BRUNO COTRONEI E I SUOI LIBRI
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 SEMPLICI CONSIDERAZIONI SU COSA SIGNIFICA SCRIVERE

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Bruno
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MessaggioTitolo: SEMPLICI CONSIDERAZIONI SU COSA SIGNIFICA SCRIVERE   SEMPLICI CONSIDERAZIONI SU COSA SIGNIFICA SCRIVERE EmptyMar Giu 10, 2014 12:05 am

Cap. VII
SEMPLICI (MA NON TANTO)
CONSIDERAZIONI SU COSA SIGNIFICA SCRIVERE
Su non so più quale rotocalco femminile (ma posseggo
la pagina fotocopiata), in un numero della fine del 1994, ho
trovato il seguente articoletto non firmato: "Lo zen o l'arte
di scrivere un libro" con l'occhiello "Scrivere può essere un
esercizio che ci consente di trovare equilibrio e serenità.
Ecco alcuni suggerimenti utili":
"Scrivere è un addestramento. Come quando si corre,
più si fa e meglio viene". Lo dice Natalie Golberg, inse-
gnante di scrittura creativa, in un bei libro "Scrivere zen"
(editore Ubaldini ,18 mila lire), in cui si spiega che
chiunque di noi può servirsi di carta e penna non solo per
dare libero sfogo alla propria fantasia, ma per trovare
equilibrio, serenità e gioia di vivere. Ecco alcuni preziosi
consigli:
* Descrivete la luce che entra dalla finestra. Saltateci
dentro e scrivete. Non preoccupatevi se è notte e le tende
sono tirate, o se preferireste scrivere della luce lontana che
si scorge all'orizzonte. Scrivete e basta.
* Pensate qualcosa che susciti in voi forti emozioni,
positive o negative che siano, e scrivetene come se vi piacesse
moltissimo. Arrivate fin dove siete capaci... quindi cambiate
registro e scrivetene come se quella cosa vi facesse schifo.
Infine scrivetene in tono perfettamente neutrale.
* Scegliete un colore, per esempio il rosa, e andate a fare
una passeggiata di un quarto d'ora. Durante la passeggia-
ta prendete mentalmente nota di tutto ciò che vedete co-
lorato rosa. Quindi tornate al quaderno e scrivete.
* Scrivete in posti diversi: su una panchina ai
giardinetti, sulla metropolitana, al bar. Descrivete ciò che
sta succedendo intorno a voi.
* Presentate la vostra mattinata. Svegliarsi, far colazio-
ne, andare alla fermata dell'autobus. Siate il più precisi
possibili. Mettete il rallentatore alla memoria, e
ripercorrere ogni dettaglio della mattinata.
* Visualizzate imposto che vi piace moltissimo, entrateci
dentro, osservatene tutti i particolari. Adesso scrivetene.
Potrebbe essere un cantuccio della vostra camera da letto,
un vecchio albero sotto il quale siete andati a sedervi per
tutta l'estate, un tavolino della paninoteca sotto casa vostra,
la riva di un fiume...
* Scrivete sul tema "lasciare". Affrontatelo nel modo che
preferite, potrebbe essere il vostro divorzio, uscire di casa la
mattina, la morte di un amico.
* Chi sono le persone che avete amato?
* Parlate delle strade della vostra città.
* Prendete un libro di poesia. Apritelo in un punto qual-
siasi, prendete un verso, partite da lì e scrivete.
Vuoi vedere che la produzione degli allievi della
Golberg sono i bei "compitini" che Paolini dichiarava di
ricevere in Mondadori?
Ma siamo seri, caro lettore, ed auguriamo ad i seguaci
"dell'insegnante di scrittura creativa" di trovare, con quei
procedimenti tutto l'equilibrio e la serenità che vogliono.
Suggerirei, però, alla Golberg di dire ai suoi allievi, fra gli
altri "preziosi consigli", di leggere anche qualche buon
libro di narrativa. Forse impareranno molto di più.
