BRUNO COTRONEI E I SUOI LIBRI
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 INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I)

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Bruno
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MessaggioTitolo: INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I)   INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I) EmptyMer Feb 18, 2009 12:59 pm

INTORTE SPIRALI D'EROTISMO (4 edizioni)
presentazione
INTORTE SPIRALI D'EROTISMO è senz'alcun dubbio la mia migliore opera narrativa. Scritto fra il 1982 e il 1983, il romanzo fu corteggiato dalle grandi edizioni Garzanti e dalla prestigiosissima Marietti e, solo per motivi di tempo, fu pubblicato dall'Oceania. Nella prima edizione il romanzo aveva come titolo "INTORTE SPIRALI D'EROTISMO", nella seconda edizione assunse  di "CONTRAPPUNTO BORGHESE".Per poi tornare DEFINITIVAMENTE nella III edizione INTORTE SPIRALI D'EROTISMO.Ecco le due copertine:
INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I) 12copr10
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Notevole fu il successo di critica e più che sufficiente quello di vendita.
Fra le varie recensioni spicca quella dello scrittore DOMENICO REA , uno dei maggiori narratori del secondo Novecento italiano, premio Viareggio e premio Strega, presente in modo esaltante in tutte le maggiori enciclopedie mondiali e tradotto dovunque e particolarmente in Cina e in Russia. Famosi sono i suoi libri di racconti come: Spaccanapoli, Le Formicole rosse, Gesù, fate luce!. Ritratto di Maggio, Quel che vide Cummeo, Il Fondaco nudo e i due romanzi: Una vampata di rossore, Ninfa plebea (quest'ultimo tradotto in film da Lina Wertmuller).
Ed ecco la recensione di REA, una delle sue più convinte, su Intorte spirali d'erotismo:

"Giace riverso fra gli sterpi semiemergente dal fitto tappeto di foglie gialle picchiettate qua e là da un rosso innaturale e da fetida materia grigia che si mescola con l'insopportabile odore  prodotto
dala vicina fabbrica di gomma. Il viso tondo, gonfio non ha subito sostanziali modifiche: gli occhi azzurri acquosi sono spalancati e sembrano fissare un luogo lontano, le labbra semiaperte scoprono denti piccoli macchiati di nicotina in un sorriso non molto diverso da quello solito che conferisce all'uomo l'espressione ebete che tante volte ha cercato invano di mascherare. Dal cranio semicalvo pendono lunghi e sottili fili biondastri in piccoli  gruppi tenuti insieme dall'umido della sera reso più consistente  dalla pineta e dal mare non lontano, come grottesca  contapposizione al tanto curato  'riporto' al quale dedica lunghi periodi della sua giornata.
La nuca è quasi inccorporata alla rete metallica che cinge l'autostrada e le ha donato un tocco di colore acceso , quasi per effetto di una sorta di dripping  in un quadri di Pollock..."
...Cosi dall'immagine dell'assassinato chirurgo Nino Peri, inizia questo nuovo romanzo di Bruno Cotronei nel quale lo scrittore napoletano prosegue l'acuta, attenta e cruda indagine sugli scompensi della società contemporanea, inquadrandone ambienti e personaggi quali archetipi
di fatti e situazioni, ma senza mai cadere nello stereotipato e non trascurandone il dato storico. Già in alcuni racconti e ancora meglio nel romanzo edito da Sugarco, "L'inserimento", esemplare storia di un giovane alla ricerca della propria identità  e di un gratificante posto di lavoro,
Cotronei è andato definendo il quadro della composita realtà di tutti i giorni, precisandolo con cosciente maturità nella sua ultima opera.
In certi momenti questa sorta di summa della borghesia del Sud fa pensare alla tecnica dell'Ecole du Regard: "Blocca la macchina, accende la luce interna e fruga nel ripiano sottostante il cruscotto. La mano tocca la superficie calda, rassicurante di vera pelle, i polpastrelli si soffermano a carezzarla, quasi a scoprire le sottili venature... ". In altri momenti l'andatura del romanzo è fluviale, ottocentesca, vasta larga e fare il nome del primo Thomas Mann non è occasionale o azzardato, al contrario. Il romanzo di Cotronei è un'ennesima metafora sulla decadenza e sullo sfacelo della famiglia, ma rivisitata e indagata in maniera spieiata grazie ai molteplici strumenti stilistici e alla capacità sperimentativa in possesso di Cotronei. In questa storia, in questa saga, si direbbe con punte solari-nibelungiche, che parte dagli anni del fascismo e prima ancora
e si disfa sui nostri giorni sconsacrati, il cambio di mentalità e di comportamento è stato enorme. La psicologia degli uominiche avrebbe dovuto arricchirsi, si è inaridita, legata com'è ad alcuni concetti di fondo : il denaro, il possesso di qualcosa per una  qualsiasi  supremazia (o sopraffazione) sugli altri. Fermi a questi piloni realistici sotterranei, putente come certe fogne a cielo aperto, che riportano ciascun personsaggio in un alveo pur sempre economico, l'errore e l'errare nell'egoismo e nella ragnatela del vizio, sono illimitati. Cotronei ha una maniera di trattare il viscerale-psicanalitico quasi volesse razionalizzare il flusso coscenziale joyciano. L'occhio
di Cotronei, con lucidità e minuzia da scienziato (Cotronei è ingegnere), non perde nulla e dà
un peso alle più sfuggenti cellule della sua tessitura fantastica. Persino la punteggiatura in questo libro ha un peso determinante. Ha lo strazio dell'ironia e la funzionalità del contrappunto haydiano. Seguono alle pause, accelerazioni, vibrazioni. Libro a più piani, con un romanzo nel
romanzo che nasce spontaneo  dal letto del gran fiume centrale, va decisamente qualificato summa  perché  ancora una volta sembra alludere alla ricapitolazione del romanzesco e alla sua morte  -la morte del romanzo tanto predicata- e alla riprova delle sue infinite possibilità
di rinascita. A certe condizioni, s'intende! E qua , in Intorte spirali d'erotismo, è il prepotente legame  alla terra d'origine dell'autore e dei suoi personaggi. La connitazione meridionale e meridionalistica d'ogni creatura  è fondamentale. Senza di essa tutto sballerebbe.
Ci ritroveremmo di fronte a quel girare a vuoto  di tanta romanzeria  contemporanea, mentre
l'opera di Cotronei offre notevoli materiali proprio perché i mezzi usati per l'indagine sono della più avanzat tecnologia ed è una costruzione verticale con in cima un segnale d'orizzontamento, un faro fra la nebbia.
Per me, scrittore di cose e uomini  limitati da sempre al territorio che è press'à poco anche quello di Cotronei, Ercolano, Napoli, la piana vesuviana, "Intorte spirali d'erotismo" è una vera e propria scoperta, un po' come le tombe e gli oggetti che di secolo in secolo vengono alla luce nella terra sacra e archeologica di Ercolano e che ci costringono a rivedere e a risentire tutto daccapo. Ciò che si riteneva spremuto ed esaurito (e nella società di Cotronei ha scavato a fondo e in maniera magistrale Michele Prisco), per il vasto patrimonio psicanalitico, la conoscenza pittorica, la partecipazione avanguardistica che sta alle spalle di Cotronei, rinasce e s'innalza in una sorta di gigantesco castello in cui sembra si conservino gli incunaboli,e i cataloghi di impensabili intermittenze del cuore e del calcolo del Bene e del Male. L'offerta sacrificale  al dio oscuro,
il suicidio della creatura che, unica fra volpi e faine, si precipita nel Vesuvio  illumina come una bandiera un panorama di sopravvissuti.
Lavorato come un'affresco di d'altri tempi, "Intorte spirali d'erotismo" si  rivela da vicino un intreccio di nuances, di grigi nei grigi, di neri meno neri più neri con alcune esplosioni di luci, di "sensazioni di paesaggio" vesuviano, stupendo e freddo, riportato alla filosofica altezza del mito
che di questa summa, fra conscio e inconscio, fra intorte spirali d'erotismo, fra mostri ed angeli, è il suo deus ex machina.
DOMENICO REA  (Il Mattino, Napoli 11giugno 1984)

