| | PARLIAMO SU COSA SIGNIFICA SCRIVERE | |
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Bruno Admin
Numero di messaggi : 3063 Data d'iscrizione : 27.10.08 Località : Napoli Personalized field :
| Titolo: PARLIAMO SU COSA SIGNIFICA SCRIVERE Mer Mar 18, 2009 9:02 pm | |
| [b]Parliamo di cosa significa scrivere[/b]
Cap. VII (del saggio L'aspirante scrittore e l'editoria) SEMPLICI (MA NON TANTO) CONSIDERAZIONI SU COSA SIGNIFICA SCRIVERE Su non so più quale rotocalco femminile (ma posseggo la pagina fotocopiata), in un numero della fine del 1994, ho trovato il seguente articoletto non firmato: "Lo zen o l'arte di scrivere un libro" con l'occhiello "Scrivere può essere un esercizio che ci consente di trovare equilibrio e serenità. Ecco alcuni suggerimenti utili": "Scrivere è un addestramento. Come quando si corre, più si fa e meglio viene". Lo dice Natalie Golberg, inse- gnante di scrittura creativa, in un bei libro "Scrivere zen" (editore Ubaldini ,18 mila lire), in cui si spiega che chiunque di noi può servirsi di carta e penna non solo per dare libero sfogo alla propria fantasia, ma per trovare equilibrio, serenità e gioia di vivere. Ecco alcuni preziosi consigli: * Descrivete la luce che entra dalla finestra. Saltateci dentro e scrivete. Non preoccupatevi se è notte e le tende sono tirate, o se preferireste scrivere della luce lontana che si scorge all'orizzonte. Scrivete e basta. * Pensate qualcosa che susciti in voi forti emozioni, positive o negative che siano, e scrivetene come se vi piacesse moltissimo. Arrivate fin dove siete capaci... quindi cambiate registro e scrivetene come se quella cosa vi facesse schifo. Infine scrivetene in tono perfettamente neutrale. * Scegliete un colore, per esempio il rosa, e andate a fare una passeggiata di un quarto d'ora. Durante la passeggia- ta prendete mentalmente nota di tutto ciò che vedete co- lorato rosa. Quindi tornate al quaderno e scrivete. * Scrivete in posti diversi: su una panchina ai giardinetti, sulla metropolitana, al bar. Descrivete ciò che sta succedendo intorno a voi. * Presentate la vostra mattinata. Svegliarsi, far colazio- ne, andare alla fermata dell'autobus. Siate il più precisi possibili. Mettete il rallentatore alla memoria, e ripercorrere ogni dettaglio della mattinata. * Visualizzate imposto che vi piace moltissimo, entrateci dentro, osservatene tutti i particolari. Adesso scrivetene. Potrebbe essere un cantuccio della vostra camera da letto, un vecchio albero sotto il quale siete andati a sedervi per tutta l'estate, un tavolino della paninoteca sotto casa vostra, la riva di un fiume... * Scrivete sul tema "lasciare". Affrontatelo nel modo che preferite, potrebbe essere il vostro divorzio, uscire di casa la mattina, la morte di un amico. * Chi sono le persone che avete amato? * Parlate delle strade della vostra città. * Prendete un libro di poesia. Apritelo in un punto qual- siasi, prendete un verso, partite da lì e scrivete." Vuoi vedere che la produzione degli allievi della Golberg sono i bei "compitini" che Paolini dichiarava di ricevere in Mondadori? Ma siamo seri, caro lettore, ed auguriamo ad i seguaci "dell'insegnante di scrittura creativa" di trovare, con quei procedimenti tutto l'equilibrio e la serenità che vogliono. Suggerirei, però, alla Golberg di dire ai suoi allievi, fra gli altri "preziosi consigli", di leggere anche qualche buon libro di narrativa. Forse impareranno molto di più. A sua volta il giornalista Paolo Mauri ha pubblicato su "Repubblica" del 23 marzo 1985 un corposo articolo dal titolo "Caro Moravia, aiutali tu...", dove, traendo spunto da un referendum di Tuttolibri e dai suoi risultati, si è dilungato a parlare della confusione fra valore di mercato e valore letterario, per poi dedicarsi agli aspiranti scrittori in questi termini: Visto dal basso, caro