A sua volta il giornalista Paolo Mauri ha pubblicato su
"Repubblica" del 23 marzo 1985 un corposo articolo dal
titolo "Caro Moravia, aiutali tu...", dove, traendo spunto da
un referendum di Tuttolibri e dai suoi risultati, si è
dilungato a parlare della confusione fra valore di mercato e
valore letterario, per poi dedicarsi agli aspiranti scrittori in
questi termini:
Visto dal basso, caro Moravia, e correggimi se sbaglio, il
mestiere dello scrittore è ancora legato a vecchi modelli
tramandati dall'anedottica corrente: il "creatore" romanti-
co, ispirato dal dio, il "maledetto " che brucia insieme vita e
opera. La tecnica, il mestiere, la bottega... mai che se ne
parli. Eppure, se non pare strano a un giovane che sogna di
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fare {'architetto, di dover frequentare l'università e poi uno
studio già avviato prima di esercitare in proprio la profes-
sione (senza per questo diventare Le Corbusier), sembra
invece stranissimo ad un aspirante scrittore (che magari
non diventerà mai Joyce) fare un serio apprendistato. E in
Italia (non scopro nulla di nuovo) mancano proprio i veri
professionisti della scrittura, capaci di metter su un roman-
zo decente, adatto al mercato, in grado magari di sfondare
all'estero.
C'è invece in giro l'idea, per la verità un po'balzana, che
solo attraverso il romanzo (la "creazione") ci si possa espri-
mere compiutamente. Con il risultato che tutti (o almeno
moltissimi) desiderano scrivere o scrivono un romanzo che
nelle intenzioni dovrebbe essere un "capolavoro" e spesso è
invece un disastro... Ora io non voglio dire che ha profes-
sione di "genio" si possa imparare; ma credo che, per chi
abbia un minimo d'inclinazione, si possa imparare quella
di scrittore a quel livello medio che il mercato appunto
chiede. E penso che tu, caro Moravia, sia la persona più
indicata - grazie alla tua lunga esperienza - per dare dei
consigli circa il mestiere di scrittore a tanti aspiranti scrit-
tori. .. Come si scrive un romanzo? Basta avere un 'idea per
buttare giù una trama? Che differenza c'è fra romanzo e
sceneggiatura? Da dove s'incomincia? Dal primo capitolo o
dall'ultimo? Quali sono le trappole più comuni cui va in-
contro un romanziere alle prime armi?...
D'altro canto l'aspirante scrittore che non sa come si fa, è
votato al prodotto di consumo: se aspirasse alla letteratura,
se avesse in testa un progetto suo, non gli servirebbe alcun
manuale o per meglio dire saprebbe farselo da sé, leggendo
gli altri scrittori. Una volta Garcia Marquez ha detto che gli
scrittori fra di loro non si leggono, ma si "spiano". Spiano
l'altrui mestiere, "rubano" - se possono - i segreti.
Alcuni sono elementari. Per esempio: badare alle
incongruenze. Bechett può tranquillamente essere incon-
gruente, è un amplificatore di incongruenze. Ma lo scrittore
che non punta al grande paradosso (che non è cosciente-
mente incongruente), no. Faccio un esempio. Ho letto
"Piazza Carignano", terzo romanzo diAlain Elkann...
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E qui, amico lettore, il racconto della trama e "le gravi
colpe" dell'autore. Proverò ad elencartele per sommi capi:
1) II lettore si accorge d'essere in un ambiente ricco. 2)
Nella pagina dopo eccoci in una libreria, luogo da cui il
protagonista esce con un solo libro - rinunciando ai molti
che desidera - perché (dichiara) ha pochi soldi. Tré righi
sotto, il medesimo (che è senza soldi, ce l'ha detto lui)
medita di comprare un vestito. Anzi vorrebbe comprarne
tanti, ma non lo fa perché la sua compagna desidera
ricevere un regalo per volta. 3) II personaggio previene
l'obiezione del lettore: come si può comprare un vestito per
un 'altra persona se non si conoscono le misure? E recita le
misure a memoria. Obiezione respinta! Ma non previene
l'altra e ben più fondata obiezione: come si può acquistare
un vestito se non si hanno i denari per comprare dei libri?
