III
Comunità: un ingresso trionfale
Tutto sommato, nonostante quello che racconterò nei successivi capitoli, non sono stato sfortunato quando, verso la fine di maggio, il nick Brandy, che mi aveva invitato nel “privato” della solita chat Al Valentino, mi invogliò, una volta saputo della mia attività di scrittore, ad iscrivermi nella comunità che ad essa si collegava.
Per la verità mi era sembrata interessante la conversazione con Brandy (uomo, donna, omosessuale?) da aderire di buon grado alla sua sollecitazione. E non era trascorso un giorno che da quella che si era rivelata come una ragazza, anche se una certa Sandy Sop in chat me ne aveva fatto dubitare, mi giunse per e mail l’invito ufficiale per la comunità, un suo racconto, un suo disegno e la pressante richiesta di inviarle qualcosa di mio. Mediocre e dilettantesco il racconto, buono il disegno e grandi lodi per quanto le avevo inviato. Anzi, prendendomi in contropiede, Brandy aveva subito provveduto ad inserire nella bacheca le nostre opere della comunità un mio breve racconto che trovai lì già seguito dal commento di una certa Safy che diceva:”Bello, mi piace sul serio! Sembra di viverle proprio le scene (…) e poi mi sono accorta di aver divorato parola per parola il tuo racconto Bisanzio, sai quando ti aggrappi ad ogni parola per poi passare a quella successiva, con la curiosità di sapere come va a finire (…) Mi piace anche da matti come usi gli aggettivi avvicinandoli per suoni simili, è bello l’effetto che fa! Ciao Bisanzio”.
Non nascondo che ne ebbi piacere, non tanto per le lodi, ma perché aveva saputo leggere e mettere in evidenza i pregi maggiori ricordandomi quando, ahimè molti anni prima, il grandissimo scrittore Domenico Rea aveva recensito in modo mirabile il mio romanzo di maggior impegno, di cui sembrava aver penetrato ogni mia più riposta istanza, e mi aveva chiesto:”Ti sei sentito letto?”.
Un paio di giorni dopo al commento di Safy s’era aggiunto quello di Seneca, un iscritto sempre presente in tutte le bacheche, che in dialetto veneto e cercando di fare dello spirito, mi aveva informato di: aversi fumato più donne che sigarette, di avere ora 69 anni e concludeva invitandomi a…proseguire fin quando sarebbe stato possibile tanto prima o poi moriamo tutti e che il mio racconto gli era piaciuto tanto davvero.
Nei giorni successivi, nel mio girovagare nell’attivissima comunità dove da ogni parte spuntava onnipresente Seneca che argomentava su tutto (alternando agli interventi in veneto altri in perfetto italiano), scoprii nella bacheca narrativa una presentazione-recensione di Safy, dominatrice assoluta della rubrica, de “Il nome della rosa” di Eco. Era una puntuale descrizione del libro e una totale esaltazione dell’arte del professore di Alessandria. Avevo delle obiezioni da muovere e non esitai un momento a farlo anche a costo di rischiare di inimicarmi un membro tanto autorevole della comunità e che, oltretutto, s’era mostrata tanto entusiasta del mio modo di scrivere. Mi interessavano le reazioni di quel mondo del tutto nuovo per me dove, sotto la protezione dei provvidenziali nick, gli iscritti avrebbero potuto esprimersi in piena libertà senza rischi di coinvolgimenti nella vita reale. Questo non sarebbe valso a lungo per me in quanto il mio vero nome sarebbe saltato presto fuori dai titoli delle mie opere. Desideravo provocare per conoscere, ma, ciò facendo, non avrei che in minima parte forzato il mio modo di essere che sempre mi aveva spinto ad una sincerità estrema.
Inserii quindi questo mio scritto sotto quello di Safy: Vedo che sei entusiasta di Eco, e chi non lo è? Ma non è tutt’oro ciò che luce! Qualche anno fa pubblicai sul quotidiano…questo articolo dal titolo “Pregi e difetti di Eco narratore”. Leggilo e dimmi cosa ne pensi:Ecco, c’era da aspettarselo, la patina del duro, del freddo raziocinante si è sciolta liquefatta miseramente meravigliosamente all’impatto del narrare. Simili a impazziti baluginanti razzi orbitanti su piani diversi ed improvvisamente convergenti nella vasta misteriosa piazza della mente, sensazioni si conficcano, quali strali dolorosi , illuminanti e ravvivano ricordi sopiti scomparsi o tenuti saggiamente nell’area di parcheggio dei pensieri, quali aeromobili scoloriti nel buio hangar da dove, ubbidienti schiavi, son richiamati a volte per brevi controllati gratificanti voli, ed ora, invece, svolazzano come uccelli solitari attraverso nuvole dense, formando stormi, lasciando traccia. Non più abitanti docili e tranquilli l’uno vicino all’altro, ma vorticanti nello spazio immenso del cervello , tanto largo quanto è stretto il mondo, e, simili alle cose, lì si urtano duramente in modo lancinante, non più vestiti di bianco come fanciulli alla prima comunione, ma negri spettri, perché nessuno di essi è contento di sé, ed una volta espresso è una bugia e non è più rivoltabile, come un saggio o uno studio, per servirsene parecchie volte.
