| | INTORTE SPIRALI D'EROTISMO Cap. VIII | |
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Bruno Admin
Numero di messaggi : 3063 Data d'iscrizione : 27.10.08 Località : Napoli Personalized field :
| Titolo: INTORTE SPIRALI D'EROTISMO Cap. VIII Gio Feb 26, 2009 12:33 pm | |
| Cap. VIII “Parole quasi nobili”, pensa Sergio, mentre facendo forza sulle braccia solleva il corpò e appoggia la testa alla spalliera del letto. “Che ora sarà, le due, le tre?” E ancora notte fonda di sicuro. Rettangoli bui disegnano le finestre e, per contrasto, le pareti sporche dipinte a calce, gli appaiono più bianche, quasi immacolate. “Che si può fare qui?” Solo pensare, abbandonarsi ai ricordi, come sfogliare le tante pagine del grande libro della vita, della propria esistenza, ma la realtà contingente non sempre lo permette: è un recluso, chi lo avrebbe mai immaginato? Perché? C’è forse qualcuno che vuole prevedere per se stesso cose inattese e spiacevoli? Sì, per essere ci sono, quanta gente si angustia la vita a fantasticare sugli accadimenti più terribili e malevoli. Ma sono i pessimisti, coloro che anche nei momenti più felici sono convinti che presto avverrà qualcosa di negativo. Non è mai stato il suo caso, lui è sempre stato un ottimista. Le disgrazie lo hanno ogni volta colto di sorpresa, impreparato: come quando morì il bambino, o quando il terribile incidente lo ridusse un handicappato. Fino all’ultimo ha sempre sperato in una svolta positiva, e quando non s’è verificata il carattere gli ha fatto superare presto i brutti momenti e cogliere di ogni situazione, anche le più disperate, i lati positivi. Solo così si riesce a tirare avanti e a non essere di peso agli altri, anche se a volte forse per chi ci è vicino, sarebbe meglio sparire.
“Ci vuole più coraggio a sopravvivere nei periodi difficili o a suicidarsi?”, si chiede agitandosi nel letto cigolante e cerca di ignorare i suoi compagni che continua a ritenere occasionali. “Non lo so!” Quell’interrogativo se lo era già posto quando i medici gli avevano comunicato che era diventato un paraplegico e lo sarebbe rimasto a lungo se non per sempre. Quando morì il bambino nel dolore straziante di quei giorni drammatici non lo aveva minimamente pensato: doveva rimanere vicino a Silvia, alla sua amata compagna che di certo soffriva molto più di lui. Aveva un compito ben preciso, la sua vita avrebbe avuto ancora uno scopo non egoistico, ma ben diversa era la condizione dopo l’incidente nei confronti della moglie: le sarebbe stato di peso? l’avrebbe condizionata? e fino a che punto?
Silvia, i pensieri convergono ineluttabilmente su di lei e sulla vicenda che l’ha condotto in quel carcere dalla fama sinistra e nella squallida corsia. Chi ha ucciso Nino? che speranze ha di cavarsela? L’avvocato giunto nel pomeriggio con la sua aria indaffarata ed importante mostrandosi perfettamente a suo agio nella stanzetta spoglia destinata ai colloqui detenuto-difensore, ha abbandonato le grosse chiappe sulla sedia zoppicante e, tendendo verso Sergio le bianche mani curatissime, gli ha offerto una sigaretta, poi, dopo averla accesa, ha steso sul tavolo rettangolare alcuni fogli passatigli dal suo aiutante rimasto rispettosamente in piedi e gli ha comunicato che il giudice Fucci, pur mostrandosi sinceramente dispiaciuto, considera chiuse le indagini. Sergio ha avuto un attimo di smarrimento e lo sguardo vuoto ha vagato sui muri segnati da lesioni antiche e le mani hanno stretto con forza il bordo del tavolo e una piccola scheggia si è conficcata nel palmo, poi si è ripreso, ha guardato quasi con ira il giovanotto che lo osservava con curiosità e decisamente ha chiesto al suo difensore:
«E Panzi, lo ha assunto?»
«Sì, ha promesso di entrare subito in azione», si è affrettato a rispondere il legale che, dopo qualche momento di esitazione, ha proseguito: «E lei non ha nient’altro da aggiungere?»