4) Alla pagina dopo, quando il giovane dichiara di non
essere bruttissimo e nemmeno poverissimo, almeno su que-
sto punto dei soldi, il lettore ha già perso la fiducia, se non la
pazienza. 5) Ma c'è di più. Accorso per assistere la madre
moribonda, il nostro eroe la vede, chissà perché, "cinque
minuti ogni due giorni" e sempre circondata da medici ed
infermiere. Più avanti però quando la moribonda avrà una
crisi e verrà chiamato il medico al suo capezzale, costui
non sarà in grado di fare "una diagnosi". 6) Senza contare
che la vecchia villa, a venti chilometri da Torino (distanza
dichiarata) viene collocata, poco dopo, in una "sperduta
campagna".
E così via con simili assurde sottigliezze per concludere
trionfante: "e non bastava un po' di mestiere per evitarlo?"
Io credo, amico lettore che l'articolista abbia
volutamente usato il paradosso (forse invidiava Moravia e
gli è antipatico Elkann che è il genero di Gianni Agnelli)
altrimenti... Comunque l'occasione è buona per dirti che
non è che io non voglia dare il dovuto valore al "mestiere";
esso è, come in tutte le professioni, importante, a volte
importantissimo, ma contraddirei quanto scrissi nella prefa-
zione de "I segreti dell'editoria" se non ribadissi questo per
me fondamentale concetto:
Non sono molti i veri artisti delle Lettere: non è facile
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avere l'Idea e tradurla in un componimento poetico, rac-
conto o romanzo dall'architettura senza gravi pecche o
scompensi. Non è una professione aperta a tutti quella dello
scrittore; non basta studiare, dare esami, conseguire una
laurea e l'abilitazione, o partecipare ad un concorso. Ci
deve essere una dote innata che va successivamente perfe-
zionata, senza la quale è inutile insistere.
Ed è appunto questo che spesso non si vuoi capire, al dì
là di paradossi di giocherelloni o abbagli di faciloni. Chi
avesse bisogno di un manuale che insegni "come scrivere
un romanzo? basta avere un'idea per buttar giù una trama?
che differenza c'è tra romanzo e sceneggiatura? da dove si
comincia? dal primo o dall'ultimo capitolo? quali sono le
trappole più comuni cui va incontro il romanziere alle
prime armi?" non può e non deve fare il narratore: è
categorico. Inutile dilungarsi in tentativi che si conclude-
ranno tutti miseramente, o tutt'al più con un bei temone
scolastico scritto in modo ineccepibile per il giudizio dei
tanti, troppi professori di lettere che imperversano nella
critica letteraria (e, forse, nelle case editrici). Un romanziere
è qualcosa di diverso, ed è uno che magari deve "rubare" o
spiare il collega famoso che riconosce quasi come un
maestro, ma non certo spulciare, per apprendere, il
capitoletto nel manuale scritto sia pure da un Moravia, che
d'altra parte eviterebbe banalità tanto penose per dire, se
proprio lo ritenesse opportuno, cose ben più importanti.
A questo proposito vorrei farti conoscere, caro lettore,
un articolo di Vittorio Saltini pubblicato su "Espresso" n°
12/85 dal titolo: "II mestiere di scrivere":
"II mestiere della narrativa" dell'inglese Percy Lubbock,
del 1921, resta uno dei libri più intelligenti scritti sulla
teoria del romanzo. "Ritengo", dice "che nel mestiere della
narrativa l'intero problema del metodo sia governato dal
problema del punto di vista: il problema del rapporto fra il
narratore e la storia". Una storia può essere raccontata da
uno o più punti di vista. E Lubbock studia il passaggio
(spontaneo o calcolato) da un punto di vista a un altro; le
ragioni della scelta e del mutamento del punto di vista; e
l'importanza di ciò per la "forma" del romanzo.
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MessaggioOggetto: Re: L'ASPIRANTE SCRITTORE e L'EDITORIA dal cap. VII alla fine Gio 8 Gen 2009 - 10:09 Rispondere citando Modificare Eliminare questo messaggio Vedere l'indirizzo IP dell'autore
Già per Henry James teorico e romanziere questi furono
problemi centrali. E spesso si attribuisce a Lubbock la tesi
che le conquiste formali di James siano un modello
irreversibile. Non è così. Il finissimo Lubbock non è il rozzo
"evoluzionista " che (come i teorici delle avanguardie) crede
che le "forme" s'esauriscano, soppiantate dalle nuove (ad
esempio, la "Teoria della prosa" di Skiovskij appare sempli-
cistica in confronto alla padronanza che Lubbock già ave-
va dei problemi).