Moravia, e correggimi se sbaglio, il mestiere dello scrittore è ancora legato a vecchi modelli tramandati dall'anedottica corrente: il "creatore" romanti- co, ispirato dal dio, il "maledetto " che brucia insieme vita e opera. La tecnica, il mestiere, la bottega... mai che se ne parli. Eppure, se non pare strano a un giovane che sogna di 96 fare {'architetto, di dover frequentare l'università e poi uno studio già avviato prima di esercitare in proprio la profes- sione (senza per questo diventare Le Corbusier), sembra invece stranissimo ad un aspirante scrittore (che magari non diventerà mai Joyce) fare un serio apprendistato. E in Italia (non scopro nulla di nuovo) mancano proprio i veri professionisti della scrittura, capaci di metter su un roman- zo decente, adatto al mercato, in grado magari di sfondare all'estero. C'è invece in giro l'idea, per la verità un po'balzana, che solo attraverso il romanzo (la "creazione") ci si possa espri- mere compiutamente. Con il risultato che tutti (o almeno moltissimi) desiderano scrivere o scrivono un romanzo che nelle intenzioni dovrebbe essere un "capolavoro" e spesso è invece un disastro... Ora io non voglio dire che ha profes- sione di "genio" si possa imparare; ma credo che, per chi abbia un minimo d'inclinazione, si possa imparare quella di scrittore a quel livello medio che il mercato appunto chiede. E penso che tu, caro Moravia, sia la persona più indicata - grazie alla tua lunga esperienza - per dare dei consigli circa il mestiere di scrittore a tanti aspiranti scrit- tori. .. Come si scrive un romanzo? Basta avere un 'idea per buttare giù una trama? Che differenza c'è fra romanzo e sceneggiatura? Da dove s'incomincia? Dal primo capitolo o dall'ultimo? Quali sono le trappole più comuni cui va in- contro un romanziere alle prime armi?... D'altro canto l'aspirante scrittore che non sa come si fa, è votato al prodotto di consumo: se aspirasse alla letteratura, se avesse in testa un progetto suo, non gli servirebbe alcun manuale o per meglio dire saprebbe farselo da sé, leggendo gli altri scrittori. Una volta Garcia Marquez ha detto che gli scrittori fra di loro non si leggono, ma si "spiano". Spiano l'altrui mestiere, "rubano" - se possono - i segreti. Alcuni sono elementari. Per esempio: badare alle incongruenze. Bechett può tranquillamente essere incon- gruente, è un amplificatore di incongruenze. Ma lo scrittore che non punta al grande paradosso (che non è cosciente- mente incongruente), no. Faccio un esempio. Ho letto "Piazza Carignano", terzo romanzo diAlain Elkann... 97 E qui, amico lettore, il racconto della trama e "le gravi colpe" dell'autore. Proverò ad elencartele per sommi capi: 1) II lettore si accorge d'essere in un ambiente ricco. 2) Nella pagina dopo eccoci in una libreria, luogo da cui il protagonista esce con un solo libro - rinunciando ai molti che desidera - perché (dichiara) ha pochi soldi. Tré righi sotto, il medesimo (che è senza soldi, ce l'ha detto lui) medita di comprare un vestito. Anzi vorrebbe comprarne tanti, ma non lo fa perché la sua compagna desidera ricevere un regalo per volta. 3) II personaggio previene l'obiezione del lettore: come si può comprare un vestito per un 'altra persona se non si conoscono le misure? E recita le misure a memoria. Obiezione respinta! Ma non previene l'altra e ben più fondata obiezione: come si può acquistare un vestito se non si hanno i denari per comprare dei libri? 4) Alla pagina dopo, quando il giovane dichiara di non essere bruttissimo e nemmeno poverissimo, almeno su que- sto punto dei soldi, il lettore ha già perso la fiducia, se non la pazienza. 5) Ma c'è di più. Accorso per assistere la madre moribonda, il nostro eroe la vede, chissà perché, "cinque minuti ogni due giorni" e sempre circondata da medici ed infermiere. Più avanti però quando la moribonda avrà una crisi e verrà chiamato il medico al suo capezzale, costui non sarà in grado di fare "una diagnosi". 