Qui sono loro che comandano, ti prendono la mano, sono indomabili e infinitamente belli nell’orrido dei rimorsi della verità di una vita intensamente vissuta. Non si può barare, pena la banalità il falso il costruito su misura, come lo svolgimento tematico monografico del tranquillizzante saggio, anche il più vero e scottante, o che ne abbia la parvenza osannata e di successo.
Narrare costa fatica, sangue, quanto e più di un percorso nelle scure tortuose anse di un fetido labirinto, e la vivida luce, il raggio caldo del grande astro che ogni tanto con meraviglia ti raggiunge, non ti compenserà mai a sufficienza. La molteplice faccia dei fatti ti attrae e ti respinge, e, infine, ti lascia stordito ammutolito quando alfine pensi di averne toccata l’essenza, il mistero.
Tutto ciò ed altro ancora prova il vero narratore, non chi non ha talento, o chi esegue una cosiddetta opera di “ingegneria letteraria”. Senza l’emozione, l’afflato dell’artista. Non bastano vivida intelligenza e saggia metodica di ricerca, che completa una profonda cultura, per fare opera narrativa che non può essere scissa dalla vera arte.
Ineluttabile, prima o dopo, questa verità si fa esplicita negli autori e principalmente nei lettori che contano, ossia quelli sensibili ed educati sui classici di ieri e di oggi.
Per il notissimo Umberto Eco, tanto osannato e celebrato e venduto, sembra giungere oggi, ad anni di distanza, e, con non nascosta soddisfazione, ne registriamo la notizia.
Il “magazine” di Repubblica del 20 gennaio celebra la sua prima sconfitta e ne registra i perché senza però approfondirne valutarne la (per noi) antica genesi.
Il diffuso giornale organizza ogni anno un discutibile (per i criteri di scelta e gli accoppiamenti) torneo intitolato “Superwimbleton” dove 77 romanzi italiani, pubblicati da non oltre un anno e accoppiati come in un torneo di tennis, si affrontano in singole tenzoni il cui risultato è determinato da una giuria di cinque lettori; ed Eco, al primo turno, è stato eliminato da una quasi sconosciuta scrittrice esordiente, Pia Fontana che, con il suo “Spokane” , ha battuto lo strombazzato e vendutissimo “Il pendolo di Focault”. Ma, in fondo, non è l’avversaria che ha vinto, è Eco che ha perso, come risulta dall’intervista rilasciata da uno dei tre giudici che hanno votato contro lo scrittore di Alessandria. Franca Sonetti ( studentessa italiana che vive a Berlino) ha detto:” Il libro di Eco è artefatto, è scritto per gente che ha una concezione del mondo estranea al senso comune. Preferisco Pia Fontana”.
A nostro avviso i veri motivi devono ricercarsi nella considerazione che nessuno –per quanto intelligente, colto e fortunato sia- possa “tirare la corda” troppo a lungo. Successe a De Crescenzo con la sua unica opera narrativa, “Zio Cardellino”, molto meno venduto e celebrato di “Così parlò Bellavista” e di “Storia della filosofia greca”. Ora succede ad Eco nonostante le cinquecentomila copie vendute “a scatola chiusa” ma pochissimo lette e il clamoroso successo mondiale de “Il nome della rosa”.
Il motivo ci sembra identico pur con tutte le debite differenze di caratura e di preparazione: con la narrativa, ossia con l’arte, non si scherza!
Eco volle dare una lezione ai narratori e costruì “Il nome della rosa” e a molti, a tantissimi sembrò che ci fosse riuscito, ma quel libro, apprezzabilissimo per tanti motivi ( linguaggio, contenuti, cultura maturata, struttura e suspence), mancava -e lo scrivemmo- di emozione che deve evidenziarsi sempre, e dilatarsi di fronte all’elemento umano. Ebbene dalla pagina 246 alla 253 Eco racconta dell’improvviso ed imprevisto incontro sensuale fra un novizio e una fanciulla. Ciò in un monastero e nell’anno di grazia 1327, e lo fa con una freddezza ed assenza di emozione vera agghiaccianti, senza minimamente alterare lo schema razionale prefissato.