«Avvocato, è bene chiarire una volta per tutte che io del delitto non ne so nulla e se lei continua a dubitare della mia sincerità, sarà meglio che rimetta il mandato! Quanto mi ha comunicato, che la Procura ritiene chiuse le indagini, è molto grave, e ritengo sia suo compito scoprire possibili colpevoli, naturalmente usando irìvestigatori privati di fama come Panzi. Non è mia abitudine non assumere responsabilità, e non sono stato io ad uccidete Peri, benché avrei potuto farlo. Quindi non accetterò mai di dichiararmi colpevole, anche se dovesse fruttarmi una pena più lieve, lo tenga ben presente!’>>
«Professore, si calmi e mi comprenda bene. Lei fortunatamente non ha esperienza di codice e di procedura penale, èmio preciso dovere seguire questa linea e non perché non creda alla sua innocenza, ci mancherebbe. Debbo però valutare ogni cosa, anche i possibili sbandamenti che episodi del genere possono arrecare alla mente umana, sia pure quella di un matematico. Stia tranquillo che farò di tutto per scoprire nuove piste e Panzi sarà prezioso, ma debbo anche approntare un’altra, una seconda linea di difesa... »
«Non quella della mia colpevolezza!»
«A volte lo si fa, ma lei mi ha chiarito il suo pensiero, ne prendo atto... se ha incaricato me di assumere la sua difesa vuol dire che mi conosce perlomeno di fama. Mi ha altresì autorizzato a servirmi di investigatori. È in buone mani,. benché il caso non si presenti facile... Non glielo avevo ancora detto, ma non mi sono limitato a Panzi, ho anche interessato un commissario amico».
Ha sollevato le chiappe e con sussiego, seguito dal giovinotto• silenzioso che portava la pesante borsa di pelle, èscomparso dietro la porticina di ferro. Sergio è convinto che la sua unica speranza rimane Panzi, non ha molta difucia nell’avvocato, ma è indubbiamente il migliore della città e i giudici lo rispettano. La logica del ragionamento, la sua mente di matematico e di antico e valente giocatore di bridge non gli concedono altre possibilità, ma qualcosa di imponderabile, forse il suo sesto senso gli suggerisce che pure il caso può giocare la sua parte, non fosse altro che per compensazione. Non è stata una strana coincidenza la morte violenta di Nino dopo solo venti giorni dal loro scontro? E’ stato il destino, una fatalità? Se così è, ancora la sorte avrebbe potuto dargli una mano questa volta. Ecco il suo invincibile ottimismo!
Ma sarebbero trascorse ore, settimane, mesi nell’ozio forzato, in quell’ambiente allucinante! Come avrebbe fatto a resistere se già il terzo giorno (se ne rende chiaramente conto) fa partorire alla sua mente considerazioni non del tutto degne di lui. Forse è meglio dimenticare il presente e rifugiarsi nei ricordi di tempi lontani, perlomeno nelle lunghe notti insonni. Sarebbe stato un bene a patto di poter richiamare la realtà, appena necessario, con piena consapevolezza.