6) Senza contare che la vecchia villa, a venti chilometri da Torino (distanza dichiarata) viene collocata, poco dopo, in una "sperduta campagna". E così via con simili assurde sottigliezze per concludere trionfante: "e non bastava un po' di mestiere per evitarlo?" Io credo, amico lettore che l'articolista abbia volutamente usato il paradosso (forse invidiava Moravia e gli è antipatico Elkann che è il genero di Gianni Agnelli) altrimenti... Comunque l'occasione è buona per dirti che non è che io non voglia dare il dovuto valore al "mestiere"; esso è, come in tutte le professioni, importante, a volte importantissimo, ma contraddirei quanto scrissi nella prefa- zione de "I segreti dell'editoria" se non ribadissi questo per me fondamentale concetto: Non sono molti i veri artisti delle Lettere: non è facile 98 avere l'Idea e tradurla in un componimento poetico, rac- conto o romanzo dall'architettura senza gravi pecche o scompensi. Non è una professione aperta a tutti quella dello scrittore; non basta studiare, dare esami, conseguire una laurea e l'abilitazione, o partecipare ad un concorso. Ci deve essere una dote innata che va successivamente perfe- zionata, senza la quale è inutile insistere. Ed è appunto questo che spesso non si vuoi capire, al dì là di paradossi di giocherelloni o abbagli di faciloni. Chi avesse bisogno di un manuale che insegni "come scrivere un romanzo? basta avere un'idea per buttar giù una trama? che differenza c'è tra romanzo e sceneggiatura? da dove si comincia? dal primo o dall'ultimo capitolo? quali sono le trappole più comuni cui va incontro il romanziere alle prime armi?" non può e non deve fare il narratore: è categorico. Inutile dilungarsi in tentativi che si conclude- ranno tutti miseramente, o tutt'al più con un bei temone scolastico scritto in modo ineccepibile per il giudizio dei tanti, troppi professori di lettere che imperversano nella critica letteraria (e, forse, nelle case editrici). Un romanziere è qualcosa di diverso, ed è uno che magari deve "rubare" o spiare il collega famoso che riconosce quasi come un maestro, ma non certo spulciare, per apprendere, il capitoletto nel manuale scritto sia pure da un Moravia, che d'altra parte eviterebbe banalità tanto penose per dire, se proprio lo ritenesse opportuno, cose ben più importanti. A questo proposito vorrei farti conoscere, caro lettore, un articolo di Vittorio Saltini pubblicato su "Espresso" n° 12/85 dal titolo: "II mestiere di scrivere": "II mestiere della narrativa" dell'inglese Percy Lubbock, del 1921, resta uno dei libri più intelligenti scritti sulla teoria del romanzo. "Ritengo", dice "che nel mestiere della narrativa l'intero problema del metodo sia governato dal problema del punto di vista: il problema del rapporto fra il narratore e la storia". Una storia può essere raccontata da uno o più punti di vista. E Lubbock studia il passaggio (spontaneo o calcolato) da un punto di vista a un altro; le ragioni della scelta e del mutamento del punto di vista; e l'importanza di ciò per la "forma" del romanzo. 99 | |
| | | Bruno Admin
Numero di messaggi : 3063 Data d'iscrizione : 27.10.08 Località : Napoli Personalized field :
| Titolo: Re: PARLIAMO SU COSA SIGNIFICA SCRIVERE Mer Mar 18, 2009 9:06 pm | |
