suo am-
biente con la sua concezione di vita che non condividevo,
anche se ne ero ineluttabilmente impregnato, mi dava co-
raggio e ottimismo.
Quant'è inebriante la libertà! Come sono fortunati quei
giovani che possono andare a studiare in città lontane da
quella dove hanno la famiglia. Già a diciotto anni o anche
prima, essi si sentono liberi della propria vita e delle pro-
prie azioni.
Però forse questa libertà va ricercata in se stessi più che
nella lontananza. Bisogna possedere un 'vero' carattere
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forte e indipendente per essere e sentirsi 'liberi' dovun-
que, e non farsi condizionare dall'ambiente che ci circonda!
Giunsi a Roma intorno alle 10,30 e mi diressi verso piazza
Bologna nei cui pressi era l'ufficio dove lavorava, quale di-
rigente commerciale di un'importante industria, l'ingegne-
re Marzi, il quale era stato per lunghi anni rappresentante
di prodotti per l'edilizia a Napoli. Fui introdotto nel suo
studio da una simpatica segretaria.
"Ingegner Marzi, mi chiamo Gianni Cruni, figlio di Valen-
tino e ho questa lettera per lei".
Prese la lettera e la lesse, mentre lo studiavo. Era un uo-
mo di mezz'età con aria decisa e fisico scattante.
"Ah, sei il figlio dell'architetto Cruni e vuoi fare il rappre-
sentante. Bene, ma perché?"
"Ingegnere, voglio lavorare e guadagnare; sono stufo
dell'università e di tante altre cose, ma il discorso sarebbe
troppo lungo. So che lei può darmi qualche consiglio utile".
"Sì, certamente, ma tu finora, leggo nella lettera, hai col-
laborato con un rappresentante di prodotti per centrali
elettriche e questo non è il mio campo. Perché non cerchi
invece qualche rappresentanza di materiali o prodotti e at-
trezzature per l'edilizia? Ne saresti facilitato".
"Mah, non so. Se lei può dirmi quali, posso tentare, anche
se ho fatto ultimamente l'esperienza che lei ha detto. Co-
munque, sia per gli studi che per pratica di cantiere ho ab-
bastanza nozioni anche in questo settore".
"Bene, io sono stato per anni rappresentante, fra le varie
ditte, della Ricci di Ancella che non è una grande azienda,
ma molto apprezzata nel settore dei macchinar! edili per
qualità e serietà. Non so ora chi la rappresenti, ma puoi
provare a rivolgerti a loro a nome mio. Sarebbe un buon
inizio per tè".
"Certo, anche se preferirei tentare prima nel settore elet-
trico, dove ho ormai conoscenze di eventuali clienti, dalla
SMEMEL ai più piccoli".
Non mi ascoltò e proseguì:
"Oppure puoi provare nel settore degli ascensori, oggi in
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piena espansione. Vedi, io quando incominciai..." e iniziò
un monologo che durò più di tre ore.
Gli impiegati del suo ufficio apparvero alla porta del suo
studio verso le 12,30, salutarono e andarono via per colazio-
ne, poi ritornarono verso le 15 e noi eravamo ancora lì. La
stanza era satura di fumo per le sue moltissime e le mie
molte sigarette fumate.
Parlava, parlava, parlava... e io incominciai a non ascol-
tarlo più. Il suo non era un aiuto, ma solo il racconto delle
sue prodezze di lavoro e di come era infine giunto ad occu-
pare la posizione attuale di capofiliale della SMOM, pro-
duttrice di ottimi e quotati ascensori. Guadagnava molto,
diceva, abitava in una stupenda casa all'EUR e possedeva
una Maserati.
Avevo una fame atroce, ma lui nè andava, nè mi invitava a
pranzo. Lo sperai più volte e poi mi rassegnai.
Erano le 16 quando disse:
"Ora debbo andare. Ti faccio tanti auguri e fammi sapere
quello che hai fatto". Poi: "Ah, aspetta, tieni questo. Leggi-
lo, ti sarà utile" e mi porse un libro intitolato Il venditore
Meraviglioso. Scendemmo insieme in strada e ci salutam-
mo.
Ero frastornato, avevo fame e mal di capo. Lo vidi allon-
tanarsi, lo seguii con lo sguardo per vedere la Maserati di
cui tanto mi aveva parlato. Ero già nella mia 500 quando lo
vidi alla guida di un'altra 500, ma molto più vecchia e ma-
landata della mia.
Chissà se non era un venditore di fumo!
Se le presentazioni di mio padre erano queste, sarebbe
stato meglio fermarsi lì e non usufruire delle altre. Quattro
o cinque ore di chiacchiere e pochissimo costrutto. Pernot-
tai a Grosseto.
La mattina successiva per. tempo proseguii lungo l'Aure-
lia e poi da Sarzana, per il passo della Cisa, giunsi a Parma
da dove presi l'autostrada del Sole che allora si arrestava a
Bologna e di lì, tutto d'un fiato, ammirando le funzionali
stazioni di servizio e gli immensi ristoranti luccicanti di cri-
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stalli e alluminio che scavalcavano il grande nastro d'asfal-
to, giunsi a Milano.
Faticosamente, cercando di seguire un tragitto che avevo
tracciato sulla piantina della città, riuscii a raggiungere la
stazione ferroviaria, dove vi era un ufficio dell'Azienda
Soggiorno e Turismo. Qui, essendo tutti gli alberghi al com-
pleto, mi proposero di alloggiare presso uno dei tanti affit-
tacamere occasionali che approfittano dei quindici giorni
della Fiera per arrotondare le proprie entrate.
Munito di un foglietto dell'Azienda, mi diressi, ancor più
faticosamente di prima, verso la via Cadore dove al numero
8 abitava la signorina La Gioia, alla quale ero stato indiriz-
zato.
Via Cadore era una bella strada larga e alberata e trovai
facile posteggio per la mia piccola auto quasi davanti all'in-
gresso del palazzo dove avrei alloggiato. Vidi il portiere, mi
informai sul piano e lo pregai con gentilezza di darmi una
mano per portare su le mie cose. Ma questi in modo brusco
mi rispose che lui non era un facchino e mi lasciò lì.
Che differenza con i portieri napoletani, pronti per una
piccola mancia a fare di tutto!
Contrariamente all'accoglienza del portiere, quella della
affittacamere, un'attempata, piccola e grassa donna, fu
cordialissima e piena di gentilezze. Mi condusse nella "mia
stanza" che era quella da pranzo, ampia e lustra dove, insie-
me con credenze, tavolo e sedie, vi era un letto piccolo ma
comodo. Mi indicò il bagno, vecchio ma pulitissimo e mi in-
formò che lei avrebbe potuto, se lo avessi desiderato, pre-
pararmi del caffè o caffelatte ogni mattina.
Rimasi solo e finalmente ebbi il tempo per dare libero
corso alle prime sensazioni che si affollavano nella mia
mente.
Ero a Milano, avevo un alloggio ed ero pronto a procurar-
mi quello che cercavo. L'impatto con la grande metropoli,
industriale e commerciale, era stato positivo. Già a Metano-
poli, dove terminava l'autostrada del Sole, gli imponenti e
modernissimi palazzoni dell'Agip, le grandi tubazioni, i si-
59
los, l'intenso viavai di camion, le ciminiere fumanti erano
un chiaro invito alla produttività e un incentivo alla voglia
di lavorare. Non mi sentivo un immigrato, anche se ero lì
alla ricerca del mio definitivo lavoro. L'organizzazione che
avevo potuto riscontrare nell'ufficio alloggi dell'Azienda di
Soggiorno era già un segno di ben altro modo di vivere e di
operare. Avrei avuto successo, ne ero sicuro!