Cosa stava ricordando prima? Ah sì, del comunicato di Badoglio sull’armistizio: sembravano parole nobili con l’accenno all’intento “di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla nazione”. Che sfacciataggine! Come se ogni cosa fosse stata accuratamente predisposta per la difesa della capitale o delle nostre truppe nel Nord del Paese e all’estero! Invece si lasciava l’intera nazione in preda ad eserciti stranieri e non ci sarebbe voluta molta fantasia per supporre che proprio sul suolo italiano si sarebbero violentemente scontrati. Un comunicato del genere avrebbe avuto un significato se almeno si fosse preservata l’Italia centromeridionale, dove le forze nazionali avrebbero potuto scacciare quelle tedesche, peraltro in buona parte impegnate dagli Alleati sbarcati il 3 a Reggio Calabria e che si accingevano a intervenire a Salerno. Invece nessuna preventiva netta disposizione, ma solo l’assillante preoccupazione di salvaguardare l’incolumità della famiglia reale e delle maggiori personalità! Nel ministero della Guerra allogato nel munitissimo palazzo Baracchini, si trasferirono precipitosamente il Re, la Regina, il Principe Umberto, il Seguito e Badoglio che, dopo aver letto lo storico comunicato, non trovò nulla di meglio o di più importante da fare che andarsene a letto. L’endemica assenza di valutazioni non illuminate — sarebbe stato chiedere troppo alla nostra classe dirigente — ma se non altro realistiche fece “sperare” i generali Carboni e Ambrosio che i tedeschi se ne andassero senza combattere, solo perché nelle prime ore della notte mancavano notizie di iniziative germaniche, ma poco dopo movimenti della 3a Panzer Granadiere e della 2a Paracadutisti mise in angoscia tutti i nostri maggiori responsabili e intorno alle cinque del mattino, ai primi chiarori dell’alba, una vergognosa colonna mosse verso Pescara: ne facevano parte Ja Famiglia Reale, il Capo del Governo, generaloni e favoriti vari. Solo Umberto di Savoia ebbe qualche scrupolo e affermò più volte che sarebbe stato meglio se fosse tornato indietro, ma Badoglio prima e l’ex Re soldato poi con una sorprendente energia che sarebbe stato meglio applicare altrove, lo dissuasero. Ad Ortona a mare sulla corvetta Baionetta in una squallida gazzarra si imbarcarono diretti a Brindisi, che era ancora nominalmente in possesso italiano, ma già dietro le linee Alleate. Sul molo della cittadina abruzzese una folla di duecentocinquanta alti ufficiali con attendenti, familiari e beni preziosi si contesero il privilegio di far parte dei cinquantasette eletti alla fuga via mare. Il caos fu indescrivibile, i favoritismi aberranti. Gli altri rimasero a terra indirizzando imprecazioni e minacce agli imbarcati e poi disperdendosi alla ricerca affannosa della personale salvezza.
Che importava a questa gente, che avrebbe dovuto rappresentare il meglio dei nostri comandi, del milione di soldati di stanza in territorio nazionale, dei 900.000 dislocati fra Provenza, Corsica, Jugoslavia, Albania, Grecia, Dodecaneso e Russia? Nulla! Erano tutti presi da personali preoccupazioni, il resto si arrangiasse! Comandi di divisione, di brigata, di compagnia senza chiare disposizioni: alcuni non sapevano nemmeno che i tedeschi non erano più loro alleàti e gli Alleati i loro nemici! Casi sporadici di eroismo di militari e di civili non riuscirono ad evitare la rapida occupazione dell’Italia, fino al fronte, da parte dei germanici e, in molti casi, la loro feroce vendetta, ma principalmente la miseranda immagine che il nostro paese, dietro il deviante esempio dei capi, diede di sè: un fuggi-fuggi.quasi generale, un “si salvi chi può” diffuso oltre ogni limite del lecito e un bottino di quasi 600.000 prigionieri, di più di 1.200.000 fucili, 38.000 mitragliatrici, 9.000 cannoni, 950 carri armati, 4.000 aerei, 280.000 tonnellate di munizioni, 15.000 automezzi, 67.000 muli e cavalli, 190.000 tonnellate di ferro e tanto vestiario militare. E queste sole cifre lasciano da pensare se si aggiunge una flotta ancora potente anche se cronicamente mancante di carburante! Il 23 settembre, un pallido Mussolini, liberato il 12 dai tedeschi, costituisce un governo repubblicano fascista. Una colossale fotografia di vigliaccheria nazionale che parte dai vertici, ma che in particolare non investe l’italiano di persona in contingenze meno apocalittiche.