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Ultima modifica di Bruno il Mar Lug 22, 2014 5:54 pm - modificato 3 volte.
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MessaggioTitolo: Re: INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I)   INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I) EmptyMer Feb 18, 2009 1:03 pm

[
[center]justify]Cap. I[/center]
   Giace riverso fra gli sterpi, semiemergente dal fitto tappe­to di foglie gialle picchiettate qua e là da un rosso innaturale e da fetida materia grigia che si mescola con l’insopportabile odore prodotto dalla vicina fabbrica di gomma. Il viso ton­do, gonfio non ha subìto sostanziali modifiche: gli occhi az­zurri acquosi sono spalancati e sembrano fissare un luogo lontano, le labbra semiaperte scoprono denti piccoli, mac­chiati di nicotina in un sorriso che non è molto diverso da quello solito che conferisce all’uomo l’espressione ebete che tante volte ha cercato invano di mascherare. Dal cranio se­micalvo pendono lunghi e sottili fili biondastri in piccoli gruppi, tenuti insieme dall’umido della sera reso più consi­stente dalla pineta incombente e dal mare non lontano, co­me grottesca contrapposizione al tanto curato “riporto” al quale dedica lunghi periodi della sua giornata. La nuca èquasi incorporata alla rete metallica che cinge l’autostrada e le ha donato un tocco di colore acceso quasi per effetto d’una specie di dripping in un quadro di Pollock. Il corpo lungo e massiccio mette in evidenza lo stomaco adiposo e tondeggiante che emerge da una giacca di pelle gialla sbotto­nata e tende ai limiti della resistenza una camicia di flanella grigia.
   Uomini della scientifica gli si affannano intorno e nume­rosi flash tentano di forare il sottile strato di nebbia che di minuto in minuto si fa più densa, per fissare sulla pellicola la posiziotie e gli immediati dintorni. Infine l’uomo viene solle vato, ma la testa non vuole seguire il corpo, trattenuta dalla rete alla quale lascia, alla fine, abbondante materia cerebra­le, mentre si evidenzia una lunga e larga spaccatura all’osso occipitale.
   Il medico già ne ha constatato la morte dovuta con ogni probabilità alla ferita al cranio e ne ha approssimativamente fissato l’ora, fra le cinque e le sei del pomeriggio. Si trasporta la salma nell’autoambulanza e poi all’istituto competente per l’autopsia. Dal borsello, trovato a pochi metri dal corpo, si estrae il portafoglio che sembra non essere stato manomes­so, e dalla patente si identifica la vittima. E il professore Ni­no Peri, chirurgo di anni cinquantotto. Si avvisano i fami­gl jan. Si procede al riconoscimento.

*******

 Nella stanza lunga e stretta il viceprocuratore dottor Fucci osserva le larghe macchie d’umido e gli infissi screpo­lati e sconnessi che emanano un fastidioso odore di muffa. Si sofferma un attimo a scrutare Bernabò, il cancelliere, se­duto alla macchina da scrivere. Gli appare come un essere mimetico tanto si confonde, per squallore ed età, all’am­biente scalcinato e all’antidiluviana Olivetti. Non può fare a meno di confrontare l’uomo e l’ambiente agli uffici lumi­nosi, alla segretaria affascinante, alla macchina da scrivere elettronica del suo amico Coppola che semianalfabeta ha messo su un lucroso commercio di automobili, e alle stanze ovattate e lussuose nelle quali lavorano i suoi colleghi ame­ricani come appaiono nei telefilm che la moglie e i figli guardano in religioso silenzio, forse convinti che anche lui, magistrato italiano, si muova in analoghi ambienti. Deve essere grato a quei programmi insulsi, ricchi di cretinerie e dove la verità viene fuori con una stupefacente naturalezza al termine di rigorosi e logici interrogatori. Fosse così sem­plice nella realtà! Solo la serie di Perry Mason lo scredita agli occhi dei suoi con quelle continue brutte figure che il pubblico ministero è costretto a fare senza minimamente turbarsi per ricominciare alla successiva inchiesta con una sicurezza nemmeno leggermente scalfita dai tanti insuccessi. Non è mai frustrato il suo collega americano. Beato lui, forse ha un buono psicanalista!
 Si alza, si dirige con passo nervoso, adeguato alla sua figu­ra alta, magra e scattante, alla finestra. Una ragnatela pende dall’alto, la scaccia con movimento rapido della mano e guarda la piazza illuminata da fiochi lampioni. La pioggia sottile e continua e l’ora tarda hanno sostituito i netturbini, quasi sempre assenti, e i sacchi dell’immondizia, il sudiciume lasciato dalle innumerevoli bancarelle sembrano purificati. Anche i muri dell’antica porta contornata dalle due torri smozzicate sembrano ripuliti come il selciato della piazza dove solo qualche rado passante ha surrogato la massa pit­toresca e vociante e il traffico caotico con gli insopportabili rumori e fetori che lo costringono a tenere sempre ben serra­ti i battenti. Li spalanca e aspira voluttuosamente quell’aria ripulita e il caratteristico odore di pioggia. Improvvisamente rabbrividisce: effetto dell’umido? No, la porta si è spalanca­ta e alcune persone riempiono il suo ufficio. Sono agitati, qualcuno piange. Attorniano Bernabò che indica lui, Fucci, il signor giudice. Sono due donne, alcuni ragazzi e vari uo­mini. Il suo sguardo isola la donna più anziana: è alta, ango­losa, i capelli portati lunghi sono di un biondo innaturale, da tintura, i denti sporgenti, il naso prominente danno la sensazione di un viso da cavallo; ma la donna non è brutta, anzi nell’insieme è attraente con le lunghe, belle gambe ed i fianchi dalle curve perfette. E la signora Franca Peri, la mo­glie della vittima; ha pianto, è sconvolta, il trucco si è sciolto e macchie di rimmel le rigano il viso affilato. Fucci la invita a sedere e ordina a Bernabò di portare altre sedie, dove pren­dono posto alcuni uomini e una ragazza graziosissima che scuote continuamente la zazzeretta bionda e parla a mitra­gliatrice, accavallando una parola sull’altra e toccandosi con ritmo cadenzato il seno sinistro con la mano destra. Parlano tutti insieme, chiedono spiegazioni: la confusione e la com­mozione sono parossistiche. Qualcuno si presenta, altri ne seguono l’esempio: sono fratelli, cognati e figli del professor Peri. 11 magistrato riesce a farli tacere usando tutta la sua torità~ ma anche il tatto che la circostanza e il livello sociale delle persone che ha di fronte richiedono. Chiarisce che la vittima è stata trovata nell’area di sosta dell’autostrada Napoli-Salerno a circa trecento metri dal casello di Ercola­no, che il tipo di ferita e altri rilievi fanno escludere ogni ipo­tesi di incidente: si tratta di delitto. Osserva attentamente le reazioni dei presenti, mentre con gesto studiato accende una sigaretta. Non può fare a meno di sentirsi annoiato, sebbene il lavoro che svolge da anni lo abbia sempre interessato, ma quella sera era in programma una canasta in casa Coppola ed è stato costretto a rinunciarvi. Non che lo attiri il gioco in generale o la canasta in particolare. ma Annamaria Coppola sì: da mesi la corteggia assiduamente. Gli sembra di vederla versare il whiskv nei bicchieri di puro cristallo, con i lunghi capelli che le ricoprono il volto incantevole, e di sentire il tintinnio dei cubetti di ghiaccio. mentre il braccio si allunga verso di lui e il fianco si appoggia alla sua spalla, ma l’inima­gine si dissolve: le gambe della ragazza che ha di fronte si muovono e si attorcigliano sulla sedia, i piedi scompaiono sotto le natiche e la gonna lascia scoperta parte delle cosce. Anche con lei potrebbe passare una piacevole serata. Quella della ragazza è una bellezza più fresca, più genuina. Anna-maria è più matura, sofisticata come la casa arredata da un architetto di grido con i giochi di luce, i mobili di pregio, i divani di morbida pelle saggiamente distribuiti e i filodendri, le chenzie e i pòtos che creano riposanti e pittoresche oasi di verde.
 Un improvviso scoppio di pianto della signora Peri spezza il filo dei suoi pensieri e lo richiama alla realtà. Pone doman­de precise e i movimenti del professor Peri in quella suaulti­ma e fatale giornata si delineano: come al solito è uscito di casa alle 8,30 diretto all’ospedale San Francesco, una specie di purgatorio che sembra quasi volersi nascondere dietro la mole del San Pietro di epoca mussoliniana, quasi vergogno­so della sua origine ottocentesca. I locali angusti, le corsie umide e poco illuminate da finestre troppo strette, la carente attrezzatura erano compensati dallo splendido panorama e dalla lussureggiante vegetazione della collina dei Camaldoli. La costruzione del San Pietro gli ha tolto anche quelle e da più di quarant'anni si vive in un perenne stato di smobilita­zione e nella speranza di trasferimento al limitrofo San Pie­tro. Il professor Peri è “aiuto" nella divisione di chirurgia del vetusto ospedale ed anche quella mattina vi si e trattenuto ti­no alle 14 per poi far ritorno nella sua palazzina di Ercola­no. Ha pranzato e poi nessuno lo ha più visto fino ai maca­bro ritrovamento. La sua automobile è ancora parcheggiata nel garage di casa.
 E’ tardi, il giudice Fucci si alza, aggira lo scrittoio e percor­re a lunghi passi il suo ufficio dalla porta alla finestra, dalla finestra alla porta. Bernabò e i convenuti lo osservano silen­ziosi, ma lui ignora le tante persone che attendono le sue de­cisioni. Dalla porta alla finestra, dalla finestra alla porta. Pensa intensamente, valuta il da farsi, vuole andarsene, ma la serata è ormai rovinata. Bernabò picchia sui tasti dell’Oli­vetti nella speranza di interrompere quell’andirivieni che gli impedisce di lasciare il suo posto. Il suo stomaco brontola, da tante ore non mangia e l’ulcera si fa sentire: è vecchio il cancelliere e ai limiti della pensione e il magro stipendio non giustifica sacrifici. Scaccia una mosca che gli si è impertinen­temente posata sulla fronte stempiata con una violenza che quasi gli causa un’ecchimosi. Non ha da sperare nemmeno che gli conteggino lo straordinario: ha già raggiunto il mas­simo quel mese. Improvvisamente Fucci inciampa: il solito esagono sollevato in quel pavimento antiquato. Un’impreca­zione gli sfugge, riprende contegno: ha deciso. Congeda tut­ti, trattiene solo il primo fratello di Nino Peri e il povero Ber­nabò.