Le invenzioni formali di James (di cui diremo) gli appa-
iono fondamentali (e poi furono seguite ad esempio da
Joyce, Woolf, Hemingway, Faulkner, Guimaraes Rosa, sen-
za che l'uso sistematico del "monologo intcriore" aggiunga
nulla di formalmente sostanziale). Lubbock auspica che
romanzieri e critici prendano coscienza delle innovazioni
di James. Ma sa che esse comportano restrizioni alla libertà
del narratore. Anche dopo James, la vecchia mescolanza
dei punti di vista può e dev'essere usata, a seconda della
storia che si racconta.
James inventò alcuni modi per unificare il punto di vista.
Ne "L'età ingrata", giunse a un'integrale "drammatizzazione"
del racconto, ridotto a una serie di scene dove il narratore non
s'avverte (non assumendo distanza "panoramica") e non
entra nella mente dei personaggi. Negli "Ambasciatori ", tutto si
racconta dal punto di vista di un unico personaggio, ma con
narrazione indiretta (in terza persona, come un narratore
impercettibile). Ciò permette di "drammatizzare" (mostra
Lubbock) anche la narrazione panoramica e retrospettiva.
Prima di James, lo sforzo eroico di ridurre un vasto ro-
manzo a una successione di scene senza narrazione pa-
noramica (ma variando i punti di vista) si realizza in
"Anna Karenina" di Tolstoj. Che però in tal modo s'inibisce
ogni "economia narrativa", con qualche danno (ma il
danno, secondo me, non è quello che indica Lubbock).
Balzac è invece il romanziere di massima tensione narra-
tiva nel preparare le scene drammatiche (dove spesso è
debole) con grandiose panoramiche "pittoriche", spostando
con sfacciata libertà i punti di vista...
Questo, amico lettore, è un esempio di "mestiere dello
100
scrivere" e non certo il sapere da dove si comincia e dove si
finisce, delizie del genere, perché, lo ribadisco, chi non sa
cose così elementari è meglio che non si accinga nemmeno
a sporcare i fogli con ciò che scriverà. E ti dirò di più, che
quando un autore è davvero grande (e per la verità non è
questo il caso al quale si riferisce Mauri) non ha bisogno
nemmeno delle teorie di Lubbock, James o altri perché lui
stesso sarà ineguagliabile maestro, e il suo modo di scrivere
sarà magari studiato e spiato da colleghi di livello più
modesto, ma pur sempre tale da non aver mai bisogno di
consultare manuali del tipo "Come si scrive un romanzo".
Chi invece deve conoscere tutto sulla teoria del romanzo
è il recensore (ed il lettore-consulente) onde possa davvero
comprendere l'abilità o meno del narratore che si accinge a
giudicare. Quale esempio di recensione (anche per ricordare
ancora una volta un grande amico) vorrei farti conoscere,
caro e paziente lettore, la presentazione che Domenico Rea
preparò (nel 1985, e da lì iniziò la nostra amicizia) per
Marietti relativa al mio romanzo "Contrappunto borghese"
che allora si chiamava: "Miserabili!".
In certi momenti questa sorta di summa della borghesia
del sud di Bruno Cotronei fa pensare alla tecnica dell'École
du regard: "Blocca la macchina, accende la luce interna e
fruga nel ripiano sottostante il cruscotto. La mano tocca la
superficie calda, rassicurante, di vera pelle, i polpastrelli si
soffermano ad accarezzarla, quasi a scoprire le sottili
venature. .."In altri momenti l'andatura del romanzo è
fluviale, ottocentesca, vasta, larga, e fare il nome del primo
ThomasMann non è occasionale, al contrario. Il romanzo
di Cotronei è un'ennesima metafora sulla decadenza e
sullo sfacelo della famiglia, ma rivisitata ed indagata in
maniera spieiata grazie ai molteplici strumenti stilistici e
alla capacità sperimentativa di Cotronei.