Con “Il pendolo di Focault” i pregi riconosciuti ne “Il nome della rosa” sono totalmente annullati , e alla mancanza di emozione si sommano assurda e inutile prolissità, un linguaggio che lascia a desiderare (in considerazione dell’importanza attribuita all’autore), una tenue trama e una cultura che pare non sufficientemente maturata e che potrebbe identificarsi con erudizione da “trasposizione”.
E’, a nostro avviso, una forzata opera narrativa di uno che narratore si è “creato” senza esserlo, senza possederne il talento innato assolutamente necessario, che imbottisce il lettore di date, fatti, congetture dove è difficilissimo seguire un filo logico.
Qui il medioevo, “esotico” perché poco conosciuto da noi e tanto lontano dalla normale cultura nordamericana e che costituì la chiave di volta del successo de “Il nome della rosa”, è stato sostituito dai Templari e dai Rosa-Croce.
Ne scaturisce un guazzabuglio causato dal desiderio di stupire ad ogni costo da parte di uno scrittore che è e rimane principalmente un abilissimo saggista.
L’immenso successo de “Il nome della rosa”, che secondo noi è andato troppo al di là del giusto, sembra aver causato un distacco dalla realtà e dell’oggettiva misura anche ad un uomo notoriamente equilibrato come il professore e scrittore Eco.
Non è facile raggiungere un grande successo, ma è infinitamente più difficile mantenerlo o rinnovarlo, e la tendenza ad una certa, anche se involontaria, arroganza si manifesta sovente.
In fondo è il sogno di ogni scrittore scrivere e far leggere tutto quello che a lui più piace, e pensiamo che Eco, oltre al desiderio di “stupire” ancora di più, ci sia cascato in pieno, convinto che il suo libro sarebbe stato pubblicato e venduto “a scatola chiusa”.
Ciò, in fondo, è avvenuto anche se dubitiamo che il rendiconto totale delle vendite possa mai eguagliare quello de “Il nome della rosa”.
“Di Eco avevo letto il romanzo precedente. Al confronto il pendolo è impraticabile. Ho la sensazione che sia un libro concepito per puri scopi commerciali, come sembra di capire dall’enorme battage pubblicitario. E’ un libro lento , con parole complicatissime”, ha dichiarato Cinzia Pozzi, un’altra delle lettrici-giudici di Repubblica.
In fondo, nonostante i miliardi incassati e da incassare con i diritti d’autore, l’Eco narratore non potrà essere soddisfatto del suo Pendolo perché forse, tutto sommato, qualche autore “a proprie spese” di cui inverecondamente Eco si fa beffe nel suo libro, può essere più narratore di lui; e dall’ormai famoso Pendolo uno solo è stato strozzato: lo stesso Eco.
Safy, da persona intelligente, replicava con molto rispetto e senza un sia pur minimo astio. Cercava solo di contestare la mancanza di emozionalità in Eco da me sostenuta. Poi interveniva Fortus (fondatore e gestore della comunità ) che subito mostrava le sue caratteristiche: una brava persona, ma un po’ dura nel comprendere ciò che veniva scritto. Infatti, pur dicendo che aveva letto con molto piacere la prima parte del mio articolo, che definiva una bellissima prosa poetica, aggiungeva che la mia critica non era quella che si sarebbe attesa per il libro in questione, continuando a dire, con una certa confusione, che non aveva capito se io giudicavo Eco un intelligente scrittore ma noioso o che altro. Poi concludeva salutandomi e rallegrandosi del bell’acquisto che con me aveva fatto la comunità.
Ben lungi dal terminare, la discussione proseguiva con l’intervento di Seneca che si limitava a dire di non averci capito molto, ma di essere con me d’accordo e di congratularsi.
Seguiva Norvegius che affermava che quando, leggendo un libro, riusciva ad entrare dentro la sua storia ed a vedere la biblioteca dell’abbazia e tutto il resto, quel libro gli piace. Ma Seneca lo rintuzzava, schierandosi ancora una volta al mio fianco.
A questo punto ritenevo opportuno intervenire dicendo: Decisamente questa è una bella comunità dove c’è vera partecipazione e attento interesse e ringrazio tutti per l’accoglienza Per quanto riguarda Eco, cercherò di dire in breve e con la massima chiarezza il mio pensiero. Fino agli anni Ottanta la scena dei narratori italiani era dominata da alcuni nomi che riuscivano a vendere centomila copie e non erano certamente i più validi in assoluto. Il fenomeno veniva chiamato “best seller d’autore”, ed era partito da esempi alti (Bassani, Testori) e s’era sviluppato con Cassola, Chiara, Arpino, Prisco, Castellaneta, Gina Lagorio e altri, fino a giungere a Moravia e la Morante.