********

 La strada scorre avanti al suo sguardo vuota, rischiarata dagli abbaglianti proiettandolo in un mondo irreale, senza tempo, senza case, senza alcun segno di vita. Solo l’odore secco, oleoso del motore che si mescola con quello della pioggia sottile, insistente che macera le foglie ingiallite, distese come un rado tappeto sulla strada lo richiama a una certa reaItà nota, conosciuta che è del tutto riacquistata quando incrocia qualche rara automobile ed è costretto a commutare i fari nella posizione anabbagliante. Allora il la­to destro si illumina e scopre gli alberi che stendono i rami fronzuti sulla strada e i fitti cespugli, mentre il lampo abba­gliante mette in evidenza il cristallo del parabrezza, impia­stricciato dagli insetti precipitatisi a schiantarvisi contro, che la pioggia e il tergicristallo faticano a pulire. Ripensa all’in­terrogatorio cortese ma incalzante al quale é stato sottopo­sto quando la cognata, i nipoti e il fratello sono andati via ed è rimasto solo faccia a faccia con il giudice Fucci. L’asmatico rumore dei martelletti che picchiavano sul rullo della mac­china per scrivere costituiva un sottofondo al quale presto aveva fatto l’abitudine fino a dimenticarsene del tutto e la se­ra, in quella stanza dall’alto soffitto, sembrava raggiungere un silenzio spesso interrotto solo dalla voce squillante del magistrato, mentre le sue risposte parevano senza suono. Aveva detto che due soli anni dividevano lui, professor Ortesio Peri docente in radiologia con studio in Ercolano, da Nino che era il primogenito.
 «Chi guadagna di più di voi due?” la sorprendente do­manda.
 «Mah... forse io, anzi diciamo sicuramente io, ma sa, mio fratello aveva optato per il tempo pieno... »
 «Perché suo fratello a cinquantott’anni era ancora aiuto? » Sapeva bene perché, ma aveva risposto:
 «Come si fa a dire? Forse sfortuna, forse quello stato di provvisorietà del suo ospedale. Sono anni e anni che si parla di chiuderlo e trasferire i medici e il personale paramedico».
 «Era insoddisfatto suo fratello della carriera e dei guada­gni?»
 «Ma chi è del tutto soddisfatto?»
 «Lei, ad esempio: ha una cattedra, uno studio avviato, un nome nell’ambiente e appena due anni in meno».
 Non aveva saputo mascherare il compiacimento. Si era tolti gli occhiali e si era dedicato alla loro pulizia con eccessi­va attenzione e meticolosità, riuscendo con tale gesto, che doveva apparire naturale, a distogliere lo sguardo da quello penetrante e indagatore di Fucci.
 «Era benvoluto suo fratello? Si era mai lamentato con lei del primario o del direttore sanitario? »
 «Non parlavamo mai della sua attività ospedaliera. In­somma, giudice, pur vivendo vicini, ognuno di noi aveva la sua vita, le sue amicizie e carriere diverse».
 «E gli altri suoi fratelli?»
 «In che senso, scusi?»
 «Che fanno, che carriera?»
 «Ah, questo, siamo... eravamo tre maschi e due femmine. Amintore è ginecologo e possiede una clinica specializzata. Armida è professoressa di scienze ed è preside del “Marconi”. Ha sposato il professor Minucci, titolare di an­tropologia, e infine Alma è laureata in farmacia, ma non la­vora e il marito, il dottor Negri, è direttore di banca». Aveva sistemato gli occhiali al loro posto e sollevato il capo.
 ((Tutti con ottime posizioni: denaro e prestigio».
 ((Ma io non capisco cosa c’entri tutto ciò con mio fratello
e con la sua morte, giudice».
 «Mi meraviglio. Come non essere frustrato quando si è il primogenito e l’ultimo nella vita. Quando si è frustrati si odia, ci si fanno dei nemici, si tormentano i sottoposti, si sfrutta quel pò di autorità che si ha».
 ((Ma non credo che mio fratello si sentisse frustrato...»
 «Aveva mai avuto dei detenuti nel suo reparto?», lo aveva interrotto
 «Sì, credo, qualche volta. Sa meglio di me che il San Fran­cesco è considerato l’ospedale del carcere di Poggioreale».
 ((Ne ha mai parlato con lei? Sa di minacce?»
 Aveva negato ed era stato bruscamente congedato con un sorriso che aveva percepito falso e professionale, come quel­lo con il quale salutava i suoi clienti.

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MessaggioTitolo: Re: INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I)   INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I) EmptyMer Feb 18, 2009 1:06 pm