In questa storia, in questa saga, si direbbe, con punte
solari-n ibelu ngiche, che parte dagli anni del fascismo e
prima ancora e si disfa sui nostri giorni sconsacrati, il
cambio di mentalità e di comportamento è stato enorme. La
psicologia degli uomini, che avrebbe dovuto arricchirsi, si è
101
inaridita, legata com'è ad alcuni concetti di fondo: il dena-
ro, il possesso di qualcosa per una qualsiasi supremazia (o
sopraffazione) sugli altri.
Fermi a questi piloni realistici sotterranei, putenti come
certe fogne a ciclo aperto, che riportano ciascun personag-
gio in un alveo pur sempre economico, l'errore e l'errare
nell'egoismo e nella ragnatela del vizio sono illimitati.
Cotronei ha una maniera di trattare il viscerale psicanali-
tico quasi volesse razionalizzare il flusso coscenziale
joyciano. L'occhio di Cotronei, con lucidità e minuzia da
scienziato, non perde nulla e da un peso alle più sfuggenti
cellule della sua tessitura fantastica. Persino la punteggia-
tura in questo libro ha un peso determinante. Ha lo strazio
dell'ironia e la funzionalità del contrappunto baydniano,
seguono alle pause, accelerazioni, vibrazioni.
Libro a più piani, con un romanzo nel romanzo, che
nasce spontaneo dal letto del gran fiume centrale, va deci-
samente qualificato "summa" perché ancora una volta
sembra alludere alla ricapitolazione del romanzesco e alla
sua morte - la morte del romanzo tanto predicata - e alle
riprove delle sue infinite possibilità di rinascita. A certe
condizioni, s'intende! E qua in "Miserabili/" di Cotronei è il
prepotente legame alla terra d'origine dell'autore e dei suoi
personaggi. La connotazione meridionale (e
meridionalistica) d'ogni creatura è fondamentale. Senza
di essa tutto sballerebbe.
Ci ritroveremmo di fronte a quel girare a vuoto di tanta
romanzeria contemporanea; mentre l'opera di Cotronei
offre notevoli materiali proprio perché i mezzi usati per
l'indagine sono della più avanzata tecnologia ed è una
costruzione verticale con in cima un segnale
d'orizzontamene, un faro fra le nebbia.
Per me, scrittore di cose ed uomini limitati da sempre al
territorio che è press'a poco anche quello di Cotronei, -
Ercolano, Napoli, la piana vesuviana, - "Miserabili!" è una
vera e propria scoperta un po' come le tombe egli oggetti che
di secolo in secolo vengono alla luce nella terra sacra e
archeologica di Ercolano e che ci costringono a rivedere e a
risentire tutto daccapo. Un'indagine operata con grandi
102
mezzi. Ciò che si riteneva spremuto ed esaurito (e nella
società di Cotronei ha scavato a fondo Michele Prisco), per il
vasto patrimonio psicanalitico, la conoscenza pittorica, la
partecipazione avanguardistica che sta alle spalle di
Cotronei, rinasce e s'innalza in una sorta di gigantesco
castello in cui sembra si conservino gl'incunaboli e i catalo-
ghi d'impensate intermittenze del cuore e del calcolo, del
Bene e del Male. L'offerta sacrificale al Dio oscuro, il suici-
dio della creatura umana, che, unica fra volpi e faine, si
precipita nel Vesuvio, illumina come una bandiera un
panorama di sopravvissuti.
Lavorato come un affresco di altre epoche, "Miserabili!"
si rivela da vicino un intreccio di "nuances", di grigi nei
grigi, di neri meno neri più neri con alcune esplosioni di
luci, di "sensazioni di paesaggio" vesuviano, stupendo e
freddo, riportato alla filosofica altezza del mito che di
questa summa, fra conscio e inconscio fra intorte spirali
d'erotismo, fra mostri ed angeli, è il deus ex machina.
Ecco, a mio avviso, come si analizza un'opera letteraria,
e l'autore così (ma sarebbe stato lo stesso se il giudizio
fosse stato negativo purché competentemente analitico) si
sente davvero "letto"!
Scrivere (e pubblicare) narrativa è meraviglioso, anche
se (come ho scritto nell'articolo su Eco) "costa fatica,
sangue" e non si può fare, come appare da certi film
commerciali, con lo scrittore sereno e disteso dietro un
tavolinetto sgombro di carte posto su di un terrazzo o su
una spiaggia, mentre la moglie e i figli o meravigliose
fanciulle gli svolazzano attorno.