Più tardi uscii e mi recai, sempre con molta difficoltà, in
centro. Qui riuscii a posteggiare e, a piedi, mi diressi verso
la galleria Vittorio Emanuele che con piazza del Duomo co-
stituisce il cuore della grande città lombarda. Ero già stato
lì alcuni anni prima in estate, ma da turista, e ricordavo un
piccolo ristorante fiorentino che era nei pressi. Mi ci recai
e consumai un abbondante e gustoso pranzo. Poi incomin-
ciai a passeggiare per il corso Vittorio Emanuele: ne rimasi
entusiasta!
Che portici imponenti e ben curati, tenuti come salotti;
che negozi opulenti e che bar luminosi, affollatissimi e ric-
chi di ogni ben di dio; che cinematografi, che gente elegan-
te, quanti locali notturni, quanta luce, quanto sfarzo e
quanto benessere!
Camminai a lungo gustandomi quello spettacolo da piaz-
za San Babila a Corso Matteotti, dalla stretta ed elegantissi-
ma via Monte Napoleone, alla notissima via Manzoni.
Quanta differenza con Napoli il cui centro è disorganizza-
to, sporco e mal frequentato, e anche con Roma con il suo
centro diviso e frazionato. Qui invece in circa un chilome-
tro quadrato si concentra il meglio della città.
Vidi in corso Monforte il teatrino Alle Maschere dove vi
erano due spettacoli di spogliarello e vi entrai. Meraviglia!
Nel 1960 potei assistere a due ore di nudi superbi, invitanti
e presentati con classe. Che paradiso, che vita e quanto de-
naro! Quella è gente che lavora intensamente, ma sa anche
divertirsi!
La mattina dopo andai alla Fiera e vi entrai da piazza Sei
Febbraio, immensa e con enormi posteggi. Rimasi subito
colpito dall'intenso movimento e dal fatto che i posteggia-
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tori facevano lasciare l'auto chiusa, ma con il freno a mano
e la marcia disinseriti. Essi, pieni di energia, spostavano le
auto dall'esterno, girando le ruote con le mani. Entrai nella
Fiera e subito acquistai il voluminoso catalogo e la relativa
pianta.
Rimasi esterefatto. Un salone grandioso, era il palazzo
dello Sport, colmo di motociclette, motocicli, biciclette, ar-
ticoli sportivi e tanti, tanti accessori, stands gremiti di visi-
tatori, presentatori, luci, depliants e attraenti signorine
nelle smaglianti divise delle case espositrici.
Uscii da quel primo padiglione e percorsi il viale del
Commercio e quello delle Industrie fino a raggiungere il pa-
lazzo delle Nazioni. Dovunque stands, movimento, attivi-
smo, merce luccicante, cartelloni di tutte le dimensioni, in-
segne colossali, un intersecarsi di voci rimbombanti, diffu-
se da potenti altoparlanti ed esaltanti prodotti, i più svaria-
ti; conversazioni in italiano con tutte le intonazioni dialet-
tali possibili e tante lingue straniere; gente di tutte le razze:
inglesi, tedeschi, francesi, americani, giapponesi, indiani e
di tutte le altre parti del mondo.
Ero frastornato ed eccitato. Vedevo bar, tavole calde, ri-
storanti immensi, diurni, ingressi di colossali padiglioni
che come bocche inghiottivano e vomitavano una massa im-
ponente di gente e attraverso le quali si potevano intravede-
re macchinari lucidissimi e articoli di ogni genere e tipo,
trenini che conducevano lungo tutti i viali della grande Fie-
ra e, al contrario di quella napoletana d'Oltremare, pochis-
simo verde, ma tanti e tanti prodotti.
Quel giorno mi limitai ad aggirarmi dappertutto per ren-
dermi conto di come fosse articolata una grande Fiera. Ero
felice. All'una pranzai in un ristorante posto in una sala
grandissima e dove vi erano centinaia di tavoli. Dovetti fare
la fila e attendere pazientemente che si liberasse un posto
per sedermi infine insieme con altra gente che già stava
pranzando. Dopo aver terminato era quasi obbligatorio, an-
che se non stabilito, lasciare il posto ai tanti altri che atten-
devano. I camerieri correvano agilissimi, attentissimi e
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bravissimi fra i tanti clienti e non sbagliavano mai: erano
anch'essi un esempio di bravura professionale e di attivi-
smo. Che giornata faticosa doveva essere la loro, ma quanto
dovevano guadagnare fra compensi e mance! Erano il sim-
bolo di quella città che molto da, ma molto richiede.
Rimasi in Fiera fino all'ora di chiusura e poi ritornai in
centro dove cenai e andai al cinema. Era un locale spazioso,
elegantissimo e affollatissimo, tanto che dovetti sedere, co-
me altri, sulla moquette dei gradini della galleria fin quan-
do uno spettatore che andava via mi indicò che il suo posto
era rimasto libero. Anche questa è una cosa che non mi è
mai capitata a Napoli. Nella mia città, quando una poltrona
rimane libera, è una gara a chi se ne impossessa e spesso è
fonte di accesi e rumorosi contrasti. Chi la lascia libera non
solo non si preoccupa degli altri che sono in attesa, ma qua-
si si diverte alle lotte che si scatenano.
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.   L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. EmptyLun Dic 29, 2008 6:39 pm

Dopo il film andai nuovamente in giro lungo il corso Vit-
torio Emanuele e con un po' di timidezza entrai in un locale
notturno con spettacolo. Non presi posto a un tavolo, ma
mi fermai al bar, dove da lontano ammirai e mi eccitai per
l'esibizione in uno spogliarello di una meravigliosa bionda.
Come avrei voluto andarci a letto! Probabilmente sareb-
be stato possibile, ma non avevo il coraggio di chiederlo a
un cameriere, ne a nessun altro. Ritornai in via Cadore.
Il giorno dopo ero nuovamente in Fiera. Era giunto il mo-
mento di cominciare a prendere contatti con qualche azien-
da del settore elettrico. Studiai il catalogo e mi recai al pa-
diglione specifico. Non vi erano moltissimi espositori. Ne
adocchiai un paio che più potevano fare al caso mio; erano i
più modesti o quasi. Mi aveva preso una gran timidezza. La
vinsi con fatica ed entrai nel primo: era la ditta Misuron di
Trento. Mi avvicinai ad un signore grosso, dal viso abbron-
zato e bonario.
"Vuole darmi qualche indicazione sui vostri prodotti?"
"Sì, con piacere. Cosa le interessa?"
"Vedo che producete contatori elettrici. Vorrei conoscer-
ne le caratteristiche e i prezzi".
62
Mi illustrò tutto con precisione e cortesia.
"Siete fornitori di grandi aziende erogatrici di elettrici-
tà?"
"Veramente solo della Volta di Milano".
"E alla SMEMEL di Napoli avete mai fatto un'offerta?"
"No, ma abbiamo qualche piccolo cliente in Abruzzo e
nel Lazio".
"Ma in Campania non siete rappresentati?"
"Non ancora, abbiamo qualche contatto. Sa, è poco che
stiamo pensando ad espanderci. Fino all'anno scorso ci sia-
mo occupati solo dell'alta Italia, ma ora con il nuovo stabi-
limento desideriamo allargare il nostro giro. Lei è interes-
sato all'acquisto o alla rappresentanza?"