“Chissà cosa avrebbe fatto un Nino in una situazione del genere, a quali vette avrebbe portato la pusillanimità se èfuggito in modo tanto vergognoso alla richiesta di soddisfazione di un paraplegico!”, pensa Sergio rigirandosi nel letto scomodo in quell’ambiente che di ora in ora gli diventa sempre più insopportabile. | |
| | | Bruno Admin
Numero di messaggi : 3063 Data d'iscrizione : 27.10.08 Località : Napoli Personalized field :
| Titolo: Re: INTORTE SPIRALI D'EROTISMO Cap. VIII Gio Feb 26, 2009 12:35 pm | |
| Il Sergio bambino non può conoscere nè rendersi conto della tragedia nazionale, si limita a constatare con stupore che dopo le ore di euforia che hanno colto ognuno a Fiuggi, dopo la notte folle nella quale anche ai ragazzini è stato permesso di fare le ore piccole, il risveglio è stato ben diverso, I visi preoccupati, le riunioni fra i clienti dell’albergo e i proprietari, la rarefazione dei già pochi carabinieri di stanza nella cittadina termale e la comparsa di numerosi soldati tedeschi che pattugliano il centro in perfetto assetto militare con i mitra a tracolla e l’atteggiamento ancor più severo del solito, gli fanno intuire che la guerra è tutt’altro che finita. Vorrebbe interrogare Guido, sapere, comprendere, ma il padre è troppo indaffarato e ha la stessa aria preoccupata degli ultimi tempi trascorsi a Napoli. Rimangono rinchiusi tutto il giorno in albergo e danno sfogo alle esuberanze dell’età nel parco del Villa della Salute, ma ben lontani dall’ingresso e sotto la stretta sorveglianza di una turbata Teresa.
A sera una notizia giunta per chissà quali canali mette tutti in agitazione: gli ospiti dell’albergo e i proprietari nel buio della notte incipiente si dirigono dapprima in gruppi preordinati, poi in una notevole confusione verso il garage che èsistemato in una piatta costruzione alle spalle del bungalow centrale. Ogni gruppo si prende cura del o dei suoi box e si affanna a tirar fuori le automobili e a cercare di nasconderle nel modo migliore. Gli Spiga conducono la Topolino nella zona meno folta del parco, la meno frequentata perché leggermente paludosa, che è separata da un vecchio muro dalla carrabile che conduce verso Fiuggi alta. Alla fioca luce di torce elettriche la ricoprono di rami e di foglie e le ruote quasi scompaiono in profonde buche riempite di terriccio sistemato da mani rese infaticabili e veloci dalla paura. Il vero problema però è il camioncino che, data la mole, è quasi impossibile mascherare. Guido ha un’idea che sembra brillante: eleva aiutato da Matilde, Teresa, Sergio e Manù, una catasta di ciocchi proprio sull’ingresso del box così da far apparire tutto l’ambiente ricolmo di legname da ardere.
L’andirivieni affannoso, l’incrociare continuo gli altri che hanno pari preoccupazione, il darsi da fare come una massa di congiurati suddivisi però in gruppi autonomi e quasi gelosi dei propri segreti, il muoversi impazzito di diecine di punti luminosi, il vedere fiochi coni di luce mostrare qui un paragango, lì una fiancata di automobile, il raccogliere rami, fogl ie, terra e sterpi, il lavorare fianco a fianco con i grandi e principalmente con il padre, entusiasma Sergio che, pur avvertendo che si tratta di cose serie se non drammatiche, o forse proprio per questo, ricomincia ad apprezzare la guerra e, quando tutto è finito, prova un senso di delusione che presto si stempera nel sonno profondo nel quale piomba nel letto accanto a quello di Manù.
Il sorgere del nuovo giorno che si presenta con il solito sole splendente nel cielo pulito e senza nubi, lascia nel bambino il dubbio che si sia trattato di un sogno, ma rispettoso delle consegne, evita di chiedere, anche se ne ha una voglia assillante. Presto però i suoi interrogativi trovano risposta nel gran movimento che si determina all’ingresso del Villa della Salute e sulla scalinata della direzione: un gruppo di soldati germanici che imbracciano minacciosi i corti mitra hanno bloccato ogni uscita. Un elegante ufficiale biondo che indossa una divisa mai vista prima e recante al braccio una fascia rossa con una svastica campeggiante in un tondo bianco e due s stilizzate affiancate come folgori sul bavero della giacca nera, domina per statura e autorità un brigadiere dei carabinieri che si affanna a tradurre frasi dal suono duro che si stemperano di tanto in tanto in parole italiane pronunciate fra un sibilo di z e di f dalla bocca sottile del tenente semicoperta da baffetti biondi.