[justify]I fari inquadrano la villa, l’elaborato cancello in ferro bat­tuto, le alte palme, le aiuole colme di piante, il prato all’in­glese, le colonne che sostengono la lunga balconata del primo piano che si allarga sul portale di noce. Tutto è curato con meticoiosità. Scende dall’auto, sospinge il battente de­stro con visibile sforzo, ma subito il giardiniere, come sbuca­to dal nulla, si precipita ad aiutarlo e quasi lo rimprovera:
«Professore, professore, ma che fa? Provvedo io, stia co­modo! »
Il professor Aristarco Peri riprende la guida e conduce la monumentale Isotta Fraschini nell’autorimessa, ricavata da una delle scuderie alle spalle della villa, inseguito dal servi­zievole giardiniere. Spegne i grossi fari nichelan che sovra­stano, come occhi di drago, gli arcuati parafanghi, toglie il contatto e lascia l’auto alle cure del dipendente. Percorre il vialetto ghiaioso che aggira la villa fino all’ingresso principa­le, osservando compiaciuto la sua proprietà e aspirando vo­luttuosamente i mille odori del suo giardino, dominati da quello resinoso della vicina pineta che si arrampica sulle pendici dell’incombente vulcano. La porta si spalanca, un’intensa luce lo abbaglia e la calda atmosfera della sua ca­sa lo avvolge. Abbraccia la moglie e la precede nell’ampio salotto arredato in puro stile Luigi XVI. Molti dei mobili so­no autentici Avril Etienne dalle superfici impiallacciate e sot­tolineate da una snella cornice di bronzo. Quattro giovinetti lo salutano rispettosamente, ma il suo sguardo si illumina solo quando il primogenito, Nino, lo bacia sulla folta barba sollevandosi sulla punta dei piedi per raggiungere il volto dell’imponente e massiccio genitore. ~ già alto e robusto per i suoi tredici anni e i sottili capelli biondi mascherano il volto tondo, gli occhi leggermente sporgenti e quel sorriso che gli conferisce un atteggiamento ebete che il padre ignora, men­tre osserva compiaciuto la peluria bionda che ricopre le guance, il mento, il collo in una prospettiva non lontana di barba. Allontana con dolcezza il ragazzo ed entra nel suo studio, appoggia sullo scrittoio la grande borsa di coccodril­lo che reca sempre con sé e si abbandona stanco ma soddi­sfatto sulla poltrona veneziana Luigi XVI, mentre l’occhio passa in rassegna gli attestati e le onorificenze occhieggianti da elaborate comici dorate: certificato di laurea, la nomina a Gran Cordone della Corona d’Italia, quella di Professore Insigne dell’Università di Napoli e di membro della Reale Accademia d’Italia. E’ uno scienziato illustre, un biologo di fama internazionale all’apice della carriera. Il Regime se ne èimpadronito e lo sfoggia in ogni occasione. Ha dato l’esem­pio quando per il conflitto etiopico si donava l’oro alla pa­tria e sulla piazza del paese si è sfilato la vera, subito imitato dalla moglie, e l’ha consegnata al podestà in alta uniforme alla presenza del Federale e attorniato dai figli vestiti da ba-lilla, figli della lupa e piccole italiane. E’ proprio un’edifican­te manifestazione e i discorsi patriottici zeppi di citazioni mussoliniane sembrano infiammare tutti quei poveretti che si accalcano ai piedi del palco delle autorità e che, umili ma fieri, ascendono fino al capiente cesto per lasciarvi cadere vere, catenine, leggeri braccialetti d’oro frutto di fatica e di sudore, accompagnati da esaltanti inni diffusi dai grandi al­toparlanti dell’EIAR ancora echeggianti della metallica voce del Duce. Poi il corteo dalla piazza del Comune allargo pro­spiciente la villa Peri, attraverso quella specie di budello che costituisce il cuore della cittadina vesuviana, sotto vecchi balconi dalle ringhiere di ferro e dall’impiantito con la solita consunta lastra di marmo di infima qualità, sfiorando le porte dei “bassi”, i carrettini con un ricordo di pittura sgar­giante accerchiati da nuguli di mosche, zanzare e moscerini che ballano l’interminabile danza fino a quando una mano li schiaccia e poi munita di mestolo si affonda nel pozzetto del limone, della fragola, della nocciola e della cioccolatta per servire i clienti. Ma altre legioni d’insetti si precipitano a prendere il posto dei caduti. Le insufficienti fontanine pub­bliche lasciano scorrere quel filo d’acqua che tutto il giorno vede una folla di donne, bambini e vecchi riempire secchi, fiaschi e bottiglie che vengono svuotati negli sbrecciati ac­quai dove mani avide si immergono per un tentativo di puli­zia che, presto deluso, cade nell’indifferenza e nella rasse­gnazione. I rubinetti solo qualche volta concedono qualcosa di più di poche gocce del prezioso liquido e gli sciacquoni non raggiungono mai il livello sufficiente per fare ingoiare il materiale fetido e scuro che i tanti abitanti producono per­ché la vita deve continuare, non può arrestarsi perché l’otto­centesco acquedotto non riesce a soddisfare quel minimo di vitali esigenze di cittadini di uno stato che pur invia spedizio­ni per conquiste coloniali dal costo di fior di milioni. Un paio di pizzerie sono aperte e mani abili, ma dalle unghie ne­re di sudiciume, impastano la farina dove riversano l’acqua raccolta di prima mattina e cospargono di pomodoro e moz­zarella il tondo appena formato. Fulminea la stessa mano schiaccia o scaccia una mosca e si solleva a detergere il su­dore che, traboccante per il movimento e il calore del vici­no forno a fascine, scorre abbondante sulla fronte, o si ab­bassa per quietare un improvviso prurito della zona scrota­le per poi ritornare alla precedente funzione. Questurini si precipitano ad imporre ai gelatai di far sparire quegli inde­centi carretti e a far sloggiare la povera umanità dalle fon­tanine dove un operaio dell’acquedotto si affretta a serrare il bullone. Nel corteo vi è un delegato del Partito giunto per l’occasione da Roma: non si deve permettere che riferi­sca quelle miserie, il solo pensiero che possano giungere all’orecchio del Duce, che turbino la sua grande mente de­dita a ben altri traguardi, atterisce le autorità locali! Dispu­te si accendono qua e là presto sedate dai rappresentanti di quello stato forte, autorevole, che non ammette contrad­dittorio.