"Io alla rappresentanza. Sono ben introdotto alla SME-
MEL e in quasi tutte le piccole aziende della Campania. Ho
collaborato con un mio parente che è l'agente in esclusiva
delle Officine Leonardo".
L'atteggiamento dell'uomo si fece più attento e interessa-
to.
"Si accomodi allo scrittoio, prego".
Ci sedemmo, prese un blocco notes e proseguì:
"Io sono il signor Tronin e sono uno dei titolari della Mi-
suron. E il suo nome, prego?"
"Mi chiamo Gianni Cruni e sono quasi laureato in inge-
gneria".
"Bene, signor Cruni, sono molto interessato alla collabo-
razione. Ma, mi dica, a Napoli non vi è la ditta Perfetta che
produce contatori?"
"Sì, ma sono pessimi mentre, come sa, quelli della Leo-
nardo sono ottimi, ma costano troppo. Se i vostri sono di
buona qualità e, come lei mi ha accennato, hanno un prezzo
non eccessivamente alto, si potrebbe fare un buon lavoro".
"Io ho tanti attestati di clienti sul buon funzionamento
dei nostri contatori e il certificato di collaudo eseguito dal
politecnico di Milano... guardi pure", e mi porse un fascio
di fotocopie.
"Sì, vedo, ma più che leggere è lei che ne deve essere con-
63
vinto nel comune interesse".
"Io lo sono, perbacco. Però, veda, non si offenda, se per la
SMEMEL non vi sono problemi, abbiamo un po' di paura
per i pagamenti delle altre ditte della Campania".
Rimasi interdetto e poi:
"Davvero non credo possiate correre più rischi di quelli a
cui andate incontro con qualsiasi piccola ditta di tutta Ita-
lia".
"Sì, forse ha ragione, signor Cruni, e poi prenderemo in-
formazioni".
"A proposito di queste, su di me potrete chiederle presso
il commendator Mortini, rappresentante della Leonardo, e
al Banco di Napoli". Annotava tutto.
"C'è un'altra cosa che vorrei chiederle, signor Cruni".
"Dica pure".
"Rappresenta anche qualche altra ditta del settore?"
Eccola la domanda imbarazzante. Tutti gli inizi sono
così; anche all'università il primo esame è fondamentale,
costituisce la referenza e il biglietto da visita per i successi-
vi.
"No, non ancora. È da poco che ho deciso di mettermi in
proprio e ho preso vari contatti interessanti. Comunque
quello che secondo me è importante è la mia esperienza e
l'introduzione".
"Certo, ha ragione. D'altra parte deve avere anche altre
case, perché non credo che la nostra basterebbe ad assicu-
rarle un guadagno sufficiente".
"Lo so bene. Vorrei ampliare la gamma dei prodotti, an-
che se non può essere quella della Leonardo. Ora però vor-
rei porle io delle domande sulle provvigioni, i termini di
consegna e le condizioni di vendita".
Me le illustrò dettagliatamente e mi sembrarono interes-
santi e valide. Domandai ancora:
"Per l'assistenza tecnica come fate?"
"Nel periodo della garanzia inviarne subito un contatore
in sostituzione di quello eventualmente difettoso. Poi biso-
gnerà vedere sul posto."
64
Conversammo ancora e cercai di dargli, ma senza strafa-
re, l'impressione della competenza sia tecnica che commer-
ciale. Ci salutammo riservandoci di scriverci subito dopo la
chiusura della Fiera.
Un vivo senso di soddisfazione mi pervadeva. Ritenevo di
essermi comportato bene e di essere riuscito a mascherare
la timidezza iniziale e la scarsa esperienza. Ero quasi sicu-
ro che avrei ottenuto quella prima rappresentanza, anche
se non era granché.
Nel pomeriggio ritornai nello stesso padiglione e visitai
una ditta di Firenze, la SOMI. Lo stand era molto più gran-
de di quello della Misuron e presentava molti articoli. Vi
erano funzionar! e signorine. Presi contatto seguendo la
stessa tattica che avevo adottato nella mattinata. Ma qui le
dimensioni erano ben diverse. Trovai un'accoglienza fred-
damente cortese, il risultato incerto, ma non pregiudicato
totalmente. Uno dei dati positivi era che avevano da poco li-
bera la zona di Napoli, dove peraltro non erano mai stati ca-
paci di ottenere grosse vendite.
La sera riuscii miracolosamente a trovare una poltrona
libera in un piccolo teatro di via Manzoni. Il mio posto era
nella seconda fila della galleria che era in forte pendenza.
Davanti a me sedeva un'appetitosa ragazza che aveva ai lati
due giovani accompagnatori. La rappresentanzione era
buona, ma non particolarmente avvincente.
Il mio interesse dopo un po' fu attratto dal comportamen-
to di quella ragazza. Aveva il braccio destro posto sotto
quello del suo accompagnatore di quel lato e la mano, bella
e inquieta, carezzava la gamba di questi dal ginocchio
all'inguine. La mano di lui accompagnava, ma non guidava,
quella di lei che, giunta al pene, si poteva immaginare semi-
nascosta toccare, eccitare e masturbare. Tutto ciò era gra-
dito dall'uomo che non sembrava preoccuparsi che gli altri
spettatori potessero vederli.
Ma la cosa che più mi colpì ed eccitò fu il fatto che, con-
temporaneamente all'azione descritta, l'altro braccio della
ragazza, in analoga posizione, carezzava e tormentava il
65
compagno alla sua sinistra, il quale, evidentemente più ti-
mido, arrossiva e cercava di allontanare la gamba e il baci-
no, spostandosi verso sinistra, ma lei caparbiamente insi-
steva e lo inseguiva fino a catturare anche lui e il suo mem-
bro.
Venne l'intervallo e i tre si recarono al bar, cosa che feci
anch'io. La ragazza era davvero bella e il suo viso, il suo at-
teggiamento, il suo ammiccare erano profondamente ecci-
tanti. Mentre parlava e scherzava continuamente con i suoi
accompagnatori, il suo sguardo si fermava provocatorio
anche sugli altri frequentatori del teatro.
Quando tornammo a sederci fui ancora più colpito dalla
decisione e determinazione con la quale ella pose le braccia
e le mani nella posizione precedente.
Ero eccitatissimo. Ma come, a quella non solo non basta-
va masturbare il compagno di destra, ma anche l'altro, e in
pubblico!
Alla fine dello spettacolo li seguii e dopo un po' lei, sotto
braccio ai due, si girò, mi guardò seducente e mi disse:
"Ho notato, sai, che non hai fatto altro che guardarmi e
desiderarmi. Vieni," fammi compagnia anche tu".
Diventai rosso come un gambero e mi avvicinai. Lei si
staccò dai due, mi carezzò il viso con una mano, mentre l'al-
tra si impadronì del mio pene.
Tutti insieme ci recammo in un'abitazione vicina, in una
stanza dove vi era un grande letto.
Lei toccava ed eccitava tutti e con movenze aggraziate e
provocanti si spogliò e ci ingiunse di fare altrettanto. Uno
lo fece subito, mentre io e l'altro più timido fummo spoglia-
ti quasi a viva forza e poi, alternativamente e in posizioni
diverse, giacemmo con lei.
Com'era bella e brava, come ci sapeva fare con tutti e tré,
che sensazioni riusciva a darmi: era stupenda, che bello!
Sarei voluto rimanere lì per sempre.