La caccia agli automezzi, tutti da requisire per le forze di occupazione germaniche, ha inizio. L’Augusta dei Calabria èla prima ad essere trovata, seguono cinque delle sette dei Santomaso e via via quasi tutte le altre che vengono allineate e condotte via, ma quelle degli Spiga sono state tanto ben nascoste che non fanno parte della malinconica colonna che si avvia verso il “Grand Hotel delle Fonti”, nuova sede del comando tedesco. La complicità che ha affratellato per quanto possibile fra un gruppo di italiani, gli ospiti dell’albergo, già sembra andare in fumo: occhiate invidiose, frasi mormorare e subito interrotte alla presenza dell’interessato, fanno seguito a quella specie di lotteria che è stata la requisizione quando ogni macchina trovata ed avviata verso l’esterno passando davanti alla folla muta raccolta sulla scalinata, provoca gesti di stizza e d’invidia. Ma presto un’evidente delazione mette nuovamente tutti d’accordo: i tedeschi ritornano agli ordini questa volta di un capitano che affianca il tenente e con decisione indirizza i soldati verso gli automezzi scampati alla prima ricerca. Anche la catasta che nasconde il camioncino è abbattuta e il radiatore alto e lucido appare mentre l’odore di legno e segatura si mescolano con quello di benzina. Ma il motore non parte: un meccanico militare accerta che manca la calotta dello spinterogeno e il capitano s’infuria e il brigadiere con aria rassegnata traduce che se non verrà fuori entro tre ore sarà fatto saltare l’albergo, ma forse è solo un’esagerazione o un errore di traduzione. Guido è attorniato da uomini e donne che turbano la quiete del la saletta da gioco con concitate pressioni. L’industriale non molla: sembra tornato il legionario, il deciso e coraggioso esponente del Partito quando Mussolini non era ancora al potere, il vessillifero dei pochi oppositori alla politica di alleanza con la Germania, risponde testardamente di no a tutte le richieste minacciose e ai discorsi che tendono a convincerlo anche con la logica di argomentazioni razionali. E furibondo: odia il dover cedere specialmente a stranieri il frutto del suo tenace lavoro e la pavidità dei suoi compatrioti, vorrebbe impugnare la pistola che tiene nascosta e difendere la sua proprietà e la sua dignità fino all’estremo sacrificio, ma improvvisamente, chissà per quali misteriosi processi mentali o inconsci; crolla di schianto e consegna all’albergatore il pezzo mancante rinchiudendosi in un cupo mutismo. Anche il camioncino parte, ma Matilde decide di agire e, accompagnata da Teresa, si reca al comando tedesco da dove ritorna alcune ore dopo con la promessa della restituzione della Topolino munita perdipiù di regolare permesso di circolazione concesso dalla Wehrmacht. La bella signora racconterà di aver impietosito il comandante dicendogli di essere sola e senza mezzi con due bambini piccoli e di aver trovato cortesia e comprensione.
In pochi giorni il Villa della Salute si svuota: anche Fiuggi non sembra più adatta agli sfollati o perlomeno non è adatto un albergo così in vista e così centrale. Alcuni tornano al Sud, altri trovano sistemazione in casette di contadini o in ville di conoscenti, altri ancora si trasferiscono in pensionclne fuorimano. La caccia ora non è più all’automezzo, ma agli uomini che vengono deportati in Germania o reclutati per la neonata Repubblica Sociale Italiana. L’accampamento tedesco vicino alla villa della zia Aida si è dilatato, molti alberi sono stati abbatuti per far posto a nuove tende, autoblindo, panzer e veicoli militari. Recarsi alla villa è diventata quasi un’avventura e comunque consentita solo a donne o bambini. Ai proprietari è riservato un trattamento di favore e di rispetto per i trascorsi di guerra dello zio Fulvio e per la sua pronta adesione, nell’ospedale del Nord presso il quale è ricoverato, al nuovo governo fascista e i cugini più giovani incominciano nelle brutte divise repubblichine a spadroneggiare per Fiuggi e sono tanto invasati che non esiterebbero a far catturare anche Guido.