Ed ecco la grande e assolata piazza dominata dalla villa dei Peri, che appare quasi come una reggia fra le basse e scal­cinate costruzioni che chiudono il rettangolo in forte pen­denza con il selciato consunto e sconnesso, ma in via di so­stituzione. Piccoli e malaticci platini fanno una ben magra fi­gura in confronto alla selezionata vegetazione della residen­za dello scienziato. Si intravvedono cedri e auraucarie, nu­merose bellissime acacie dal fogliame elegante e leggero e con fiori gialli dorati, eucalipti, lecci, platini e tamerici, mentre dai muri traboccano le bougainvillee dal vivacissimo colore violetto e si arrampicano dovunque lussureggianti bi­gnonie e gli odorosi gelsomini. La compagnia si scioglie e il professor Peri, seguito dalla moglie e dai figli, scompare con andatura solenne in quella specie di Eden.
Nino si sente un privilegiata in casa e fuori. Ogni sua azio­ne buona o cattiva che sia è confortata dal continuo favore del padre che vede in lui il suo delfino. Gli altri figli contano ben poco e Nino ne approfitta continuamente sopraffacen­doli con la forza fisica che la maggiore età gli concede. Assu­me un’aria di piccolo padreterno, ma spesso nei litigi viene trafitto da una battuta pungente di Ortesio o Amintore che, al contrario di lui, hanno la lingua pronta e il cervello sve­gl io. Non sa cosa rispondere e lacrime di rabbia bagnano quegli occhi tondi e sporgenti, allora li insegue minacciando di picchiarli, ma i fratelli si rifugiano sull’alto muro che cin­ge il parco, dove lui non ha il coraggio di salire, e di lassù lo beffeggiano. Corre a lamentarsi con il padre che richiama gli impudenti e li rimprovera aspramente: nessuno in quella fa­miglia patriarcale dell’alta borghesia deve permettersi di irri­dere il primogenito!
Anche a scuola è un privilegiato. Nell’istituto di proprietà dei preti, i professori si fanno in quattro per permettergli di ben figurare: quando non è preparato, basta che affermi di avere una leggera emicrania e l’interrogazione è rinviata fin-quando non chiede lui stesso di essere chiamato alla catte­dra. I compagni lo colmano di gentilezze: gli passano i com­piti, lo aiutano in tutti i modi e subiscono le sue prepotenze. Più volte i genitori li hanno ammoniti di non inimicarsi il fi­gliolo prediletto dell’influentissimo professor Peri, che solo che lo voglia può fare o disfare le fortune dei modesti profes­sionisti, impiegati e commercianti, nucleo della piccola bor­ghesia del paese.
Con i poveri, l’aria di padreterno dcl giovane Peri raggiun­ge vette elevatissime. Attraversa Ercolano a piedi o sulla nuova e leggera bicicletta fulgida di cromature, fari e spec­chietto retrovisore, pavoneggiandosi nei vestiti o nelle divise del Regime tagliati dal miglior sarto della grande città, e compiacendosi dell’invidia suscitata che confonde con am­mirazione. Non saluta nessuno, ma guarda tutti fisso in volto attendendo l’omaggio che è convinto gli sia dovuto, ma non come figlio dell’uomo più autorevole del paese, bensì per la sua magnificenza che ritiene insuperabile, anche se gli abiti non riescono a dissimulare lo stomaco tondeggiante e il petto un pò femmineo.
Le feste in casa Peri sono un avvenimento per Ercolano: l’edificio si illumina tutto e automobili lucide come specchi imboccano il viale superando il cancello spalancato per de­porre dinanzi alla porta uomini in smoking, signore in ele­ganti abiti da sera e giovanette dai volti sfavillanti. Lampa­dari di cristallo danno luce alle sale dove gli ospiti si aggira­no fra credenze in ciliegio, trumeau intarsiati a motivi geo­metrici, commode a mezzaluna con bronzi dorati, divanetti veneti incannucciati, divani francesi del Settecento, secretai­re con decorazioni in bronzo e porcellana, console dorate e tavolinetti piacentini. Tre cameriere con carnici neri di raso e grembiulini bianchi servono dolcini e liquori e poi invitano tutti nel salotto grande dove un pianoforte a coda, un’arpa dorata e alcuni sgabelli vengono occupati dalla signora Peri con le figlie e due amiche che, dopo qualche accordo, ac­compagnano Aristarco nell’esecuzione di un’aria per barito­no. L’esibizione è accettabile: la voce dello scienziato è pos­sente ed educata e i lampadari tintinnano. Alla fine i conve­nuti esplodono in frenetici applausi e in calorose richieste di bis: sembra di trovarsi al San Carlo con la non insignificante differenza che a teatro di solito si va per sentire musica, mentre, eccettuati gli intimi, qui è una sorpresa e non piace­vole per tutti. Aristarco concede un secondo e un terzo bis e gli applausi si attenuano. Quando tutto sembra finalmente terminato il biologo chiama Nino e annuncia al pubblico che il figlio canterà un pezzo dalla Tosca. Il giovane non batte ciglio, l’aria da superuomo si confonde con quella ebete: la voce esce dapprima flebile, poi sempre più sicura, ma im­provvisamente una stecca clamorosa rovina tutto e la fine della romanza è raggiunta a fatica fra ripetuti anche se atte­nuati errori. Si applaude mascherando il riso che sale spon­taneo, le labbra si serrano còn sforzo e solo gli occhi lascia no trapelare i veri sentimenti. Aristarco indifferente (ogni cosa che fa il primogenito è perfetta) abbraccia Nino e lo in-voglia a cantare ancora. Il petto ben imbottito di carne si gonfia e l’ardua prova viene superata correttamente, ma èevidente per tutti, anche per i meno competenti e forniti di orecchio musicale, che il “delfino” non debba proseguire su quella strada.[/justify]
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MessaggioTitolo: Re: INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I)   INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I) EmptyMer Feb 18, 2009 1:07 pm