La gente si alzò, le luci erano tutte accese, lo spettacolo
finito. Mi scossi, i tre davanti a me si erano avviati verso
l'uscita. La ragazza era sotto braccio di entrambi. Uscirono
66
in strada e io li seguii. Montarono m un elegante spider e
partirono. Non si era nemmeno girata a guardarmi. Prose-
guii verso la mia 500 e tornai in via Cadore.
Non riuscivo a prendere sonno. Fissavo la parete di fron-
te rivestita di una brutta carta a fiori. Alla fioca luce del lu-
me o sul comodino mi sembrava di vedere proiettate su
quella parete strane ombre. Avevano forme continuamente
variabili e mi ricordavano tante cose, come una lanterna ci-
nese animali, case, visi, ma principalmente l'organo geni-
tale femminile. Mi sentivo solo, desideroso di compagnia e
principalmente di donne. Dovevo andare a donne. Ne aevo
un desiderio straziante. Sì, dovevo andarci e presto. Quella
specie di sogno che avevo fatto ad occhi aperti a teatro era
a dimostrazione che pensavo a loro in modo ossessivo. Cer-
to la presenza e principalmente il comportamento d quella
ragazza avevano ancor più eccitato i miei sensi e la mia
mente. Pensai alla mia ragazza, così cara e graziosa che era
a novecento chilometri di distanza. Pensai a Milena, la bella
misteriosa bruna di Fontana Albanese ai suoi grande occhi
neri. Ripensai a quella ragazza del teatro. Perchè si
comportava in quel modo, perché con due insieme. Uno
doveva essere il suo ragazzo, l'altro un amlco, perchè
masturbare tutti e due contemporaneamente? Le piaceva?
Evidentemente sì. E il suo ragazzo? Certamente se ne era
accorto, e non protestava, forse ne traeva anche lui maggio-
re eccitamento?
Allora esistono veramente menage a tre, ma non nel senso che uno dei tre
non ne è a conoscenza, ma con tutti gli
elementi del trio, consapevoli e contenti'!
Chi è più poligamo, l'uomo o la donna? Il maschio lo è di
natura, anche nel mondo animale. E la femmina? Le prostitute
hanno ogni giorno tanti rapporti. Ma cosa c'entra, non
vi è partecipizione, almeno così si dice. Ma il caso che mi si
era presentato era un'anormalità o una normalità? Forse a
Milano e ancor più nei paesi nordici dove la donna e più
indipendente, rapporti di questo tipo cominciano a diventare
normali.
67
Il progresso sociale rende la donna simile all'uomo come
atteggiamenti, comportamenti e desideri. Ma l'essere uma-
no è poligamo, anche se non alla luce del sole e comunque
non davanti al proprio partner; quindi quanto avevo visto
non era normale, ma tanto eccitante!
Quella ragazza doveva coglierne due insieme, forse era
una ninfomane o qualcosa di simile.
Continuavo a fissare la parete, poi lentamente spostai lo
sguardo verso il balcone e infine sul pavimento e mi addor-
mentai di un sonno agitato.
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Bruno
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.   L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. EmptyLun Dic 29, 2008 6:46 pm

CAPITOLO VIII
In Fiera, dopo i primi due contatti del giorno prima, ten-
tai di iniziare nuove proficue trattative per i prodotti che
mi interessavano, ma le ditte o erano quelle molto impor-
tanti e quindi dirette concorrenti della Leonardo che non
era nemmeno il caso di avvicinare, o erano già rappresenta-
te per la Campania. Di conseguenza, nessun'altra possibili-
tà, ma solo una migliore conoscenza dei prodotti della con-
correnza.
A pranzo, in un ristorante della Fiera, mi sentivo un po'
deluso, in quanto mi rendevo conto che non avrei potuto
raggiungere, con i risultati sperati, il mio primario obietti-
vo e quindi bisognava spostare la ricerca in un settore di-
verso da quello elettrico. Ricordai quello che mi aveva det-
to l'ingegnere Marzi sugli ascensori e quindi decisi di cerca-
re in tale campo. Ma mi pesava la solitudine.
Frugai nei miei ricurdi, cercando di fecalizzare chi avevo
conosciuto che abitasse a Milano e possibilmente una don-
na.
Un lampo: Caterina! L'avevo conosciuta anni prima in vil-
leggiatura a Selva Gardena. Era una ragazza di età maggio-
re della mia, non era molto bella, ma fine, delicata e simpa-
tica. A quei tempi era fidanzata con uno studente dell'Acca-
demia di Belle Arti. Chissà se si era sposata. Per alcuni anni
ci eravamo scambiati gli auguri per Natale; avrei potuto
provare a telefonarle. E il cognome? Dopo un po' lo ricor-
dai: Strini. Andai al telefono, cercai il numero, lo trovai, lo
69
composi. Mi rispose una donna.
"Pronto, casa Strini".
"Buon giorno. Sono un amico della signorina Caterina,
c'è?"
"Attenda, prego".
Dopo un po' la melodiosa voce:
"Pronto, chi è al telefono?"
"Caterina?"
"sì"-
"Sono Gianni Cruni. Ti ricordi di me? Il napoletano di
Selva".                                                 -^
"Ah, sì... dove sei, a Milano?"
"Sì, sono qui e mi tratterrò alcuni giorni. Come stai?"
"Bene, e tu? Oh, che piacere sentirti. Se ti trattieni a Mi-
lano dobbiamo assolutamente vederci. Com'è che ti sei ri-
cordato di me e cosa hai fatto in tutti questi anni?"
"Vediamoci subito".
"Come subito?"
"Sì, io oggi sono libero e vorrei andare a San Siro. C'è il
Gran Premio Fiera. Perché non ci andiamo insieme?"
"Ma sei sempre il solito pazzo napoletano. Così, subito;
ma debbo prepararmi. Dove sei ora?"
"Sono in Fiera".
"... Allora, senti, fra mezz'ora vieni da me, così saluterai
anche mia madre e poi andremo a San Siro".
"D'accordo, con piacere. Che strada debbo fare?"
"Hai una piantina?"
"Sì".
"Allora guarda, dalla piazza Giulio Cesare arriva in piaz-
za Piemonte, poi girando a sinistra vai in piazza Baracca e
di lì prosegui per i Bastioni fino a Porta Vigentina. Io abito
lì vicino".
"Vengo subito. Preparati. Ciao".
Ero felice: non sarei stato più solo. Avevo una compagnia
e anche piacevole.
È bello avere conoscenti che ti ricordano con simpatia,
anche se per cinque o sei anni non ci si è frequentati.
70
Uscii dalla Fiera e volai da lei. Presi l'ascensore di un ele-
gante e moderno palazzo in una zona residenziale e bussai
alla porta. Mi aprì una domestica, dissi chi ero, mi fece ac-
comodare in un pranzo-salotto molto ampio e ben arredato
dove vi era la madre che mi salutò con cortesia e mi presen-
tò al fratello, un signore molto distinto sui cinquant'anni.
Dopo pochi minuti entrò nella stanza Caterina. Non era
molto cambiata. Alta, snella, un volto raffinato, modi ele-
ganti e semplici.
"Come stai? Sei cresciuto e irrobustito. Ti sei fatto più
uomo".
"Tu sei come allora. Stai benissimo".
"Mamma, noi andiamo, se no perderemo le corse".
Baciò la madre e lo zio, salutammo e andammo via.
Feci per guidarla alla mia auto, ma lei:
"Andiamo con la mia. Sono più pratica delle strade. La
tua lasciala qui, la prenderai al ritorno".