Gli editori, ormai trasformati da protettori delle arti a semplici imprenditori, erano fieri di dare un prodotto letterariamente di buon livello con vendite industrialmente convenienti (centomila copie). Infatti i narratori che ho nominato riuscivano ad ottenere insieme la consacrazione della critica e del pubblico. Ma l’appetito dei grandi (solo per dimensione) editori andava aumentando sempre di più e incominciarono a sfruttare quei narratori cui chiedevano (ovviamente a scapito della qualità) di sfornare un nuovo libro ogni anno perché sostenevano che “il successo è stagionale e non bisogna lasciare la vetrina agli altri”. Però questo modello di romanzo incominciava a perdere(forse proprio a causa dell’intensa produzione cui erano costretti gli autori) progressivamente colpi e si rendeva necessario creare un modello alternativo al precedente. Nasceva così IL ROMANZO DI INGEGNERIA LETTERARIA. Si tratta di un tipo di libro che l’autore scrive pensando più al lettore che alle proprie personalissime istanze. E’ comunque un libro di contenuti sofisticati e spesso alti, ma con una trama avvincente, che partecipa del giallo. Il caso più tipico è “Il nome della rosa”,un successo che rovescia tutte le prospettive dell’industria culturale.(…) Ma l’artista e l’arte si fondano esclusivamente sull’emozione, quella vera non indotta dalla moda. Così hanno operato i grandi russi dell’Ottocento, così gli americani degli anni Trenta, così i nostri Morante, Moravia(nella sua prima produzione) Pratolini, Bassani etc: una trama non interessava quanto lo scavare profondo nei più bui recessi dell’animo umano!
Chi è Eco? Un amatissimo e quotatissimo professore universitario autore di vendutissimi saggi (“Come si scrive una tesi di laurea”aveva venduto ben un milione di copie!) che lo rendono molto ben accetto agli editori che se lo contendono con la vittoria finale di Bompiani (gruppo Fabbri). Lo spingono a scrivere anche narrativa convinti come sono che il pubblico acquisterà il suo prodotto perché la notorietà fa vendite e interviste e presentazioni dovunque.
Eco, che è un ambizioso al massimo livello anche se gioca a fare il modesto, accetta e cerca la grande novità. Progetta un grattacielo: il suo romanzo, e s’interroga su cosa gli farà ottenere maggiore successo. Il progetto viene messo a punto: userà il medioevo (di cui è uno è uno dei massimi studiosi), l’esotico funziona, come il giallo perché piace nei libri, in televisione e al cinema. Vi aggiunge un linguaggio originale e coerente con quello medievale.
E’ intelligente e coltissimo ed ha una grande capacità di lavoro. Il romanzo viene terminato in maniera praticamente perfetta. C’è tutto: contenuto e forma tanto ben equilibrati da rendere felice perfino il De Sactis!
MA L’ARTE E L’EMOZIONE NON CI SONO! Vedi, Safy, hai riprodotto righi di Eco sull’incontro fra il novizio e la ragazza: perfetto, ma sembra la descrizione di un’automobile bellissima, niente di più! Cosa succeda nell’animo, nell’inconscio del giovane, l’autore non riesce ad interpretarlo perché Eco si emoziona solo per il medioevo e la cultura. Leggi o rileggiti gli autori che ho più sopra nominato e capirai la differenza, leggi “L’amore coniugale“ di Moravia e capirai cosa avviene davvero in un uomo quando affronta il sesso, quali vere emozioni lo pervadono. QUESTA E’ Arte! Eco non riesce a fare altro che fargli dire di “vergine nera”, di “torre del Libano”, e “come sei bella”. Questa sarebbe emozione amorosa, stupore di uno sverginamento? Bah, è meglio lasciar perdere!…
Dopo l’incredibile, travolgente successo mondiale di questo libro, Eco, sollecitato come non mai, deve sfornare un nuovo libro: in fondo i venti miliardi di diritti d’autore lui guadagnati, non gli dispiacciono affatto, perché non farne altri? E nasce il Pendolo, opera del tutto mal riuscita, cervellotica e assurda, ben misera cosa rispetto a “Il nome della rosa”. Ne tirano subito 500.000 copie e le vendono perché l’autore è il professore/scrittore tanto osannato e di moda, ma quante giacciono nelle domestiche biblioteche con appena qualche pagina sfogliata e ancor meno letta?