Gli Spiga, abbandonati da Teresa che ha preferito ritornare a Napoli prima che vi giungessero gli Alleati, hanno trovato alloggio in un alberghetto che mostra i suoi quattro piani stretti quasi come una torre, poco distante dalla via che conduce da Fiuggi fonte a Fiuggi alta. Dal terrazzo si domina un lungo tratto di strada, la gran macchia di verde in mezzo alla quale sorge la zona alberghiera e la collinetta curatissima sulla cui cima sorge lo splendido Grande Albergo Delle Fonti con il suo rigoglioso parco, la piscina e i due campi di tennis. Uno sgargiante vessillo con la croce uncinata gli sventola in cima e spesso si vedono le volkswagen militari e sidecar che a grande andatura ne percorrono il viale di accesso per arrestarsi con la coreografica bruciante frenata nel piazzale antistante l’imponente ingresso. | |
| | | Bruno Admin
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| Titolo: Re: INTORTE SPIRALI D'EROTISMO Cap. VIII Gio Feb 26, 2009 12:38 pm | |
| “Il Quisisana” (così si chiama il nuovo rifugio degli Spiga) è davvero una povera cosa nei confronti del Villa della Salute: poche stanze piccole e umide arredate con modesti mobili di serie, un’angusta sala da pranzo, due ragazzotte per la pulizia ed il servizio e un giardinetto che a percorrerlo tutto bastano venti passi, allietato però da grossi cespugli di ortensie che miracolosamente sono ancora in fiore e le ampie infiorescenze profumate si fanno ammirare per i grandi sepali di colore bianco, rosa e azzurro, blu e viola. La proprietaria, un’ex balia, è una fidata amica dei suoi clienti ed è sempre pronta a tender l’orecchio su ciò che si mormora in paese sulle intenzioni e sui movimenti dei nazisti. Ai bambini non è più permesso di pensare solo al gioco come facevano prima, ma sono inquadrati in veri e propri minuscoli drappelli che a turno sorvegliano la strada alcune centinaia di metri a valle e a monte, pronti ad avvertire gli uomini di eventuali sorprese tedesche.
Sergio svolge con passione il suo compito e ne è orgoglioso e incomincia davvero a rendersi conto di cosa sia la guer ra. Una volta gli è capitato di correre a perdifiato per più di trecento metri ad avvisare dell’arrivo di un gruppo tedesco sospetto, e ha visto i sei uomini (tra i quali Guido) rifugiarsi in un condotto fognario e rimanervi per quasi ventiquattr’ore. Lui, Manù e gli altri bambini hanno portato loro da mangiare e da bere con la circospezione di consumati guerriglieri.
Ora ogni giorno, una o più volte, il cielo si riempie di quei punti luminosi indicanti il passaggio di aerei americani che si recano a bombardare il Nord e spesso non solo il Nord, ma colonne tedesche in movimento sulla via Appia o sulla più vicina Casilina e sovente odono lo scoppio lontano di possenti ordigni. Anche il Quisisana diventa pericoloso e gli Spiga si trasferiscono con carovane di muli, che portano loro, altre persone e i bagagli in un impervio paesetto stretto intorno a un vecchio convento di cappuccini e già rigurgitante di rifugiati. Quei muli che percorrono i sentieri di montagna verso i mille metri divertono Sergio con la loro abitudine a procedere giusto sul margine del precipizio nelle vaste ed aspre pietraie. Ne accarezza la testa e ammira gli occhi buoni e grandi dallo sguardo paziente e si potrebbe dire umano se le ultime esperienze sugli esseri umani non gli facessero ritenere offensivo per i muli un simile accostamento. Ma le donne e gli altri bambini provano un terrore a volte incontenibile per l’incedere apparentemente pericoloso e che dà loro le vertigini e spesso preferiscono proseguire a piedi rallentando la marcia della fila.