Poco distante era una linda 600, molto ben tenuta, con
delle graziose coperture e tanti accessori utili e fini che era-
no lo specchio della proprietaria. Salimmo e partimmo.
"Ma guarda che sorpresa! Dopo tanti anni ti fai vivo im-
provvisamente. Sei sempre il solito pazzo simpatico napole-
tano. Cosa fai qui e cosa hai fatto in questi anni?"
"Io studio ingegneria e sono quasi alla fine. Sono qui per
la Fiera a esaminare alcuni macchinari per l'edilizia che
possono interessare mio padre e quindi anche me. E tu, sei
sempre fidanzata con il ragazzo che ho conosciuto a
Selva?"
"Ah, Pierluigi. No, da parecchi anni ci siamo lasciati. E
tu?"
"Sono fidanzato".
"Io quasi".
"Come quasi?"
"Ho un ragazzo che mi frequenta spesso e con il quale di
tanto in tanto esco, ma nulla di serio".
"E cosa fai, lavori?"
"No, in questi anni papa e mamma si sono separati e io
71
sto sempre con lei. Ora che ho l'automobile andiamo di fre-
quente fuori Milano per qualche giorno... Ma guarda un
po', dopo anni una telefonata e subito insieme".
Era visibilmente contenta. Evidentemente le ero stato
simpatico prima e le ero piaciuto ora.
Arrivammo all'ippodromo del trotto che è fra il grande
stadio calcistico e quello del galoppo. Il quartiere che ave-
vamo attraversato era molto bello e del tutto residenziale,
con prati e villette graziose e pulite. L'ippodromo invece
non era un granché, era vecchio e male attrezzato; ma ri-
spetto a quello napoletano di Agnano aveva i tavolini del
Caffè in buona posizione dalla quale si poteva osservare
con comodità la pista.
Puntammo, o perlopiù puntai e vinsi. La corsa principale
vide il trionfo del cavallo più benvoluto che in quei tempi
corresse sugli ippodromi, l'indigeno Tornese che aveva vin-
to anche a Napoli due Premi Lotteria.
Stavamo bene .insieme. C'era fusione e simpatia. Dopo le
corse Caterina avrebbe voluto ritornare a casa, ma io la-
convinsi ad andare al cinema in centro.
Per tutto il film parlammo quasi in continuazione, come
dei vecchi e buoni amici e i vicini di posto spesso furono co-
stretti a pregarci di fare silenzio.
Quando lasciai Caterina sotto casa ero lieto e disteso e lei
felice ed entusiasta. Ci ripromettemmo di telefonarci e ve-
derci spesso durante il mio soggiorno milanese.
Attraversai tutta la Fiera -continuavo a entrare dalla por-
ta Sei Febbraio- e mi recai nella zona riservata all'edilizia
dove incominciai a visitare gli stands delle case costruttrici
di ascensori. Non erano moltissime e comunque tutte ditte
molto importanti e già soddisfacentemente rappresentate
in Campania.
Nel catalogo generale avevo però notato che vi era, alla
voce "elevatori", un nome che non mi sembrava conosciu-
to, Magli di Partana. Esponeva nel colossale padiglione ri-
servato alle macchine per il legno. Vi andai e, fra una mas-
sa enorme di strane e per me completamente sconosciute
72
macchine per il legno, come scortecciatrici, segatrici, pial-
latrici, fresatrici, torni, levigatrici, mortasatrici, fui colpito
da tre elevatori di tipo originalissimo. Erano posti non per-
pendicolarmente al suolo, ma in forte pendenza, come una
specie di grandi scaletti da casa, azionati da motore elettri-
co e lungo le guide, alte cinque, sei metri o più, correva una
piccola cabina aperta.
Mi avvicinai e osservai bene e poi chiesi ad un signore,
che più che industriale sembrava un contadino, ma di quel-
li del nord:
"Come funzionano e perché questa forma strana?"
"Vede, questi, nonostante la forma, sono dei veri e propri
ascensori, o più propriamente elevatori. Ma, al contrario
degli altri e in virtù della forma, non sono soggetti a collau-
do da parte dell'Ente Nazionale Prevenzione Infortuni. Co-
me può notare, sono anche fomiti di ruote e possono essere
usati sia per caricare legname sulle tante cataste delle se-
gherie e dei depositi, ma possono anche essere applicati in
posizione fissa, purché sempre inclinata".
"Interessantissimo. E i comandi, e la portata?"
"I comandi avvengono attraverso questa pulsantiera mo-
bile, quindi il carrello è telecomandato. La portata può es-
sere anche elevata, ma normalmente è di cento, centocin-
quanta chilogrammi".
"E come altezza?"
"Possono raggiungere anche dieci, dodici metri e anche
di più in posizione fissa, altrimenti la media è di sei metri".
Mi informai del prezzo che era ottimo e fortemente con-
correnziale.
Ero eccitato e interessato. Forse avevo trovato qualcosa
di veramente nuovo e con possibilità di larga utilizzazione.
Domandai:
"Siete rappresentati in Campania?"
"No, non ancora".
"Vede, io sono molto interessato. Sono amico dell'inge-
gner Marzi, capofiliale di Roma degli ascensori SMOM, che
è stato per vari anni rappresentante nel settore a Napoli.
73
Ho anche collaborato con il commendator Mortini, agente
delle Officine Leonardo".
"Interessante. E ha quindi buone conoscenze a Napoli?"
"Certo. E un ufficio e garanzie bancarie".
"Allora le interesserebbe assumere la rappresentanza in
esclusiva per la Campania".
"Certamente. Vorrei sapere quali sono le condizioni che
prevedete nel vostro contratto di agenzia".
Me le disse e parlammo di forniture già fatte in altre cit-
tà. Mi mostrò il depliant dell'elevatore, simpatico e ben ese-
guito e mi fece vedere dei disegni esecutivi per applicazioni
particolari. Gli lasciai l'indirizzo e le referenze e ci ripro-
mettemmo di incontrarci ancora nei prossimi giorni.
Non avrei voluto mostrarmi molto interessato, ma
quell'elevatore mi piaceva sempre più e prevedevo delle
grandi possibilità di vendita e di sviluppo nella Campania.
Andai via felice e soddisfatto. Caterina mi aveva portato
fortuna.
Le telefonai e prendemmo appuntamento in centro.
Quando giunsi in piazza San Babila, lei era già lì ad atten-
dermi. La osservai attentamente: non era bella, nè graziosa,
ma tanto fine, ben vestita, delicata nei modi e nel parlare e
anche tanto simpatica e alla mano. Mi vide e mi fece un cen-
no festoso, accingendosi a venirmi incontro.
Ero lieto di averla ritrovata. Stavo bene con lei e mi senti-
vo sicuro e senza complessi. A braccetto passeggiammo per
le vie del centro e ci recammo in uno dei tanti snack-bar,
dove cenammo a base di sandwiches e sottaceti.
Com'era lontana Napoli con i suoi mille problemi, come
remoti i noiosi pomeriggi trascorsi con Mortini. Tutto sem-
brava bello e radioso. E Fontana Albanese, e i tanti paesini
dell'interno della Campania, le strade sconnesse che attra-
versavano contrade desolate, le donne segregate, le case
vecchie che si appoggiavano l'un l'altra per aiutarsi a non
cadere, i contadini con i volti scavati dalle intemperie e dal-
la fatica, appartenevano certo ad un altro pianeta. In que-
sto vi era solo lusso, ricchezza, luci, divertimenti, cinema,
74
teatri, bar, ristoranti, locali notturni, donne evolute, sedu-
centi e ben vestite, automobili eleganti, negozi colmi di tan-
te belle cose e, sì, anche lavoro, tanto lavoro, ma ben pagato
e compensato dai tanti svaghi!