E lui è divenuto arrogante più che mai (solo a scrutarlo con la massima attenzione te ne accorgi, perché, credo, che sappia mascherarsi molto bene) e, nelle pagine 192 e seguenti, prende in giro i poveri aspiranti scrittori. Aprofitta di loro per riempire un bel pezzo del suo libro, ma quelle pagine nulla hanno a che fare con il vero soggetto dell’opera.
Seguirà un terzo romanzo che è stato anche poco venduto rispetto al primo. E’ stato così per i grandi narratori italiani e stranieri? No. La bolla s’è sgonfiata!
Ed ora sono a te Fortus, Ti preciso che ammiro Eco, professore e saggista, uomo di cultura e autore de “Il nome della rosa” perché in questo libro i pregi sono tanti che riescono a bilanciare quella mancanza di emozionalità di cui abbiamo detto. Ma come narratore finisce lì. Ciò non toglie che il suo primo romanzo rimarrà nella storia della nostra letteratura, anche se il Pendolo lo pregiudica molto. Ora basta, sono stanco e la giornata è stata faticosa. Ovviamente non conosco verità. Quanto ho scritto è solo la mia opinione, mica verità assoluta. Ognuno è libero di manifestare la sua opinione, ma il confronto con i veri grandi, a mio avviso, è la vera chiave del giudizio su Eco che, ripeto, è valido abbastanza nel primo romanzo, assolutamente insufficiente poi. Ciao simpaticissimo Seneca e grazie per l’appoggio.
E Seneca non tardava a …ricomparire nel dibattito con un nuovo intervento nel quale mi riempiva d’elogi dicendo che avevo scritto tutto quello che avrebbe voluto scrivere lui se avesse saputo scrivere come me e se avesse posseduto la…mia cultura letteraria.
Infine, per la prima volta compariva Volteur, che, come avrei imparato presto, veniva considerato il vero intellettuale della comunità. Scriveva di condividere del tutto i miei giudizi su Eco e la disanima che avevo fatto del motivo creativo della sua opera lo trovavano quasi del tutto d’accordo. Aggiungeva, però, che esiste nella storia letteraria un intero filone di artisti che hanno supplito alle loro carenze emozionali proprio tramite la costruzione mentale. Tuttavia cosa dire di uno come Thomas Mann che, alla stregua di un tale atteggiamento, scrive libri come il “Doctor Faustus”? La razionalità si sente parecchio nelle sue opere, ma come si fa a non stimarlo fino in fondo, proprio come creatore d’arte vera? Già nei Buddenbrook si sente la costruzione razionale che va sciogliendosi nei capitoli finali. E continuava, con una splendida lezione sull’autore tedesco parlando del piccolo Hanno e della sua fine, tirando in ballo Schopenhauer, il wagnerismo e Bismarck. Infine Croce e la critica crociana che produssero indubbi danni alla storia della letteratura dicendo: “questa è arte e questa è solo letteratura”.
Poi insisteva dicendo di credere che la magniloquente noia che un Mann propone con i suoi enciclopedici libri costruisca un qualcosa di pienamente artistico. Naturalmente, proseguiva, esiste pubblico e pubblico e che lui non credeva che tutta l’arte sia per tutto il pubblico sostenendo che il discorso avrebbe potuto essere esteso domandandosi: quali autori sono alla Mann e chi sarebbe quello opposto a Mann? Omero, Dostoewskij o Collodi? La pretesa razionalizzante non si fonde mai con l’emozione? Invitando a fare mente locale su Dante.
Indubbiamente Volteur non aveva rubato la sua fama: e mi apparve subito di una buona spanna superiore agli altri conosciuti per dibattito diretto o soltanto letti in altri interventi in questa comunità che mi andava piacendo sempre di più.
Mi affrettavo quindi a rispondere anche se il mio impegno nella comunità rubava molto tempo al mio solito lavoro. Scrissi: “ Mio Dio, non se ne esce più e gli impegni sono tanti(…)Risponderò all’impronta semplicemente per dire che su cosa sia l’arte si discute da tempo senza mai venirne completamente a capo. La tesi che raccoglie maggiori consensi è quella che artista è colui che sappia provare e trasmettere al fruitore delle sue opere l’emozione. Quando sento dire che Eco “mi fa vivere nell’abbazia” mi viene da pensare che anche gli autori di mediocri film western o dell’antica Roma sanno farci vivere nel paesino dei pistoleri e nel Colosseo. Ma con l’arte cosa hanno da spartire?