| Già per Henry James teorico e romanziere questi furono problemi centrali. E spesso si attribuisce a Lubbock la tesi che le conquiste formali di James siano un modello irreversibile. Non è così. Il finissimo Lubbock non è il rozzo "evoluzionista " che (come i teorici delle avanguardie) crede che le "forme" s'esauriscano, soppiantate dalle nuove (ad esempio, la "Teoria della prosa" di Skiovskij appare sempli- cistica in confronto alla padronanza che Lubbock già ave- va dei problemi). Le invenzioni formali di James (di cui diremo) gli appa- iono fondamentali (e poi furono seguite ad esempio da Joyce, Woolf, Hemingway, Faulkner, Guimaraes Rosa, sen- za che l'uso sistematico del "monologo intcriore" aggiunga nulla di formalmente sostanziale). Lubbock auspica che romanzieri e critici prendano coscienza delle innovazioni di James. Ma sa che esse comportano restrizioni alla libertà del narratore. Anche dopo James, la vecchia mescolanza dei punti di vista può e dev'essere usata, a seconda della storia che si racconta. James inventò alcuni modi per unificare il punto di vista. Ne "L'età ingrata", giunse a un'integrale "drammatizzazione" del racconto, ridotto a una serie di scene dove il narratore non s'avverte (non assumendo distanza "panoramica") e non entra nella mente dei personaggi. Negli "Ambasciatori ", tutto si racconta dal punto di vista di un unico personaggio, ma con narrazione indiretta (in terza persona, come un narratore impercettibile). Ciò permette di "drammatizzare" (mostra Lubbock) anche la narrazione panoramica e retrospettiva. Prima di James, lo sforzo eroico di ridurre un vasto ro- manzo a una successione di scene senza narrazione pa- noramica (ma variando i punti di vista) si realizza in "Anna Karenina" di Tolstoj. Che però in tal modo s'inibisce ogni "economia narrativa", con qualche danno (ma il danno, secondo me, non è quello che indica Lubbock). Balzac è invece il romanziere di massima tensione narra- tiva nel preparare le scene drammatiche (dove spesso è debole) con grandiose panoramiche "pittoriche", spostando con sfacciata libertà i punti di vista... [/i[size=18]]Questo, amico lettore, è un esempio di "mestiere dello 100 scrivere" e non certo il sapere da dove si comincia e dove si finisce, delizie del genere, perché, lo ribadisco, chi non sa cose così elementari è meglio che non si accinga nemmeno a sporcare i fogli con ciò che scriverà. E ti dirò di più, che quando un autore è davvero grande (e per la verità non è questo il caso al quale si riferisce Mauri) non ha bisogno nemmeno delle teorie di Lubbock, James o altri perché lui stesso sarà ineguagliabile maestro, e il suo modo di scrivere sarà magari studiato e spiato da colleghi di livello più modesto, ma pur sempre tale da non aver mai bisogno di consultare manuali del tipo "Come si scrive un romanzo". Chi invece deve conoscere tutto sulla teoria del romanzo è il recensore (ed il lettore-consulente) onde possa davvero comprendere l'abilità o meno del narratore che si accinge a giudicare. Quale esempio di recensione (anche per ricordare ancora una volta un grande amico) vorrei farti conoscere, caro e paziente lettore, la presentazione che Domenico Rea preparò (nel 1985, e da lì iniziò la nostra amicizia) per Marietti relativa al mio romanzo "Contrappunto borghese" che allora si chiamava: "Miserabili!". [i]In certi momenti questa sorta di summa della borghesia del sud di Bruno Cotronei fa pensare alla tecnica dell'École du regard: "Blocca la macchina, accende la luce interna e fruga nel ripiano sottostante il cruscotto. La mano tocca la superficie calda, rassicurante, di vera pelle, i polpastrelli si soffermano ad accarezzarla, quasi a scoprire le sottili venature. .."In altri momenti l'andatura del romanzo è fluviale, ottocentesca, vasta, larga, e fare il nome del primo ThomasMann non è occasionale, al contrario. Il romanzo di Cotronei è un'ennesima metafora sulla decadenza e sullo sfacelo della famiglia, ma rivisitata ed indagata in maniera spieiata grazie ai molteplici strumenti stilistici e alla capacità sperimentativa di Cotronei. In questa storia, in questa saga, si direbbe, con punte solari-n ibelu ngiche, che parte dagli anni del fascismo e prima ancora e si disfa sui nostri giorni sconsacrati, il cambio di