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.   L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. EmptyLun Dic 29, 2008 6:47 pm

CAPITOLO IX
II ritmo della mia vita milanese rimase nei giorni succes-
sivi intensissimo, ma non più caotico come prima. La matti-
na e il primo pomeriggio ero in Fiera per proseguire nei
contatti con possibili ditte da rappresentare e poi, dopo
una breve sosta in via Cadore, con Caterina con la quale mi
trattenevo fino a quasi, e certe volte oltre, la mezzanotte.
Che differenza dai primi giorni trascorsi nella grande
metropoli da arrabbiato o quasi! Ora mi consideravo un in-
tegrato e mi sembrava di essere sempre vissuto là. Mi ci
trovavo bene ed ero orgoglioso di me per essere riuscito in
così breve tempo ad organizzarmi, farmi rispettare e voler
bene.
Nella casa dove dormivo i miei rapporti con l'anziana si-
gnorina La Gioia erano sempre più cordiali. Mi guardava
con ammirazione, specialmente da quando Caterina aveva
iniziato a telefonarmi sempre più spesso. La donnetta, pur
avendo cinque pensionanti per la Fiera (me compreso) e
due fissi, sembrava avere particolari attenzioni solo per
me.
Mi portava la colazione e il giornale e poi correva a pulire
il bagno comunicandomi, appena pronto, che potevo andar-
ci con tutta calma. Portando con me lo spazzolino da denti,
il rasoio elettrico e gli asciugamani, lo trovavo lindo e pro-
fumato come non avrei mai pensato si potesse tenere un im-
pianto così vecchio e usato da tante persone.
Molte volte, mentre mangiavo, mi teneva compagnia e mi
76
raccontava di lei, rimasta ormai sola dopo il matrimonio
dei fratelli e delle sorelle. Viveva facendo la sarta e si aiuta-
va dando in fitto per tutto l'anno due delle quattro stanze a
operai immigrati a Milano. Questi però, durante la Fiera,
erano costretti a dormire nel piccolo ingresso e nel breve
corridoio per lasciare libere tutte le stanze della casa agli
occasionali pensionanti che venivano a Milano per i quindi-
ci giorni della Fiera. Anche la sarta lasciava in quel periodo
la sua stanza e dormiva su un materasso gettato sul pavi-
mento della vecchia cucina.
Quanta miseria, ma quanta dignità sia in lei che in quegli
operai, della cui presenza mi accorgevo solo la notte quan-
do rientrando dalle mie uscite con Caterina, li vedevo pro-
fondamente addormentati su lettini di fortuna.
Quel piccolo quartierino era di notte affollatissimo, ma
la donnetta riusciva a tenere tutto in ordine perfetto e si
mostrava sempre allegra e gentile. Era infaticabile e con
tante faccende da sbrigare, oltre il suo lavoro di sarta, tro-
vava anche il tempo per lavare e stirare la biancheria e i ve-
stiti dei pensionanti. Ma con me la sua cortesia era davvero
particolare e forse dipendeva dai miei modi educati e cor-
diali e dal fatto che lei, meridionale come me, era orgoglio-
sa del mio modo di parlare che le rivelava una cultura di
base che non era abituata a riscontrare negli altri nostri
conterranei. Il vedere poi quella signorina milanese così
perbene e raffinata - l'aveva vista una volta in strada -
mostrare tanto interesse per quel suo pensionante la esalta-
va e la faceva sentire partecipe del mio successo.
Se quindi quelle sette; otto ore che ogni giorno dedicavo
alla Fiera, invece di essere solo un tentativo per procacciar-
mi rappresentanze per la Campania, fossero state dedicate
a un vero e proprio lavoro, mi sarei sentito, forse per la pri-
ma volta nella mia vita, tranquillo, soddisfatto e orgoglio-
so.
Indubbiamente il fatto di essere così lontano dalla mia
famiglia', tanto oppressiva e con idee così particolarmente
tradizionali, era la causa prima della mia soddisfazione e
forse aveva costituito la base del mio buon inserimento.
Purtroppo però non potevo dimenticare del tutto, anche
se spesso ci riuscivo, che la mia situazione era precaria e
che di lì a pochi giorni avrei dovuto lasciare Milano per ri-
tornare nella mia città dove avrei dovuto recare dei risulta-
ti positivi in termini di lavoro del mio soggiorno milanese.
Non poteva certo bastarmi, per gli scopi che mi ero prefìsso
e che costituivano la conditio sine qua non per poter inizia-
re l'attività che avevo dovuto scegliere, il fatto di essere
così ben riuscito ad ambientarmi nella città lombarda.
Trassi quindi un primo bilancio dei miei contatti di lavo-
ro in Fiera e il risultato non era certamente esaltante, ma
non era nemmeno del tutto negativo. L'obiettivo principale
e naturale che avevo pensato di raggiungere era quello di
aggiudicarmi, forte della mia esperienza con Mortini, rap-
presentanze nel settore elettrico. Qui però, a parte la.Misu-
ron di Trento e forse la SOMI di Firenze, non sarebbe sta-
to possibile raggiungere altri traguardi. Vi era poi la ditta
di elevatori Magli che pensavo avrebbe potuto rendere pa-
recchio e la cui assunzione di rappresentanza era alla mia
portata. Le sfere di azione però erano molto diverse e non
sarebbero potute coesistere, per cui dovevo operare una
scelta immediata per cercare altre rappresentanze da poter
affiancare all'uno o all'altro settore.
Ci pensai su a lungo e optai per la ditta di elevatori; quin-
di decisi di orientare le mie ricerche in un settore abbastan-
za vicino come cognizioni tecniche e possibili clienti, quello
delle macchine edili.
Maledizione! Sembrava che il destino volesse farsi beffe
di me! Proprio nel campo edile avrei dovuto agire. Quello
era il settore di mio padre che vi aveva operato per tanti an-
ni, ma non certo come rappresentante, attività non proprio
da ludibrio, ma non completamente "eletta", bensì come
imprenditore e professionista, il massimo della gloria! Ma
tant'è, bisognava fare buon viso a cattivo gioco.
In Fiera mi recai nella zona compresa fra viale del Lavo-
ro, quello della Meccanica e quello dei Prefabbricati. In
78
questa specie di triangolo vi era buona parte degli stands
delle ditte produttrici di macchinari edili e prodotti affini.
Era una specie di foresta i cui alberi erano costituiti da
ponteggi metallici, grues, castelletti con elevatori, ai cui
piedi facevano mostra di sé betoniere di ogni grandezza e ti-
po, molazze, frantoi, carriole e tutto quello che avrebbe re-
so felice un imprenditore edile.
Mi aggiravo fra macchinari a me purtroppo ben noti e
che tante volte avevo visto in attività nei cantieri. Certo, qui
si presentavano puliti e quasi eleganti, sfavillanti di vernice
non ancora contaminata dalle mani grevi di fatica e spor-
che di terra, sabbia e cemento degli operai edili, una delle
categorie fra le più soggette a un lavoro incerto e pesante.
Mi ricordavano mie passate brevi esperienze di lavoro,
nella veste di assistente tecnico e di figlio dell'imprendito-
re. Ricordavo quel mondo ricco di umiltà e di miseria, ma
anche di ingenuo entusiasmo.