[justify]Si torna alla conversazione e a bere e a mangiucchiare. I giovani seguono Nino nelle scuderie e non possono fare a meno di ammirare il magnifico baio che il padre gli ha regalato. Le ragazze gli fanno corona, non provano particolare attrazione per lui, tutt’altro: lo sguardo poco intelligente, il corpo privo di vera virilita le spingerebbero a donare la loro attenzione ad altri ragazzi, ma quella villa, il parco, il cavallo costituiscono un indubbio richiamo. Nino sembra accorgersene ed esce sulla piazza dove, come al solito in quella oc­casione, si è raccolta la folla dei poveri. Solo fra di loro si sente davvero realizzato, raggiunge un gruppo di ragazze e le invita nel parco e nel buio di un vialetto solitario ne afferra una e la bacia e la fruga avidamente.
Non ha veri amici il giovane Peri: le cavalcate al maneggio della villa, le gite in bicicletta, i cinematografi lo vedono ac­compagnato da fratelli e cugini con i quali si sente protetto dal cieco amore paterno. Un inconscio senso del pericolo lo induce a non frequentare, al di fuori della scuola, i compa­gni che cominciano ad andare a donne. Non corteggia con impegno le ragazze del suo ambiente, nè frequenta le festicciuole giovanili dove non ha cavalli o biciclette super da mo­strare, ma solo il suo corpaccio sgraziato, così poco adatto al ballo. Sempre più di frequente invece entra nelle case dei poveri dagli intonaci screpolati o addirittura assenti, pavi­menti di mattonelle di argilla scheggiate, la latrina nel cortile o su1 ballatoio e le finestre anguste che si affacciano su strade sporche, strette e sconnesse. E ricevuto con ansia ed umiltà e si degna di accettare il caffè che gli viene servito nella tazzina buona, magari l’unica rimasta. Apprezza apertamente le belle ragazze, le valuta quasi fossero oggetti da comprare e appena possibile le invita nel parco della villa. Con loro, attonite per la ricchezza che possono finalmente ammirare da vicino, ha le prime limitate esperienze sessuali. Si sente orgoglioso per quelle facili conquiste, sempre più numerose e assume un’aria di sufficienza quando a scuola o fra i giovani parenti si parla di donne.
L’aria di padreterno prende stabile dimora su quel viso ebete, ma lo abbandona quando, dopo essersi rivolto con i soliti modi arroganti al fidanzato della sorella maggiore, ne riceve risposte decise e la minaccia di una robusta scazzottata. Impallidisce, mostra paura e si allontana, ma vuole, come di consueto, avere l’ultima parola e lancia una pesante ingiuria. Il giovane non è abituato a subire da lui come tutti quelli che frequentano la villa e risoluto avanza verso Nino che fugge ignominiosamente. Corre, corre quanto più può, attraversando aiuole colme di fiori i cui colori si fondono, come in una sequenza troppo rapida, in un rosso vivo come il sangue che sgorga copioso dal naso del nostro eroe, che riceve la lezione che da tanti anni meritava e che nessuno ancora gli aveva impartito. Ma quando il patriarca viene a conoscenza dell’episodio, apriti cielo! Il fidanzamento rischia di andare a monte se Nino non riceve pronte scuse. Aristarco quasi vorrebbe alzare lui le mani sull’impudente per vendicare il prediletto ed è inflessibile: Nino riceve soddisfazione. L’aria di padreterno riappare, anche se la vicenda rimarrà per sempre impressa nel suo inconscio.
E’ l’anno della licenza liceale per Nino e sta anche per concludersi il primo anno di guerra per l’Italia. Il Regime, quasi come il giovane Peri nell’episodio con il futuro cognato, ha ricevuto un’avvisaglia della sua pochezza e di riporre eccessive sicurezze su basi autarchiche alquanto fragili: la perdita della Cirenaica e la insospettata reazione greca che si è riversata in Albania. Ma, come per Nino è intervenuto il potente genitore, così in Africa e in Grecia sono giunti i tedeschi e il vessillo italiano sventola su Atene e su Bengasi.
Nino siede nell’aula, il foglio dinanzi a lui è ancora desolatamente bianco, solo sui margini astratti disegnini di una mano guidata da un cervello che non riesce a farle fare altro. Attraverso i vetri delle grandi finestre la pineta gli appare quanto mai bella e desiderabile, lo sguardo si ferma sui tronchi scagliosi, rossastri, diritti, ramificati solo in alto a reggere con rami ascendenti come le braccia di un candelabro le chiome scure ed espanse ad ombrello che si profilano contro il cielo azzurro donando ombra amica a una casupola diroccata quasi tutta ricoperta di fitta edera. Un glicine mostra i suoi fiori rosa porpora che fanno capolino sui davanzali, immagina gli odori che i battenti chiusi non permettono di percepire, mentre lo spiaccicarsi di gocce d’acqua nel lavabo del vicino stanzino si avverte chiaramente e sembra scandire il passare dei secondi, dei minuti, delle ore. Improvvisamente una mano amica, forse di uno dei preti dell’istituto, gli porge furtivamente un quadratino di carta bianca approfittando di un attimo di distrazione del commissario d’esame. E' il compito già bello ed eseguito. Lo copia, lo consegna e va via.
Agli orali è ormai sicuro del successo: gli scritti con quel sistema sono andati bene. Attende il suo turno, l’aria di padretemo è nuovamente sul suo volto, indifferente non presta la minima attenzione alle interrogazioni, al contrario dei compagni che aguzzano l’udito per non perdere nemmeno una parola e di continuo e con affanno consultano libri e appunti per colmare eventuali lacune. Allontana bruscamente una mosca, osserva indolentemente i banchi di abete rosso lucidato a cera che occupano buona parte dell’aula magna, il crocifisso, i ritratti del Re e del Duce e infine il lungo tavolo dei professori: facce note e tranquillizzanti tranne una, quella del commissario inviato dal ministero. Avrà quarant’anni, è piccolo, bruno e magro; un paio di occhiali dalla montatura modesta con spesse lenti gli nascondono le pupille, una voce profonda, insospettata in quell’ometto domina le altre. Sembra che ponga domande difficili, addirittura cattive. Nino non si preoccupa più di tanto e si dedica ad altre osservazioni, mentre accende una sigaretta.
Lo chiamano, lo fanno sedere, tutti lo accolgono con sor­risi incoraggianti, ma l’ometto lo fissa senza simpatia e gli detta un’equazione da risolvere. La matematica non è il suo forte (ma quale materia lo è?), la penna rimane sospesa in aria, la mordicchia ammaccando il cappuccio. Il professore della materia che lo ha promosso per ben due anni e che lo ha ammesso agli esami con la sufficienza, tenta di interveni­re in suo aiuto e prima di essere bruscamente interrotto gli indica la strada giusta, la penna si abbassa e traccia il primo passaggio, poi si rialza.
«Su, Peri, bravo, ormai è fatta, completi», incita il suo professore e fa strani segni di x e y da dietro la testa del com­missario, ma Nino non comprende.
«Mi sembra che non la sappia risolvere», dice l’ometto.
((Dimostri questo teorema» e lo scrive sul foglio.
Il suo sostenitore sbircia quanto ha scritto e interviene an­cora una volta in aiuto dell’allievo, che come prima non rie­sce ad utilizzare i suggerimenti preziosi e fa scena muta.
Si passa alla fisica, ma anche qui la prova è penosa. Il commissario tronca decisamente ogni aiuto, gli anni di com­piacenti promozioni si fanno sentire. Le scienze naturali ria­bilitano leggermente il candidato che però confonde afelio con perielio e fanerogame con crittogame. Nella storia la confusione è fra la prima e la seconda guerra d’indipenden­za. In latino la consecutio temporum è un disastro, come la traduzione di un brano del De bello gallico. In italiano sem­bra salvarsi fino alla Divina Commedia dove le cantiche so­no confuse con i canti e il commento di alcune terzine è rovi­noso.
Il commissario governativo che ha dovuto penare non po­co per contenere i ripetuti tentativi dei preti per coprire le deficienze del candidato sbotta in un:
«Ma lei è davvero un ignorante!»
Nino tace. E la prima volta che viene apostrofato in tale modo, ma la sicurezza di superare l’esame è ancora ben lon­tano dall’abbandonarlo. Osserva l’ometto quasi con suffi­cienza. Ci sono pur sempre il padre e i professori compiacenti.
«Ma, professore, il giovane è frastornato. Si vede subito che non sta bene», interviene con impeto il rettore. «~ da tanti anni con noi ed è stato sempre promosso con buoni vo­ti e gli insegnanti ne sono soddisfatti». L’ometto non replica, ma scuote la testa in un diniego deciso. «E gli scritti sono buoni, addirittura ottimi. Sicuramente è caduto in una gior­nata balorda”, insiste.
Il commissario dà chiari sintomi di irritazione. Il viso è cu­po. le mani si agitano sul tavolo e sfogliano nervosamente quaderni e libri, poi raggiungono gli occhiali che quasi strappa dalla loro sede, gli occhi sprigionano foschi bagliori, i] mento si tende in avanti, la mascella è decisa, sembra un piccolo Mussolini.
«Ma, padre, mi scusi, ma che giornata balorda, questo giovane è davvero un ignorante! Ha dato delle risposte as­surde chiaramente rivelatrici di una preparazione confusa e d’accatto. Lei mi parla di scritti buoni, ma sa bene quanto me che si possono copiare. La maturità si dimostra agli ora­li. Ebbene le dico che non merita altro che la bocciatura!» Picchia il piccolo pugno sul tavolo. «Il nostro paese è impe­gnato in una lotta titanica contro le plutocrazie, non possia­mo permetterci debolezze, perbacco! Se penso ai tanti ragaz­zi della sua età che in questo momento sotto il sole africano si battono per la Patria, per il Re, per il Duce! Se penso ai nostri marinai, ai nostri aviatori! Quelli che rimangono nel comodo delle case debbono perlomeno studiare, studiare e bene, altrimenti vadano a combattere! Peri, può andare e si ricordi di quello che ho detto e si vergogni». Con gesto im­perioso lo congeda.
Nino è frastornato, un senso di tragedia lo investe, ha paura, guarda disperatamente il rettore e gli altri professòri, ma non c’è salvezza e sconsolatamente abbandona il tavolo e si avvia all’uscita, mentre palpabile avverte l’avversione e lo scherno dei compagni.
“Stupidi”, pensa “ma provvederà papà” la sua ancora di salvezza da sempre. Ma nemmeno il potente, l’autorevole professore Peri, subito messosi in azione, riesce a ribaltare il risultato. Quel commissario è un fanatico e i tempi non sono propizi. Il giovane Peri è respinto.
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MessaggioTitolo: Re: INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I)   INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I) EmptyMer Feb 18, 2009 1:11 pm