Non vi è luce elettrica nella casetta dove hanno fittato una stanza e il tramonto che ormai giunge presto (siamo a novembre) li vede tutti raccolti al fioco chiarore di lumi a petrolio intorno al braciere insufficiente a dare calore a corpi abituati alla città e a case fornite di efficaci termosifoni, e con sollievo si coricano nei letti forniti di materassi rudimentali tirando fino al mento le numerose coperte dopo una cena a base di formaggio e salumi. Di mattina è tutt’altra cosa: si va in giro in quell’aria rarefatta e pungente percorrendo più volte il tratto casa-convento che è affollato quasi come una via cittadina. La messa nella nuda cappella è suggestiva e ti fa sentire davvero vicino a Dio. Non c’è invidia nella comunità improvvisata e ognuno cerca di dare una mano all’altro. Anche fra i bambini non c’è mai un litigio, ma tutti insieme si inerpicano sui monti brulli e osservano le pecore che riescono a trarre alimento dai pochi e radi cespugli. Le mucche placide con i campanelloni legati al collo sembrano quasi rispondere con il loro lento incedere ai rintocchi suadenti della campana del convento e i giochi non sono agitati e nevrotici come più in basso, ma calmi e sereni. Il freddo sempre più intenso, il cibo sempre più scarso, le piogge sempre più abbondanti e il vento che penetra sempre più prepotente fra gli infissi sconnessi spingono molti sfollati a cercare un’altra più confortevole, anche se meno sicura, sistemazione e Guido decide di seguire l’esempio dei Calabria che si sono trasferiti a Roma, facendo capo a certi loro amici napoletani. Fitto è lo scambio di messaggi e rocambolesco il viaggio lungo i settanta chilometri fra incursioni Alleate e pericolo di controlli, ma la Topolino, che cammina ad acquaragia in sostituzione dell’introvabile benzina, fa ancora una volta il suo dovere e scarica gli Spiga stanchi e frastornati e il residuo bagaglio in un elegante albergo della centralissima via del Tntone.
Ed eccola finalmente Roma. Se vi fosse giunto solo dodici mesi prima quando avevano lasciato Napoli diretti a Formia, Sergio sarebbe stato incontenibile, ma trecentosessantacinque giorni di vita e di esperienze contano ben più di un anno per un bambino, specialmente in tempi come questi! Il ragazzino osserva ogni cosa con meticolosa attenzione, ma senza particolari entusiasmi: è tutto preso dalla coscienza del pericolo che corre il padre e dagli ultimi avvenimenti, ma dalle prime uscite deve registare una quasi totale assenza di soldati tedeschi e di militari in genere: molti vigili urbani, carabinieri che sembrano svolgere il loro normale compito, negozi ricchi di ogni ben di Dio ad eccezione dei generi alimentari e tram, tanti tram che corrono in ogni direzione stracarichi di gente che appare tranquilla e serena. Con il fronte a soli duecento chilometri e la guerra che infuria più che mai nel mondo questa capitale sembra un’oasi di pace, esente com’è da bombardamenti e godendo della qualifica di “città aperta”. Molto lo impressionano i grossi palazzi ex sedi dei ministeri, non tanto per la loro imponenza e magnificenza, ma per il numero che sembra infinito, e Villa Borghese con lo zoo, il fiume attraversato dalle diecine di ponti e strade ampie e ben tenute e principalmente piazza San Pietro con la sua vastità ingigantita dalla considerazione che vi si affaccia la chiesa più grande e famosa del mondo e che a metri di distanza ha sede il Papa, figura mitica nella sua veste bianca che ricopre il corpo quasi etereo di Pio XII.
Hanno nuovamente una casa e la vita sembra riprendere quasi un ritmo normale e civile. Abitano in un appartamento di molte stanze al settimo piano di un moderno palazzo con più scale che dà su un viale come Sergio non ne ha mai visti prima: una doppia strada divisa da un largo giardino ricco di piante, aiuole fiorite e panchine che termina in un piazzale sterrato dove si ha l’impressione che abbiano preso dimora tutte le giostre d’italia. Due grandi ruote panorami-che, gabbie, autopiste, autoscontro, aerei che si alzano e abbassano nel rituale giro a mezzo di pompe idrauliche, specchi deformanti, tunnel dell’orrore e padiglioni di ogni genere e tipo. I bambini presto vi diventano di casa e trascorrono i pomeriggi nella spensieratezza di quella malia sempre attuale alternata al cinema (ve ne sono ben cinque in poco più di cento metri). Nello scantinato scoprono intere raccolte della Domenica del Corriere, con i grandi paginoni illustrati da Beltrame con colori vivi e le immagini suggestive, del Corriere dei Piccoli e dell’Intrepido e c’è solo l’imbarazzo della scelta fra le avventure di Bibì e Bibò, di Marmittone, di Sor Pampurio, di Bonaventura col suo immancabile milione o le più eroiche dei piccoli garibaldini. Al piano di sopra abitano i Rocca, lontani cugini di Matilde, che possiedono una biblioteca che supera di gran lunga la già fornitissima del signor Barattoli, proprietario della casa presa in fitto dagli Spiga, che Angela, la nuova domestica ancora più grossa di Teresa, insiste nel chiamare Barattolini suscitando l’ilarità di Sergio e di Manù.