Vecchi e giovanissimi manovali; tagliamonti cinquanten-
ni che dimostravano più di settant'anni, consumati
com'erano dal lavoro pesante all'aria aperta e polverosa;
ferraioli ben pagati perché molto richiesti, dalle mani di
ferro come quello che piegavano per costituire l'anima dei
pilastri, delle travi e dei travetti; carpentieri senza paura e
a volte incoscienti, che atleticamente saltavano da un pila-
stro all'altro per collegarli con le loro cassaforme in legno,
capicantiere, con viso e voce autoritari, che imponevano un
ritmo di lavoro più intenso; assistenti, architetti e ingegne-
ri che indossavano, unici fra tanta gente, giacche, cravatte
e camicie pulite, intenti a parlare, osservare, misurare, cal-
colare e impartire ordini al capocantiere e ai capisquadra.
Improvvisamente mi trovai davanti uno stand la cui gran-
de insegna mi ricordava un nome noto, Ricci di Ancella, la
ditta che l'ingegnere Marzi aveva rappresentato a Napoli.
Non era uno dei più grandi, ma sicuramente uno dei più or-
dinati e frequentati. Mi feci largo fra i visitatori e raggiunsi
una specie di baracca da cantiere dal tetto in alluminio che
fungeva da ufficio e vi entrai. C'era un signore basso, ma
79
robusto che si girò verso di me e mi chiese:
"Desidera qualcosa?"
"Sì, desidererei avere informazioni sulle vostre macchi-
ne".
"Ma certo, a sua disposizione. Lei è?"
"Mi chiamo Cruni e sono di Napoli."
Annotò l'indirizzo.
"Mi dica, signor Cruni, qual è la macchina che le interes-
sa?"
"Sono un amico dell'ingegner Marzi che vi ha rappresen-
tato per molti anni a Napoli e che mi ha consigliato di rivol-
germi a voi a suo nome".
"Ah, l'ingegner Marzi. Lo ricordo benissimo. Io sono il
geometra Zanni, vice direttore commerciale. L'ingegnere
ha fatto molto per la nostra, azienda in Campania... Ora se
non sbaglio vive a Roma".                       -.--"
"Proprio così. Dirige la filiale degli ascensori SMOM".
"Esatto. Fu quando entrò alla SMOM che lasciò la rap-
presentanza della nostra ditta. Come sta?"
"Bene e vi ricorda con molta simpatia. Mi ha parlato mol-
to di voi e mi ha detto della vostra serietà e della qualità su-
periore delle vostre macchine".
"È il nostro vanto! Non siamo grandi come Giorgi & Fer-
retti di Milano, o come la Lombardini di Roma, ma le no-
stre macchine e la nostra organizzazione non hanno nulla
da invidiare a quelle, anzi la nostra esperienza è maggiore,
perché siamo una delle primissime ditte che in Italia hanno
costruito macchine per edilizia. Pensi che ci sono nostre be-
toniere in funzione da più di trent'anni e che non hanno mai
dato fastidi".
"Sì, proprio questo mi diceva lui... E ora chi vi rappresen-
ta a Napoli?" Sperai follemente che rispondesse
"nessuno", invece:
"Ora l'ingegner Fani che ha l'ufficio alla via Riviera di
Chiaia".
"Ah, bene. E immagino che l'attività sarà sempre
ottima". Non riuscii a mascherare un po' di delusione.
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Zanni mi osservò meglio e poi:
"Ma forse era interessato anche lei alla rappresentan-
za?"
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MessaggioTitolo: Re: L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp.   L'INSERIMENTO, romanzo. premessa, prologo e primi capp. EmptyLun Dic 29, 2008 6:47 pm

"Veramente sì. Vede, io ho studiato ingegneria e non so-
no lontano dalla laurea, ma ho deciso di lavorare e per alcu-
ni mesi ho collaborato con il commendator Mortini che è il
rappresentante delle Officine Leonardo produttrici di iso-
latori, trasformatori e interruttori per centrali elettriche...
Credo che sia la più importante nel settore, la conosce?"
"Come no, un'azienda enorme e con vari stabilimenti".
Confortato, decisi di essere del tutto sincero e precisai:
"Ho deciso di mettermi in proprio e sono in Fiera appun-
to per assumere la rappresentanza di qualche ditta del set-
tore elettrico che mi permetta di sfruttare la mia compe-
tenza e le numerose conoscenze che ho acquistato nel ra-
mo. Però, a parte una o due ditte di media grandezza, quelle
più interessanti sono già ben rappresentate a Napoli e poi
non ce ne sono mica molte. Marzi mi aveva consigliato gli
ascensori e qui ho la possibilità di assumere la rappresen-
tanza per la Campania di una ditta che produce elevatori di
tipo rivoluzionario che penso possano avere un notevole
successo. Vorrei quindi affiancare a questa altre rappre-
sentanze che abbiano una potenziale clientela abbastanza
vicina e che quindi mi permetta con gli stessi contatti di po-
ter trattare più prodotti".
Mi studiò attentamente e poi:
"Io sono solo il vice direttore e il nostro direttore, signor
Mazzari, è partito proprio ieri. Comunque mi sento autoriz-
zato a dirle, perché lei è amico dell'ingegner Marzi, che l'in-
gegner Fani è molto impegnato con la sua rappresentanza
principale, gli ascensori SCODER di Modena e non può cu-
rare bene i nostri prodotti. Ci ha quindi comunicato che
forse lascerà la nostra rappresentanza, a meno che non tro-
vi un valido collaboratore. Se il signor Mazzari è d'accordo,
posso scrivergli e parlargli di lei... Ma, mi dica, ha un uffi-
cio, introduzione e competenza nel settore edile a parte i
suoi studi universitari?"
81
Ero emozionato, ma anche contrariato: si apriva uno spi-
raglio. Volevo una rappresentanza, non una collaborazione
e poi avrei dovuto parlare di mio padre. Vinsi l'emozione e
il fastidio e affermai:
"Certamente, usufruirei dello studio di mio padre e della
sua segretaria. Sa, lui è architetto ed è stato costruttore.
Per quanto riguarda l'esperienza, ne ho parecchia ed anche
di macchine edili. Poi il mio cognome è conosciuto nell'am-
biente".
Il geometra sembrava interessato, ma non in maniera
esaltante. Annotò tutto quanto gli avevo detto e concluse:
"Bene, la ringrazio, signor Cruni. Parlerò di lei in sede e
le scriveremo".
"Sono io che ringrazio lei. Ma ora vuole darmi dei de-
pliants dei vostri prodotti e illustrarmeli?"
Volevo dimostrare la mia competenza.
"Con piacere. Ora l'affiderò a un mio collaboratore".
Si recò all'ingresso della baracca e chiamò con autorità
un giovane alto e ben vestito che era impegnato ad illustra-
re ad alcuni visitatori il funzionamento di una grande beto-    ^
niera. Questi si' girò immediatamente.
"Mi dica, signor Zanni".
"Senta, Rossi, appena ha terminato mostri al signor Cru-
ni la nostra produzione e gli dia depliants di tutto".
"Con piacere" e a me: "Fra qualche minuto sarò da lei".
"La ringrazio ancora, geometra. Mi tratterrò ancora al-
cuni giorni a Milano e tornerò a visitarla. Attenderò poi che
mi scriva".
"La rivedrò con piacere. Stia tranquillo che le scriveremo
e mi saluti l'ingegner Marzi".