[justify]Qualcosa dovrebbe càmbiare per lui, invece no: il padre lo ama ancora di più e lo colma di attenzioni, di regali e di assi­curazione sulla indubbia promozione che giungerà è vero con un anno di ritardo, ma che non potrà mancare.

************

Ha smesso di piovere, i fari inquadrano un grande cartel­lo: “ Giorgio a Cremano”, mentre sul ponte del raccordo luci con un’aureola di nebbia si inseguono come fantasmi di­spettosi. Ortesio inserisce la quinta e accelera l’andatura. Non può fare a meno di pensare che ora anche Nino è un fantasma. La consapevolezza della morte del fratello lo pe­netra e s’impossessa della sua mente. Nino è morto, Nino èstato ucciso! Ma perché, da chi? Come è possibile che un uo­mo dalla personalità così mediocre possa suscitare un odio tanto malsano da condurre all’omicidio? Il giudice ha esclu­so la rapina, allora? Eppure anche lui ha odiato Nino, oh se l’ha odiato! Quante volte da bambino si è svegliato concitato e con la fronte madida di sudore per i sogni agitati che vedo­no il fratello maggiore vittima di incidenti: annegato, schiac­ciato da un autocarro, calpestato dal cavallo, caduto in una voragine senza fondo. E quale era la sua reazione costante? Un liberatorio senso di sollievo, di gioia, di completezza, an­che se appena cosciente recitava un paternoster e un’avema­ria per chiedere perdono al Signore per quei cattivi pensieri non degni di un bambino timorato di Dio. Ma non era certo Nino al quale si era sempre sentito superiore, che cagionava quell’odio, bensì il padre, il suo grande padre, da lui così amato, addirittura idolatrato, ma dal cuore inaccessibile tut­to preso da quella fiamma che ardeva solo per il primogenito.
Non ha aiutato il magistrato con le risposte evasive alle domande apparentemente senza senso, che al contrario di­mostrano come ha inquadrato in breve tempo la figura di Nino. Ma è giusto far entrare un estraneo nei misteri di una famiglia? Ma non sarebbe giunto prima o poi l’inquirente al­la verità? Non è opportuno dare tutta la sua collaborazione? Purtroppo Nino anche con la sua morte è riuscito a danneg­giarli: bisogna rassegnarsi, ormai il passato e il presente dei Peri saranno studiati, analizzati, sezionati dagli investigato­ri, dalla stampa, dalla gente. Che disonore per una famiglia come la loro che per generazioni è stata stimata ed invidiata ed ha occupato un posto stabile nell’alta borghesia napoleta­na. Ma perché accanirsi a dare tutte le colpe a Nino? Non èforse più colpevole il padre che ha voluto obbligare il primo­genito a una facoltà e a una carriera non adatta a lui? Che lo ha sempre protetto senza mai permettergli di prendere co­scienza dei propri limiti? A che era dovuto quell’amore così esclusivo e possessivo? Perché nasconderlo ancora: conosce bene la ragione.
Ricorda quando Amintore lo ha raggiunto nella pineta dove si è recato con il libro di anatomia alla ricerca di un pò di sollievo dal caldo afoso ed opprimente di un’estate inter­minabile. Sdraiato sul terreno cosparso di foglie aghiformi osserva il cielo completamente coperto di nuvole attraverso le quali il sole non riesce ad inviare i suoi raggi se non gua­dando quel filtro spesso e opaco. Si sente avvolto dal vapore acqueo che quasi satura l’aria. Ha il corpo bagnato di sudo­re, respira con difficoltà e fa fatica a concentrarsi sull’appa­rato tegumentario che sta studiando. Quasi di continuo scruta le chiome degli alberi nella speranza sempre delusa di vederle muoversi ad indicare il sopraggiungere del vento li­beratore. Amintore accaldato e affannoso gli mostra un qua­derno: ha gli occhi pieni di lacrime. Ha voglia di respingerlo in malo modo, non intende impegnarsi in problemi da ra­gazzo quel pomeriggio, ma vuole bene al fratello e sempre lo ha aiutato. Apre il quaderno, lo scorre dapprima frettolosa­mentè e subito dopo con interesse parossistico. E il diario del padre e quello che la chiara calligrafia paterna racconta è sconvolgente: la moglie, la loro madre ha avuto un amante! Aristarco li ha scoperti insieme in atteggiamento inequivoca­bile: è l’autista di casa, quello che è stato al loro servizio dal ‘24 al ‘32 per ben Otto anni. Le pagine rivelano il dolore, un dolore umano plebeo e qualcosa di più: il sospetto che tutti i figli ad eccezione di Nino possano essere di Catello, l’auti­sta! Minuziosamente, impietosamente è descritto il dram matieo litigio. Aristarco ha ingiunto all’autista di allontanar­si, ma di tenersi a sua disposizione. L’uomo con i capelli ne­rissimi arruffati e i baffetti tremanti raccoglie gli abiti sparsi, si avvia all’uscita e tenta ancora:
«Mi perdoni, signor professore, mi perdoni, ma... »
«Va via di qui, va via! Scompari!»
La porta si chiude con delicatezza. Aristarco serra il chia­vistello e si gira verso la moglie che è seduta sul bordo del letto di quella stanzuccia umida e buia ricavata sulle scude­rie: le gambe raccolte, le braccia strette al seno, i lunghi ca­pelli le nascondono il volto, le forcine in disordine sul como­dino. Piange sommessamente.
«Allora, disgraziata, è da otto anni che disonori questa ca­sa e il mio nome, ma perché, in nome di Dio, perché?» la vo­ce si rompe: anche il grande professor Peri, lo scienziato di fama mondiale, il terrore dell’università, il vanto del paese èun uomo. Gli occhi si inumidiscono, qualche lacrima riga quel volto altero. Le cancella con gesto deciso. «Parla, di­sgraziata! »
Un filo di voce giunge da quell’angolo buio, sembra uscire dal vecchio muro ammuffito, dal comodino zoppicante o dalle lenzuola ancora calde per il recente amplesso.
«No, non dire così: sono colpevole, è vero, ma cosa ne sai tu delle mie sofferenze, delle mie ansie, del mio arrovellar­mi? Che ne sai tu cosa si prova a sentirsi una moglie trascu­rata e non più una donna?’>
«Hai anche il coraggio di reagire, tu che ti sei comportata come una serva!»
«Sì, come una serva, ma anche le serve sono donne! Non si sposa una ragazza appena uscita di collegio, la si fa don­na, la si illude di amarla, di essere la cosa più importante della vita per poi al primo figlio considerarla solo come un accessorio, l’ultimo dei tuoi interessi! »
«Osi anche rimproverarmi, malafemmina! Non sono sem­pre stato un buon padre e un buon marito?’>
«Un buon padre sì, ma che marito sei stato se a stento ti ricordavi di me per augurarmi la buonanotte e ti rigiravi su bito dall’altra parte, mai un gesto d’amore, una dimostrazio­ne d’affetto»;
«Ho sempre assolto ai miei doveri coniugali! »
«L’hai detta la parola: doveri. Solo come un dovere l’hai fatto, senza slanci, tu che hai risvegliato i miei sensi di adole­scente e che mi hai abituata a ben altro e io ti ho amato con tutta me stessa, con tutto il mio ardore’>.
«Taci, sciagurata, maledetta, parli come una donna di malaffare! ... Perché non te ne sei mai lamentata? »
«Quante volte ho cercato di dirtelo, ma non mi ascoltavi. Solo della casa, del bambino, degli impegni sociali potevo parlarti e tu sempre dei tuoi successi, degli incarichi, delle onorificenze e dei congressi. Io solo una giovane donna e tu un uomo importante, troppo importante!»
«E ti sei messa con l’autista, meretrice! »
«Ero sempre con lui. Eri tu che mi obbligavi a recarmi in automobile per compere, per visite ai parenti, per l’assisten­za alla Crocerossa... mai un sorriso, uno sfogo in quegli am­bienti uggiosi, sempre nella parte della moglie del grand’uo­mo, io poco più di una ragazza».
«E cosa c’entra?»
«Ma era l’unico essere umano... mi vedeva piangere per la mia solitudine...»
«Che vergogna!.., e i figli dopo Nino di chi sono?»
«Tuoi, tuoi» il disperato grido.
«Come fai a dirlo? Non lo saprò mai, maledetta!»
«Ma una donna lo sa, sono tuoi tutti’>.
((Che devi sapere». La mano ricopre gli occhi, il mondo, tutto il suo mondo distrutto. Aristarco, forse per la prima volta nella sua vita, si sente confuso, annientato. Passano se­condi, minuti, ore, non lo sa. Ritorna padrone di sè, della sua mente, della sua vita. Fissa la moglie con uno sguardo terribile. La voce è di nuovo possente, volitiva, imperiosa.
«Ascoltami bene e non dimenticano mai! Mi fai ribrezzo, ma sei mia moglie e cinque innocenti portano il mio nome. Da ora in poi non avremo più servitori uomini, tranne il vec­chio Giacomo. Dormiremo in camere separate e solo di no me sarai mia moglie. Non uscirai più dalla villa senza di me, ma per tutti e principalmente per i bambini saremo una cop­pia modello: educazione e rispetto. Guai a te se non esegui-rai quello che dico. E ora ricomponiti e torna in casa’>. Apre la porta e si affretta per la ripida scala. Catello è costretto a defilarsi dalla loro vita. Dopo pochi giorni si imbarca per l’America da dove non farà più ritorno.
Ortesio e Amintore si abbracciano con forza sovrumana, quasi a voler fondere i loro corpi, le loro anime, il loro sbi­gottimento, il loro pesante dolore. Piangono a lungo e i sin­ghiozzi scuotono violentemente il corpo del giovane dician­novenne e quello del ragazzo sedicenne, mentre un filo di vento agita le chiome dei pini e il sole riesce finalmente a fo­rare il diaframma delle nuvole e illumina quei volti resi im­provvisamente maturi dal primo vero impatto con l’empietà della vita.
Ortesio si svincola, sente il dovere di rincuorare il fratello minore, si sforza di ricomporre i lineamenti alterati, di dare un tono tranquillo alla sua voce, ma il suono è ancora inna­turale quando dice:
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MessaggioTitolo: Re: INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I)   INTORTE SPIRALI D'EROTISMO, romanzo di BRUNO COTRONE (presentazione e cap. I) EmptyMer Feb 18, 2009 1:12 pm