Perché un narratore vero scrive un romanzo? Non certo per raccogliere notorietà o per vantarsi nel condominio di averlo scritto. Un narratore vero, ossia un artista, scrive perché ne sente il bisogno, perché ha qualcosa da dire, ha qualcosa di cui sfogarsi. Naturalmente deve farlo bene, possedere alcune qualità: TALENTO INNATO, MESTIERE (ossia, tecnica), CULTURA, SPIRITO D’OSSERVAZIONE e CAPACITA’ DI PROVARE EMOZIONE E DI TRASMETTERLA.
Di autori molto noti e validi, tranne Eco, non conosco nessuno che dalla saggistica passi alla narrativa. Di solito avviene il contrario perché il talento artistico non s’inventa né s’improvvisa. Ma chi ha talento deve acquistare la tecnica. Un romanzo è costruire un fabbricato, e le tecniche costruttive si acquisiscono leggendo tanto e sapendo leggere. E’ ovvio che chi possiede il talento e l’emozionalità per esprimere ciò che gli brucia il cervello e l’anima, deve architettare la struttura per poter dire in modo ordinato e comprensibile ciò che ha dentro. Di solito il narratore canta i propri tempi o quelli della memoria , oppure precede gli eventi. Poche volte, o quasi mai, scrive su un lontano passato e in fondo Manzoni, che riesce ad emozionare, ambienta, è vero, la sua storia nel Seicento ma le problematiche relative sono ancora attuali nell’Ottocento o facilmente attualizzabili. Ed Eco? Scrive del Medioevo perché ne ha profonda cultura, ma cosa c’è di attuale?
Lui in fondo l’istanza ce l’ha: vuole parlare del Medioevo che ama. Inoltre possiede una lucidissima intelligenza. Entrambe le cose fanno del suo libro un’opera validissima, ma L’UOMO NON E’ AL CENTRO DELLE SUE EMOZIONI, né si deve confondere l’ambiente dell’abbazia con un film di Dario Argento.
Quando Volteur, con articolati e ben condotti argomenti, parla di Mann quale autore raziocinante, a mio parere, non valuta a sufficienza l’emozionalità che lo scrittore tedesco mette nel raccontare le vicende della famiglia Buddenbrok (composta di esseri umani). Sì che c’è in Mann emozione e capacità di trasmetterla. Naturalmente nessun narratore riesce a darci continuamente emozione. Deve anche occuparsi di costruire pilastri, travi e solai per reggere l’emozione. E li costruisce (questo è il cosiddetto “mestiere”, ovverosia la tecnica). Se poi… i solai restano vuoti di emozione tranne che per il giallo o l’horror, o esibizione di cultura, è lecito concludere che Eco (perché lui è l’oggetto del nostro dibattito) meglio avrebbe fatto a scrivere, con la sua ben nota bravura, uno stupendo saggio sulla vita in un abbazia medievale!
Tanto ancora ci sarebbe da dire, ma qui faccio punto e basta. Grazie a tutti.
Solo pochi giorni e Volteur si rifaceva vivo quando io, incoraggiato dalla buona accoglienza in comunità e per fare una cortesia a Seneca, incominciavo ad inserire, capitolo per capitolo, un mio breve romanzo. Scriveva: Bisanzio, che ne pensate di un artista quale Piet Mondrian? E’ freddo? Non esiste secondo lei un lato squisitamente umano in ciò che è asetticamente inumano, proprio per il dramma della sottrazione? Un’opera di Mondrian è il terrore bianco e senza nome che ci viene in dono dal domani; “Voglio dipingere come una macchina, voglio che sparisca del tutto il tratto del pennello”, avrebbe detto in tempi più recenti Roy Lichtenstein; forse lei conosce la sottile ironia in tema di disumanità dell’arte di Kostabi? Ahi, l’uomo muore e noi officiamo un funerale al suo glorioso passato: che necrofilia nostalgica questa emozione! L’emozione è una parola che non appartiene ai vocabolari a venire”.
In sostanza Volteur intendeva riprendere la discussione sull’emozionalità spostandolo, però, ad un’altra forma d’arte, quella pittorica. Rispondevo immediatamente:Volteur,(…) che visione pessimistica che hai della vita e del futuro! Io non la penso così seppure sono d’accordo con te che i nostri figli vivranno, con ogni probabilità, in un mondo peggiore del nostro, preda dell’imperante capitalismo e dei suoi ossessivi tecnicismi. Però sono convinto che non potranno mai fare a meno di emozionarsi, magari solo per un semplice innamoramento sia pure ‘virtuale’. Indubbiamente apparteniamo, per dirla pomposamente, a due scuole di pensiero diverse. Entrambe sono da rispettare a meno che una delle due non ceda all’altra, una volta sentitasi in torto (c’è sempre tempo per tutti).
