Da "Contrappunto Borghese" di Bruno Cotronei
Guido è rientrato stravolto, Sergio non ha mai visto il padre così agitato. Ha abbracciato lui, Matilde e persino Teresa, la domestica, quasi fossero fantasmi e ha eseguito un accurato sopralluogo ai vetri infranti delle finestre, a piccole fenditure nei tramezzi delle stanze, a larghe zone d’intonaco caduto dai muri portanti che evidenziano i sottostanti cubi di tufo intatti, alla doppia parete di legno ripiena di sabbia nella cantina ed ha deciso la partenza. Non può, ha detto concitato, lavorare tranquillo con l’ansia di trovare al suò ritorno i propri cari seppelliti sotto le macerie del palazzo colpito dalle terribili bombe americane. E stata troppo violenta l’incursione di dicembre, la prima attuata di giorno e non limitata ad obiettivi di importanza strategica, ma anche contro i civili. Ormai gli Alleati sono all’offensiva dovunque: la Cirenaica è persa, la Tunisia seriamente minacciata, la 6a armata tedesca è stata accerchiata a Stalingrado, Malta è di nuovo forte. Matilde non comprende bene il peso di quei luoghi e di quei fatti, e protesta: non andrà via se Guido non li segue. Sergio è dispiaciuto, non vuole abbandonare la casa, il giardino, gli amici. In definitiva per lui la guerra è solo un grande gioco: il suono ululante delle sirene, la discesa nello scantinato, il rumore assordante ed eccitante della contraerea dei Camaldoli, la ricerca alle prime luci dell’alba delle schegge dei proiettili che vanno ad arricchire la sua già fornitissima collezione con la quale si pavoneggia nel quartiere. Gli scoppi, gli incendi, i palazzi crollati, i morti per lui sono cose remote: il porto è distante, le fabbriche lontanissime. Che cos’è la guerra? Un grande film. Anche l’ultima incursione, le fragorose e vicine deflagrazioni, i vetri infranti, la mancanza di corrente elettrica e il buio nel domestico rifugio, il sussultare della terra e l’oscillare del fabbricato, nient’altro che una maggiore occasione di mostrare il suo coraggio, la sua temerarietà rispetto ai coetanei piagnucoloni. No, non vuole andarsene e fa fronte unico con la madre contro l’assurda pretesa di Guido. Tuttavia non ce nulla da fare: il padre è stato categorico e in capo ad una settimana la Topolino seguita dal camioncino della ditta, carico di casse, bauli e valige, li conduce a Formia. Sergio, con il mutevole e caratteristico modo di fare dei bambini è in festa: si gira continuamente nel ristretto abitacolo della piccola automobile e dà di gomito a Manù, la cuginetta di soli due anni più grande di lui, che gli è accanto, sbircia fra le teste dei genitori che siedono avanti e dall’opaco finestrino della capote per non perdere alcunché di quel viaggio, di quei posti sconosciuti. Attraversano la martoriata periferia della città con la più parte delle saracinesche dei negozi abbassate, i carrettini delle masserizie di coloro che sfollano, i cavalli denutriti, le ruote striscianti e saltellanti contro il selciato sconvolto, le insegne abbattute, i palazzi sventrati, case senza porte o finestre come occhi vuoti con i mobili seppelliti dai calcinacci e dalla polvere, gabinetti scoperti e pareti gonfie di crepe che si mostrano alla vista di chiunque come sezioni di un plastico di strani, allucinanti edifici. Qualche perplessità frena l’agitazione lieta di Sergio, ma il doppio filare degli alti alberi della via Appia, i bastioni del muro di cinta di Capua, il ponte sul fiume Voltumo e i saliscendi verso Sessa Aurunca fra vigneti ed oliveti rianimano il bambino che di tutto chiede il nome e di ogni cosa vuole sapere la storia. La testa non sta ferma un minuto e si protende fra quelle dei genitori e Manù e i pericolosi ferri del telaio della capote. Il Garigliano appare guizzante dei mille riflessi del sole radioso e scorre tortuoso fra pioppi e salici. Grande è l’emozione del ragazzo quando Guido gli dice che ormài sono nel Lazio, nella regione di Roma, la capitale, la sede del Papa, di Mussolini, del Re! Quanto è distante Roma? Quanto tempo ci vuole per giungervi? E perché non ci vanno subito? E scatenato Sergio, che bello quel viaggio! Fortunatamente un convoglio militare attira la sua attenzione: i carri armati, i cannoni, i camion pieni di soldati lo incantano e poi il paesino di Scauri con la lunga spiaggia e infine Formia.