«Pazienza, Amintore, calmati, vuoI dire che il Signore ha deciso così. Forse è un bene che abbiamo saputo. Questo ci fa comprendere tante cose che ci apparivano misteriose: perché papà sembri amare solo Nino, perché gli dà sempre ragione, perché si prodighi principalmente per lui, e anche perché i no­stri genitori non hanno mai un vero slancio d’affetto l’uno verso l’altra. E sì, non dirmi che non l’hai notato. Gli altri agi­scono in modo ben diverso: litigano, ma si abbracciano e si baciano anche davanti agli estranei. Pensa che io ritenevo che l’alta posizione di nostro padre comportasse quell’atteggia­mento. Ora invece ne conosciamo la causa... E mamma? Non ti sei mai chiesto perché è sempre stata dolce e affettuosa con noi e appena c’è papa assume un’aria da madre superiora...’>
«Ma tu li chiami nostri genitori. Una sola lo è e papà forse non è nostro padre...» Amintore ricomincia a piangere.
Una vertigine investe Ortesio. La collera si impadronisce di lui, sente di odiare la sorte che lo ha precipitato in quella situazione assurda, più consona ad un dramma ottocentesco che a un giovane evoluto come lui. Vuole maledire i malac­corti genitori ma non può, c’è Amintore, ci sono le sorelle, deve proteggerli. Eppure proprio sul fratello si scarica l’ener­gia distruttrice che lo pervade.
«No, Amintore, non devi dire così. Non voglio assoluta­mente che tu dica così, per la miseria! Sei un uomo, non di­menticarlo’... A che vale arrovellarsi? Se anche non lo fossi­mo portiamo il suo nome, ci ha cresciuti e a suo modo ci vuole bene... »
«E mamma? Come ha potuto agire in quel modo? come una donna da strada... »
«Ah basta! Non te lo permetto, hai capito... E nostra ma­dre e una buona madre, non spetta a noi giudicarla, nè giu­dicare papà. Dobbiamo aiutarli e basta, e nessuno deve sa­pere quello che abbiamo letto... pensa alle nostre sorelle, al­la loro reputazione! »>
Raccoglie il diario che è caduto a terra, scaccia le formiche che lo hanno invaso e riprende a leggere. Ormai vuole sapere tutto e la dimensione umana del padre si delinea con sempre maggiore evidenza: i suoi turbamenti, il suo tormentarsi sul­la paternità, il suo prefiggersi di essere un padre giusto ed imparziale, il suo biasimarsi quando si accorge di non esser­ne capace, il suo struggimento di voler sapere di più, di con­trollare date, periodi, ma anche la consapevolezza dell’muti­lità di quell’indagine o la paura di accertare che gli altri figli (tutti o qualcuno) non siano i suoi, lo scrutare i tratti dei bambini e poi dei ragazzi nella speranza di trovarli sempre più vicini ai suoi e infine la triste constatazione che solo Ni­no gli assomiglia davvero. Ma immediata la ferma determi­nazione di considerarla solo una sua fantasia e di cancellarla dai suoi pensieri.
Poi per pagine e pagine il diario è solo una piatta elenca­zione di risultati di lavoro, di successi, di riconoscimenti, di lievi difficoltà presto superate, per sfociare infine in un al­tro dramma intensamente vissuto: il trasformismo e il tradi­mento. Quasi quattordici mesi prima, il 25 luglio 1943, in una giornata torrida il re, dopo il voto del Gran Consiglio della Rivoluzione Fascista, fa arrestare Mussolini e nomina capo del Governo il maresciallo Badoglio. Il fascismo si dissolve; migliaia di distintivi del partito sono sparsi nelle strade, nelle fogne; busti marmorei del Duce, Fasci giacciono in pezzi e sono calpestati da coloro i quali fino a pochi giorni prima li hanno considerati come novelli feticci. Un’ira repressa, pro­fonda esplode e sembra impadronirsi di tutti gli italiani. Si devastano le Case del Fascio, si bruciano tessere e bandiere, si scatena la caccia al gerarca. Aristarco abbandona la villa e si rifugia in un casolare di campagna dove ottiene asilo a prezzo del suo orologio d’oro e di tutto il denaro che reca con sè. Solo in ottobre, dopo la liberazione di Napoli, torna a farsi vivo alla ricerca disperata, umiliante di vecchi colleghi di insospettabile credo antifascista. Molti lo respingono, il professor Caretti (che nel ventennio aveva dovuto abbando­nare l’università) lo schiaffeggia in pubblico, altri lo trattano con studiata indifferenza. Infine riesce a convincere quelli che contano, dietro esborso di un’ingente somma, della sua fede monarchica e non fascista e a procurarsi attestati apo­crifi di un lontano antifascismo. Nell’estate del ‘44 riottiene la cattedra, ma in condominio con una nullità scientifica in possesso però di reali meriti di persecuzione politica. Il suo laboratorio, i suoi mille incarichi, i cospicui gettoni di pre­senza sono persi per sempre, mentre lo tormenta il pericolo di un possibile, anche se lontano, processo per profitti del Regime.
Ma non è quella l’angoscia che primeggia fra le righe del diario. Ben più grave appare l’interrogarsi affannoso, ancora una volta impietoso, sulla correttezza del suo comportamen­to. No, non ha agito da vero uomo, proprio lui che è andato sempre orgoglioso di aver aderito al fascismo già prima che. il movimento giungesse al potere, che ha esibito, insieme con le tante onorificenze, la partecipazione alla marcia su Roma, e davvero vi aveva preso parte come le ormai ingiallite foto­grafie esposte nel suo studio ampiamente testimoniavano. E stato un buon medico, ma presto ha abbandonato la profes­sione per dedicarsi alla ricerca in una disciplina affascinante: quella biologica. Ha dato molto alla scienza italiana ed in­ternazionale, ma non può tacersi di essere stato immensa­mente aiutato dalla miìtanza nel partito, che ha fatto da cassa di risonanza ai suoi studi, ai tanti piccoli passi avanti propri della ricerca scientifica e non ha certo rifiutato i nu­merosi onori tributatigli e che perche non amrnetterlo) non solo qualche volta ha alacrainente sollecitato come il denaro sempre più copioso che gliene è derivato e da lui così accor­tamente investito. Avrebbe dovuto mostrare più coerenza, usare quel coraggio che tante volte ha esaltato ad uso dei po­veri giovani mandati a morire in Etiopia Spagna Libia Alba­nia Russia e dovunque la follia mussoliniana li conduceva.
A che vale oggi accampare in sua difesa il comportamento di personaggi come lui o ben più su di lui, o farsi scudo dell’eterno paravento nazionale, la famiglia e i figli, quando per anni ha fatto eco a Mussolini nell’asserire che gli italiani vanno tenuti su a calci negli stinchi? Ma, aggiungeva il dia­rio in un repentino cambiamento di rotta, a che sarebbe ser­vito il suo immolarsi? Il suo rinunciare ad ogni possibilità di essere ancora utile alla nazione con le sue illuminate lezioni? Costringere i figli ad una vita grama? Autoghettizzarsi, se non farsi rinchiudere in qualche tetra prigione? La storia d’Italia e il Machiavelli non insegnano la necessità di volta-faccia? Allora perché tormentarsi ancora? Bisognava, ser­vendosi di intelligenza e furberia, riconquistare posizioni e ritornare ad essere attivo al servizio dei nuovi padroni, uno dei quali, se proprio vogliamo, è il maggiore colpevole delle disgrazie nazionali, e anche se ha concesso la luogotenenza, c’è pur sempre un Savoia sul trono d’Italia.
Il diario è terminato, le poche pagine rimaste sono sconso­latamente vuote come il cervello di Ortesio, che non sa dav­vero più cosa pensare. Miti di sempre sono definitivamente rotolati in un putridume che era persuaso potesse albergare solo nelle case dei poveri, degli incolti, della plebe e che inve­ce, non solo ricopre la sua famiglia ma ne costituisce l’elemento portante. Non piange il giovane, ma prende per ma­no Amintore e con lui si dirige verso la sottostante villa che improvvisa appare fra le foglie dei pini, illuminata dal caldo sole dell’incipiente tramonto. Le aiuole quasi li abbagliano con gli intensi colori dei ciclamini, dei gigli bianchi e rosso fucsia, degli eleganti gladioli, delle rose a cespuglio, mentre numerosi cipressi e tuie formano una suggestiva parete che si contrappone ai vecchi muri dove viti del Canada assumono tinte suadenti fra il giallo e il rossobronzo. Eppure tanto splendore, di solito così ricco di essenze profumate, colpisce l’olfatto dei fratelli con un unico nauseabondo odore.
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