Per quanto riguarda Mondrian, debbo dirti che mi è sempre piaciuto molto e non lo trovo affatto freddo. L’Astrattismo olandese è razionale e si basa sulla purezza della forma ridotta a pura geometria nel piano, ma Mondrian era convinto che l’essenza stessa della realtà potesse essere rappresentata solo attraverso mezzi astratti. Ma è sempre la realtà, con le sue emozioni, che rappresenta. Infatti il fruitore, colto o no, spesso riesce ad emozionarsi di fronte all’accoppiamento di di linee e colori. Per quanto riguarda Lichtenstein con la sua pop art, derivata dall’espressionismo astratto che è pieno di emozione, conduce operazioni artistiche nella sfera delle situazioni coinvolgenti l’uomo della strada e quindi rappresenta la realtà della vita americana di massa ed odia (e l’odio non è una forte emozione?)l’ossessiva presenza della pubblicità di prodotti della civiltà consumistica. E allora, Volteur? Pensa che artisti come loro tendono a superare la funzione strettamente estetica dell’opera d’arte. Se fai mente locale (tornando a Eco) che lo scrittore di Alessandria nella prefazione al Nome della rosa afferma:”Trascrivo senza preoccupazioni di attualità. Negli anni in cui scoprivo il testo dell’abate Vallet circolava la persuasione che si dovesse scrivere solo impegnandosi sul presente per cambiare il mondo. A dieci e più anni di distanza è ora consolazione dell’uomo di lettere che si possa scrivere per puro amore di scrittura…” Ecco perché Eco, secondo me, è freddo e non lo sono Mondrian e Linchtenstein (infatti tendono esattamente al contrario di ciò che muove Eco) ed ecco perché non ne vado matto, pur apprezzandone la cultura e la bravura”.
Sollecita ed intrigante la risposta: (…) Aggiungo qua, e ripeto, che condivido le critiche che lei muove ad Eco, scrittore che mal sopporto, ma ribadisco che non vorrei che ciò si generalizzasse in un rifiuto astratto della razionalità, in nome di ancor più astratti contenuti, che non sono probanti. Detto questo, non credo proprio che la pop art abbia espresso odio nei confronti della società di massa, tutt’altro: credo ne sia rimasta altamente affascinata e totalmente coinvolta, credo la abbia magnificata semmai, che non l’abbia affatto rifiutata, che abbia contribuito in maniera significativa a crearla, a mitizzarla. Andy Warhol, che ne fu il geniale e incomparabile profeta, è l’inventore della business-art (cme lui la chiamava), quell’arte che fa del guadagno stesso un’opera d’arte: Warhol che girava con la polaroid a tracolla per oggettivare nell’ovvio il mondo dell’ovvio, l’artista che si diceva innamorato del registratore a cassette (tape recorder, che nostalgia, uh, l’emozione!), che teneva sempre accesa la televisione e il cui studio era totalmente rivestito di carta stagnola e argento. Warhol amava alla follia la società di massa, adorava il consumismo; la sua arte anzi è il consumismo, è il consumismo elevato ad arte, o l’arte abbassata a consumismo, ma senza pregiudizi, senza nostalgia, senza sovraccarichi culturali o peggio, ideologici: è la privazione di emozioni, è l’oggetto, è die selbst sacht, la cosa stessa, l’icona, l’in-sé.
E’ da questa amniosi della mente, da questo punto di vista interno che noi possiamo vedere spalancarsi, oltre l’utero in cui l’arte pop ci cala, il futuro che noi stiamo creando, che stiamo amando, forse con inconsapevole e colpevole sbadataggine, chissà?
Minaccioso, o non minaccioso? Perché interpretare un’opera d’arte , se il prezzo è lo stravolgimento: il pop rifiuta un’interpretazione perché è la sintassi del nuovo, e la sintassi è ciò che è perché è così, e non c’è bisogno di spiegarsela; semmai bisogna usarla.
Piaccia o non piaccia Warhol adorava la plastica, il non-umano, il bianco, e li adorava per davvero, senza secondi fini, senza esprimere ‘critiche’, senza nessuna morale: è per noi possibile, in Italia, comprendere questo atteggiamento che non ha fronzoli, non ha inutili piagnistei, e non si rivolge a nessuna divina provvidenza? E’ possibile un simile puro immacolato originario “‘bianco”? Con stima.