mentalità e di comportamento è stato enorme. La psicologia degli uomini, che avrebbe dovuto arricchirsi, si è 101 inaridita, legata com'è ad alcuni concetti di fondo: il dena- ro, il possesso di qualcosa per una qualsiasi supremazia (o sopraffazione) sugli altri. Fermi a questi piloni realistici sotterranei, putenti come certe fogne a ciclo aperto, che riportano ciascun personag- gio in un alveo pur sempre economico, l'errore e l'errare nell'egoismo e nella ragnatela del vizio sono illimitati. Cotronei ha una maniera di trattare il viscerale psicanali- tico quasi volesse razionalizzare il flusso coscenziale joyciano. L'occhio di Cotronei, con lucidità e minuzia da scienziato, non perde nulla e da un peso alle più sfuggenti cellule della sua tessitura fantastica. Persino la punteggia- tura in questo libro ha un peso determinante. Ha lo strazio dell'ironia e la funzionalità del contrappunto baydniano, seguono alle pause, accelerazioni, vibrazioni. Libro a più piani, con un romanzo nel romanzo, che nasce spontaneo dal letto del gran fiume centrale, va deci- samente qualificato "summa" perché ancora una volta sembra alludere alla ricapitolazione del romanzesco e alla sua morte - la morte del romanzo tanto predicata - e alle riprove delle sue infinite possibilità di rinascita. A certe condizioni, s'intende! E qua in "Miserabili/" di Cotronei è il prepotente legame alla terra d'origine dell'autore e dei suoi personaggi. La connotazione meridionale (e meridionalistica) d'ogni creatura è fondamentale. Senza di essa tutto sballerebbe. Ci ritroveremmo di fronte a quel girare a vuoto di tanta romanzeria contemporanea; mentre l'opera di Cotronei offre notevoli materiali proprio perché i mezzi usati per l'indagine sono della più avanzata tecnologia ed è una costruzione verticale con in cima un segnale d'orizzontamene, un faro fra le nebbia. Per me, scrittore di cose ed uomini limitati da sempre al territorio che è press'a poco anche quello di Cotronei, - Ercolano, Napoli, la piana vesuviana, - "Miserabili!" è una vera e propria scoperta un po' come le tombe egli oggetti che di secolo in secolo vengono alla luce nella terra sacra e archeologica di Ercolano e che ci costringono a rivedere e a risentire tutto daccapo. Un'indagine operata con grandi 102 mezzi. Ciò che si riteneva spremuto ed esaurito (e nella società di Cotronei ha scavato a fondo Michele Prisco), per il vasto patrimonio psicanalitico, la conoscenza pittorica, la partecipazione avanguardistica che sta alle spalle di Cotronei, rinasce e s'innalza in una sorta di gigantesco castello in cui sembra si conservino gl'incunaboli e i catalo- ghi d'impensate intermittenze del cuore e del calcolo, del Bene e del Male. L'offerta sacrificale al Dio oscuro, il suici- dio della creatura umana, che, unica fra volpi e faine, si precipita nel Vesuvio, illumina come una bandiera un panorama di sopravvissuti. Lavorato come un affresco di altre epoche, "Miserabili!" si rivela da vicino un intreccio di "nuances", di grigi nei grigi, di neri meno neri più neri con alcune esplosioni di luci, di "sensazioni di paesaggio" vesuviano, stupendo e freddo, riportato alla filosofica altezza del mito che di questa summa, fra conscio e inconscio fra intorte spirali d'erotismo, fra mostri ed angeli, è il deus ex machina. [/[size=18][i]i] Ecco, a mio avviso, come si analizza un'opera letteraria, e l'autore così (ma sarebbe stato lo stesso se il giudizio fosse stato negativo purché competentemente analitico) si sente davvero "letto"! Scrivere (e pubblicare) narrativa è meraviglioso, anche se (come ho scritto nell'articolo su Eco) "costa fatica, sangue" e non si può fare, come appare da certi film commerciali, con lo scrittore sereno e disteso dietro un tavolinetto sgombro di carte posto su di un terrazzo o su una spiaggia, mentre la moglie