Per chi si sente portato a farlo, a scrivere narrativa, è
un'esigenza prepotente, ma, tornando a precedenti capitoli,
sia Spinosa che Guerri, autori di biografie e non di romanzi,
sembrano non capirlo e consigliano altre vie per giungere
alla pubblicazione.
Guerri racconta "la magnifica storia" di uno (che, mi
sembra evidente, è proprio lui) che fece una tesi di laurea,
"ci lavorò parecchio e la mandò ad un editore: senza
conoscere un cane". Sei mesi dopo venne pubblicata; poi
103
"scrisse e pubblicò altri saggi" ed è convinto che "se oggi si
presentasse a un qualsiasi editore con un romanzo
sottobraccio glielo pubblicherebbero ad occhi chiusi". Ag-
giunge: "mi si dirà la vocazione e l'arte dove la metti? Non
la metto da nessuna parte, che stiano dove sono, e se ci
sono realmente prima o poi salteranno fuori... continuo a
suggerire il saggio, che richiede doti non meno pregevoli,
ma per fortuna meno rare... Niente ululati alla luna, ne
svisceramenti dell'anima, ma una fatica bestia..."
Purtroppo è vero: chi ha acquisito notorietà come
articolista della terza pagina di un grande giornale e come
autore di una biografia clamorosa (anche se errata secondo
la Sacra congregazione) può, per alcune - criticabili ma
reali - regole non scritte del mercato editoriale, pubblicare
facilmente un romanzo anche se di mediocri qualità.
Ma è deviante e dannoso suggerire di scrivere saggi con
lo scopo di acquisire una certa notorietà ed un certo
numero di conoscenze nell'ambiente giornalistico-editoria-
le per ottenere, alla fine, la pubblicazione di un proprio
romanzo. Significa strumentalizzare le proprie capacità e
ottundere, applicandosi altrove e con procedure diverse, la
propria libera predisposizione al narrare. E il suggerimento
giunge da chi non sembra apprezzare molto il romanzo se
definisce il farlo con espressioni del tipo: "far traboccare
l'anima, il cuore e l'arte" o "niente ululati alla luna ne
svisceramenti dell'anima", o infine, "butta l'anima sulla
carta e poi, orgoglioso della propria anima, pretende che
venga resa nota guadagnandoci pure".
Non mi sembra, quindi, sincero Guerri quando dice che
i suoi suggerimenti tendono ad aiutare gli aspiranti scrittori.
Forse a lui scrivere romanzi non è riuscito bene e tira
l'acqua al suo mulino di saggista.
Vedi, amico lettore, mi sembra davvero incredibile affer-
mare, e pubblicarlo su un diffuso giornale, che scrivere un
saggio sia più faticoso di un romanzo! Ma cosa ne sa lui
dell'improbo lavoro del dialogare con la pagina bianca e
non per riempirla di facile pressappochistico linguaggio da
saggio d'assalto o di quello rigorosamente tecnico, e quindi
limitato, di un saggio cattedratico! Cosa ne sa di quanto
104
studio, biblioteca, occorrano per creare personaggi in un
loro habitat e mantenerli coerenti e seguirli nei loro svi-
luppi per centinaia e centinaia di pagine indagandone
motivazioni ed azioni con una qualità formale coerente e
controllata.
Vedi, caro lettore, c'è una netta differenziazione fra lo
scrivere saggi ed opere narrative, e l'aggiungere
all'elencazione che Primo Levi fa "del perché si scrive" nel
suo libro "L'altrui mestiere" (che consiglio di leggere anche
a Guerri), il "fare" saggi per afferrare una certa notorietà
che permetta poi (dopo anni) di far pubblicare un valido e
degno romanzo, è (sarebbene possa trovare riscontro in
una realtà matrigna) esecrabile perlomeno nelle intenzioni.
Se, come da più parti si blatera (e vi credo poco), esiste
crisi dal romanzo è ancor più pernicioso deviare chi pos-
siede qualità atte a creare le uniche opere dello scrivere
(oltre alla poesia) che impinguano e tengono in vita la
storia della nostra letteratura.
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