Ancora più immediata partiva la mia conclusiva replica: (…)Ricambio la stima che mi manifesta. Ma la stima va meritata e non bisogna pensare di poter risolvere in una paginetta problemi immensi come l’interpretazione di movimenti artistici e artisti. D’altra parte un uomo degno di sentirsi e di essere “colto” deve valutare le cose da più angolazioni. Vorrei quindi riportare la discussione da dove è nata. Si parlava di Eco narratore ed io ho sostenuto, con un articolo pubblicato nella “terza” di un quotidiano, che Eco sarà sicuramente un grande scrittore, ma non un artista. Lei mi sembra d’accordo su questa mia opinione che, all’epoca,riscosse notevolissimi consensi.
Poi mi chiede se Mondrian è freddo. Le ho risposto di no argomentando, credo, tale mia opinione in modo ragionevole. Mi fa poi scivolare il discorso sulla pop art e in particolare su Warhol. Io, che quando scrivo d’arte (e non quando la faccio) cerco di essere raziocinante, ho cercato, per quanto è possibile, di riassumere gli intenti dell’arte pop che tende, attraverso l’uso di immagini rappresentanti la pochezza e la volgarità della moderna cultura di massa, a sviluppare e suggerire una percezione CRITICA della realtà più efficace di quella dell’arte precedente. Questo mi sembra ormai storicizzato. Quindi la pop non ha certo simpatia per l’ossessiva pubblicità dei prodotti di largo e imposto consumo anche se la usa guidata dal furbissimo gallerista Leo Castelli. La pop, però, non è, come lei sa benissimo, un tutt’unico bensì un vastissimo mosaico a volte discordante e Warhol, che è stato anche regista, l’ha esasperata (e sfruttata) riproducendo immagini in serie per, credo, raffigurare la banalità del sistema. Poi sulle ascendenze della pop(e sulle sue discendenze) si potrebbe (e si dovrebbe) scrivere, anche noi per la nostra discussione, centinaia di pagine e, probabilmente, non ne caveremmo un ragno dal buco. Per quanto riguarda, infine, i ‘piagnistei italiani’, ringrazi che ancora esistono perché ci consentono di non disumanizzarci completamente. A parte il fatto che abbiamo (o abbiamo avuto) fior di new dada italiani come Baj, Mario Colucci(che lei non conoscerà, ma forse è il migliore), Rotella, Del Pezzo, e il mio amico (mi scusi se lo dico) Mario Persico che hanno realizzato splendide opere dove l’emozionalità non è assente, tutt’altro.
Davvero un bel dialogare e ne ero contento quando improvvisamente appariva un commento, di tenore e qualità ben diversi dai precedenti, al mio secondo racconto inserito in comunità. Diceva, in tono provocatorio, di voler conoscere dov’era stato pubblicato il racconto così avrebbe potuto portare lì anche i suoi che aveva cestinato. Continuava asserendo di essersi annoiato e di essere stato felice solo alla fine perché…era finito. Aggiungeva di essere lo Scassatore (tale il nick che aveva scelto) e di non avermela a male.
Era il primo impatto con la stupidità, l’astio e l’invidia che tanto spesso avrei trovato in seguito nel mondo virtuale, ed ero incerto se rispondere. Indubbiamente lo Scassatore, di nome e di fatto, non meritava l’onore di una risposta. Ciò nonostante, non riuscivo a fare a meno di scrivere: Che pensi che mi sia offeso?(…)ma tu mi hai fatto una domanda: vuoi sapere dov’è stato pubblicato? Ti accontento subito. Il racconto fa parte di un mio romanzo pubblicato nella collana…dell’editore…(nomi parecchio noti). Vuoi sapere chi c’è nella collana? Ti cito alcuni dei 62 presenti. Sono: Repaci, Beckett, Burroughs, Paplo Neruda, Proust, Kerouac, ect. Vuoi provarci ad essere inserito con i tuoi racconti? Fallo pure, poi mi farai sapere. Va bene?Saluti.
Appena inserita la risposta, mi accorsi che Seneca era piombato nella discussione e l’aveva maltrattato dicendogli che non si era mai permesso di intervenire ironicamente nei colloqui molto eruditi e seri fra Bisanzio e Volteur perché si tratta di un mondo che sfortunatamente non appartiene né a lui né a Scassatore. E concludeva severamente ammonendo il malcapitato a non farlo più perché non voleva assolutamente che la comunità perdesse i suoi due iscritti più colti per colpa di interventi come quello che criticava che potevano solo avere l’effetto di un elefante in una cristalleria.
Decisamente un intervento gratificante, ma che comunque faceva comprendere che in comunità non erano tutte rose e fiori come inizialmente apparso. E gli sviluppi successivi lo avrebbero ampiamente dimostrato.
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