Dopo poco il giovane funzionario, con competenza e pi-
gnoleria, mi illustrò dettagliatamente le macchine esposte
e mi riempì le mani di depliants. Era proprio una bella
azienda e la produzione di prima qualità. Sarebbe stato
esaltante e producente poterne assumere la'rappresentan-
za, ma non nutrivo soverchie illusioni, in quanto ritenevo
che una ditta come quella, anche se non di grandi dimensio-
82
ni, aveva notevoli tradizioni e una mentalità che la portava-
no a non rischiare con giovani alle prime armi, ma a punta-
re su rappresentanti collaudati e molto ben qualificati.
Incominciavo ad essere stanco di tutto quel. mio girare
per la grande e affollatissima Fiera, il dover annotare detta-
gliatamente tutto per fare tesoro delle esperienze e delle
conoscenze di uomini e macchinari che andavo facendo, il
compilare specchietti comparativi fra le ditte e i prodotti in
concorrenza fra di loro, ma quello che essenzialmente mi
aveva sfinito era il dover assumere in tutti quei contatti un
tono e un atteggiamento che non mi erano spontanei e prin-
cipalmente il dover forzare il mio carattere orgoglioso.
Caterina trovò quindi terreno più fertile, quando inco-
minciò qualche volta a propormi di uscire insieme anche di
mattina e nel primo pomeriggio per farmi meglio conosce-
re Milano.
Si vedeva chiaramente che le piacevo e che provava gioia
nello stare con me. Dal nostro conversare di quei giorni sa-
pevo di esserle stato simpatico già dai tempi della nostra
conoscenza durante la villeggiatura di Selva, ma ora evi-
dentemente, a quasi cinque anni di distanza, mi trovava più
uomo e ancor più di suo gusto. Eravamo molto di frequente
insieme e mi conduceva con la sua auto in giro per la città
facendomene conoscere gli aspetti più interessanti. Andam-
mo in Santa Maria delle Grazie, dove ammirammo L'Ultima
Cena di Leonardo, sul Duomo a pochi metri dalla Madonni-
na, a prendere il tè sulla torre del parco, alla Pinacoteca di
Brera e in molti altri posti interessanti.
Incominciavo a vivere in quella città sempre più da mila-
nese e ne andavo apprendendo di giorno in giorno cose co-
nosciute solo dai veri milanesi. Mi trovavo con lei perfetta-
mente a mio agio e gustavo ogni momento della giornata
senza smanie, senza "arrabbiature", ma solo con una ge-
nuina voglia di vivere.
Come sembravano lontani quei primi giorni trascorsi da
solo nella grande città settentrionale, come lontano quel
mio assetato girovagare fra un night e un teatrino di spo-
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gliarelli, come lontane quelle mie immaginazioni di avven-
ture strane e forse impossibili e principalmente si era quie-
tato in me anche quel gran desiderio di rapporti sessuali.
Eppure con Caterina non avevo fatto altro che conversare,
andare a braccetto, ridere, scherzare e parlare del presente
e del passato. Non provavo per lei alcuna attrazione fisica,
ma solo una profonda amicizia e una spiccata simpatia.
È proprio vero che solo gli emarginati partoriscono idee
e sentimenti ossessivamente violenti!
Mi sentivo con lei sicuro, tranquillo e appagato. Certo, mi
rendevo conto che lei non provava per me gli stessi senti-
menti. Lei, così calma, fine, educata e controllata aveva at-
teggiamenti, ansie e richieste che non le erano naturali. An-
che, ad esempio, quel suo telefonare continuamente in Via
Cadpre, quel mostrarsi sempre disponibile, il non parlarmi..-
più del suo corteggiatore, quel desiderio di stare con me
ogni momento possibile, erano una chiara indicazione che
per lei significavo molto, molto di più di un semplice e caro
amico.
Ma Caterina non era il mio tipo. Non era una di quelle ra-
gazze che mi potevano interessare sessualmente. Poteva, al
limite, forse farmi innamorare di lei con quella sua aria
dolce e piena d'affetto. Ma il mio cuore già era occupato:
amavo sinceramente e in modo dolcissimo la mia ragazza di
Napoli che volevo sposare e al più presto. Eppure che diffe-
renza fra loro: in Caterina vi era libertà di agire, di uscire,
andare a teatro, a cena e al cinema a qualsiasi ora. La fami-
glia, rappresentata dalla madre, non dava alcuna oppres-
sione o fastidio. Era il prodotto delle maggiori conquiste
sociali del Nord. Qui la donna non era una schiava o una se-
gregata, non che a Napoli lo fosse, ma le famiglie desidera-
vano che la "gente" non sparlasse e quindi le ragazze non
sposate dovevano rientrare a una certa ora, se non erano
accompagnate dai fratelli o genitori. Quanta importanza si
da a Napoli alla "gente", ai vicini e questi sembra non ab-
biano altro da fare che pettegolare sui conoscenti o sui vici-
ni di casa. A Milano si ha la sensazione che ognuno pensi so-
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lo alle proprie cose e non dia minimamente fastidio agli al-
tri, rispettandone il modo di vivere e l'intimità. Molti dico-
no che nelle grandi città del Nord manchi umanità e che la
gente sia troppo egoista per occuparsi degli altri, ma invece
questo è un modo di vivere civile ed evoluto. Libertà signifi-
ca innanzitutto rispettare quella degli altri.
Chissà cosa pensava Caterina del mio comportamento
nei suoi riguardi. Ero gentile, cordiale e affettuoso con lei e
non di rado anche galante. Forse pensava che prima o poi le
avrei detto qualche parola di amore e di desiderio. Forse,
anzi sicuramente, attendeva con ansia che quello che lei
pensava fosse il mio vero sentimento nei suoi confronti si
manifestasse.
Una sera andammo a teatro, il Sant'Erasmo, particolaris-
simo in quanto nella sala non troppo vasta il palcoscenico è
posto al centro fra due gradinate dove, in poltrona, sedeva-
no gli spettatori che avevano così l'impressione - special-
mente quelli delle prime file- di partecipare allo spettaco-
lo. Ne rimasi colpito - ero in seconda fila - e avevo la sen-
sazione di poter toccare quegli attori famosi che recitavano
a un paio di metri da me.
Dopo ci recammo in un bar sfarzoso dove al piano supe-
riore, in una sala raccolta ma arredata con ricercatezza, si
esibiva un abile pianista che eseguiva musiche di Ger-
shwin.
Caterina indossava un sobrio e proprio per questo ele-
gante abito scuro moderatamente scollato che valorizzava
il suo corpo snello e ben fatto, anche se un po' troppo ma-
gro. Le braccia nude non erano tornite, ma lunghe e curate,
come le mani, forse la sua cosa più bella. I pochi e semplici
gioielli e il comportamento sicuro, raffinato e naturale
completavano l'insieme.
Mi sentivo orgoglioso della mia amica. Ella infatti era
una delle donne più concretamente eleganti fra le tante che
affollavano la piccola sala, come fra quelle che avevo visto
poco prima a teatro. Chissà quanti me la invidiavano. Io,
giovane del Sud, giunto a Milano alla ricerca di una mode-
85
sta rappresentanza, avevo avuto la fortuna di potermi ac-
compagnare a lei e forse esserne amato e non coglievo l'oc-
casione. Mi incominciò a sembrare anche bella e quella se-
ra, quando l'accompagnai sotto casa, la baciai e lei ricam-
biò con trasporto e seppe mascherare con la solita classe la
delusione, dopo il lampo di gioia, che indubbiamente aveva
provato quando non diedi seguito al bacio.
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