e i figli o meravigliose fanciulle gli svolazzano attorno. Per chi si sente portato a farlo, a scrivere narrativa, è un'esigenza prepotente, ma, tornando a precedenti capitoli, sia Spinosa che Guerri, autori di biografie e non di romanzi, sembrano non capirlo e consigliano altre vie per giungere alla pubblicazione. Guerri racconta "la magnifica storia" di uno (che, mi sembra evidente, è proprio lui) che fece una tesi di laurea, "ci lavorò parecchio e la mandò ad un editore: senza conoscere un cane". Sei mesi dopo venne pubblicata; poi 103 "[size=18]scrisse e pubblicò altri saggi" ed è convinto che "se oggi si presentasse a un qualsiasi editore con un romanzo sottobraccio glielo pubblicherebbero ad occhi chiusi". Ag- giunge: "mi si dirà la vocazione e l'arte dove la metti? Non la metto da nessuna parte, che stiano dove sono, e se ci sono realmente prima o poi salteranno fuori... continuo a suggerire il saggio, che richiede doti non meno pregevoli, ma per fortuna meno rare... Niente ululati alla luna, ne svisceramenti dell'anima, ma una fatica bestia..." Purtroppo è vero: chi ha acquisito notorietà come articolista della terza pagina di un grande giornale e come autore di una biografia clamorosa (anche se errata secondo la Sacra congregazione) può, per alcune - criticabili ma reali - regole non scritte del mercato editoriale, pubblicare facilmente un romanzo anche se di mediocri qualità. Ma è deviante e dannoso suggerire di scrivere saggi con lo scopo di acquisire una certa notorietà ed un certo numero di conoscenze nell'ambiente giornalistico-editoria- le per ottenere, alla fine, la pubblicazione di un proprio romanzo. Significa strumentalizzare le proprie capacità e ottundere, applicandosi altrove e con procedure diverse, la propria libera predisposizione al narrare. E il suggerimento giunge da chi non sembra apprezzare molto il romanzo se definisce il farlo con espressioni del tipo: "far traboccare l'anima, il cuore e l'arte" o "niente ululati alla luna ne svisceramenti dell'anima", o infine, "butta l'anima sulla carta e poi, orgoglioso della propria anima, pretende che venga resa nota guadagnandoci pure". Non mi sembra, quindi, sincero Guerri quando dice che i suoi suggerimenti tendono ad aiutare gli aspiranti scrittori. Forse a lui scrivere romanzi non è riuscito bene e tira l'acqua al suo mulino di saggista. Vedi, amico lettore, mi sembra davvero incredibile affer- mare, e pubblicarlo su un diffuso giornale, che scrivere un saggio sia più faticoso di un romanzo! Ma cosa ne sa lui dell'improbo lavoro del dialogare con la pagina bianca e non per riempirla di facile pressappochistico linguaggio da saggio d'assalto o di quello rigorosamente tecnico, e quindi limitato, di un saggio cattedratico! Cosa ne sa di quanto 104 studio, biblioteca, occorrano per creare personaggi in un loro habitat e mantenerli coerenti e seguirli nei loro svi- luppi per centinaia e centinaia di pagine indagandone motivazioni ed azioni con una qualità formale coerente e controllata. Vedi, caro lettore, c'è una netta differenziazione fra lo scrivere saggi ed opere narrative, e l'aggiungere all'elencazione che Primo Levi fa "del perché si scrive" nel suo libro "L'altrui mestiere" (che consiglio di leggere anche a Guerri), il "fare" saggi per afferrare una certa notorietà che permetta poi (dopo anni) di far pubblicare un valido e degno romanzo, è (sarebbene possa trovare riscontro in una realtà matrigna) esecrabile perlomeno nelle intenzioni. Se, come da più parti si blatera (e vi credo poco), esiste crisi dal romanzo è ancor più pernicioso deviare chi pos- siede qualità atte a creare le uniche opere dello scrivere (oltre alla poesia) che impinguano e tengono in vita la storia della nostra letteratura. \[/size][/size][/size] | |
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