La Topolino e il camioncino si fermano davanti ad un albergo, “L’Imperiale”, che si affaccia su minuti e denutriti giardini pubblici. Tutti scendono compresi Teresa e l’autista e aiutati da facchini scaricano il bagaglio. L’albergo è modesto e piccolo e tutt’altro che imperiale, ma le stanze sono comode. Non c’è servizio ristorante e Guido li conduce a una trattoria vicina tutta ricoperta da un’immensa quercia da cui prende il nome e che dà sul mare limpido, calmo e il dolce rumore della risacca si confonde con i caratteristici suoni della cucina: piatti, bicchieri, pentole sfrigolanti e gli ordini lanciati dai camerieri ai cuochi fra odori appetitosi che si fondono con quello intenso e rinvigorente della superficie salata. Dov’è la guerra, dove sono i bombardamenti? Non è uno sfollamento, ma una bella vacanza! La zuppa di pesce, il gelato squisito, che pacchia! pensa Sergio, ma la guerra c’è, se ne accorge quando nota che l’albergo è quasi tutto requisito da militari in divisa e la sala da pranzo è diventata la mensa ufficiali. Sono belli i soldati italiani con le divise grigioverdi, alti, bassi, grassi, magri, fanno tutti un brillante effetto. Un tratto dorato sulla manica vicino al polso significa sottote nente, due tenente, tre capitano, uno più largo ed uno più piccolo maggiore, e uno largo e due piccoli colonnello, ed altro non apprende il bambino curioso perché il colonnello, un uomo di media corporatura, dai radi capelli e curati baffetti brizzolati, è il più alto grado presente a Formia e comanda il reggimento. Pare un buon padre di famiglia, quasi un nonno, ma di stampo particolare con le spalle ben erette, l’andatura marziale, il mento proteso in avanti. Tuttavia non è un Mussolini in miniatura: lo sguardo è dolce, bonario e gli ordini che impartisce ai suoi ufficiali sono pronunciati con voce gentile e atteggiamento benevolo.
Guido deve ripartire, tornerà ogni sabato, e per Sergio inizia un periodo meraviglioso: la mattina insieme con Manù nella vicina scuola, poi a pranzo alla trattoria ricoperta dalla grande quercia dove il razionamento, le tessere annonarie sembrano appartenere ad un altro mondo, il pomeriggio i compiti da una maestra buonissima che pare non avere età su un vecchio tavolo fra credenze ripiene di piatti, bicchieri, terracotte e pezze di stoffa, e la macchina per cucire sulla quale è sempre china un’anziana donna e i dettati, le lezioni di storia e geografia, i problemi di aritmetica prendono il ritmo ed il suono del ticchettio senza fine dell’ago che s’immerge nel foro della placca scorrevole azionato dal pedale che fa girare come in un moto perpetuo la grande ruota di ghisa. Una sonnolenza scende sugli alunni e smorza le primitive risate o qualche tentativo di birboneria e il sole tiepido da eterna primavera invoglia tutti al tranquillo e proficuo studio. Quando la signorina li congeda i ragazzi rimangono un attimo come imbambolati e poi si precipitano giù per la ripida scala e attraverso i vicoletti tranquilli sciamano, dando fondo alle riposte energie, nei giardinetti, sul molo del porticciolo, sulla striscia di spiaggia dalla rena con granelli grossi e scuri o nell’unico cinema dove si entusiasmano alle imprese di Amedeo Nazzari o di Fosco Giacchetti.