Il professor Rocca, un minuto ometto titolare di cattedra al politecnico di Bologna, invita spesso Guido ad accese partite di scacchi nel quale è abilissimo e i bambini a far compagnia a Rosa, una bimbetta saputella cresciuta fra mille attenzioni e alla quale non è permesso di uscire con i coetanei, mentre Esterina, la moglie alta e magra, si intrattiene con Matilde. E una casa noiosa e nessuno degli Spiga vi si reca con piacere, ma proprio lì incontrano Giulio Nissim, altro cugino di secondo o terzo grado di Matilde che da anni è nazionalizzato spagnolo e fa parte della legazione del paese iberico presso la Santa Sede. E un colpo di fortuna perché Giulio, anche se terziario francescano, è probabilmente affascinato dalla indubbia bellezza di Matilde e presto privilegia gli Spiga di ogni vantaggio che può procurare in periodi tra-vagliati uno che ha legami con il Vaticano e il Corpo Diplomatico: una targa CD è subito applicata sulla Topolino che così può senza pericolo circolare per la città dotata finanche della preziosa benzina. La dispensa di casa è ora colma e può saziare l’appetito dei vivaci bambini. Cioccolatta e zucchero, caffè e sigarette abbondano e, meraviglia delle meraviglie, qualche volta pane e pasta lavorati con farina doppio zero rallegrano la tavola degli Spiga, ai quali basta attraversare il viale per recarsi dai Calabria e dai loro amici Funicelli che si sono arricchiti con la fornitura di abbigliamento militare. Non sono davvero un modello di finezza papà e mamma Funicelli, ma, consci dei propri limiti di estrazione sociale, si affannano per rendersi simpatici e hanno fatto dirozzare i figli da inflessibili istitutrici e il miscuglio che si è creato fra origine ed educazione li rende divertenti compagni.
Niente sembra più mancare alla famiglia Spiga se non l’assoluta assenza di notizie dei parenti rimasti a Napoli aldilà della linea del fronte. Questo non turba minimamente Sergio e Manù che vivono la stagione romana in piena spensieratezza e spassandosela come forse nemmeno a Napoli. Manù ha subIto una recente strabiliante trasformazione per Sergio che solo qualche mese prima la ricorda bimbetta magra con le trecce raccolte dietro la nuca cercare calore seduta vicino al focolare del Quisisana con un gatto in grembo, e la vede oggi con i capelli corti e ben pettinati, il corpo precocemente sviluppato. A undici anni è già quasi una signorina e fa parte a pieno titolo di una comitiva particolarmente snob dove i ragazzi eleganti e raffinati, ma anche un pò bulli portano il nome (o meglio il soprannome o diminutivo) di Gnagno, Giangi, Gai, e le ragazze, belle ma troppo altezzose, di Maresa, Annabella, Marilena, Mariasole.
Sergio prova per tutti loro un’istintiva antipatia e gelosia per la cugina che è per lui come una sorella e la sorveglia e apertamente stigrnatizza atteggiamenti troppo affettuosi, ma spesso è distratto dai suoi nuovi amici che sono ragazzi romani di famiglie più modeste con i quali ha simpatizzato dopo iniziali litigi all’insegna di “ti rompo la faccia” da parte sua e di “a maschiè guarda che io te sfonno” da parte loro conclusi da un abbraccio e dall’invito a giocare insieme. Altro suo amico carissimo è diventato un biondino più grande di lui che abita nello stesso palazzo in una scala attigua, ma con i balconi delle cucine quasi a toccarsi. Gli ha suscitato un attonito rispetto quando, nei lunghi conversari da balcone a balcone, gli ha detto con l’aria più naturale del mondo di venire da Terracina che, nell’ingenuità della fanciullaggine, ha scambiato per la misteriosa Cina, e l’equivoco è durato a lungo, alimentato maggiormente dall’ulteriore confidenza del suo amico di frequentare qualche volta un~ abitazione al sesto piano dove sembrano siano alloggiati certi principi dalla pelle scura dell’ancor più misterioro Afghanistan. Unico turbamento di quei giorni meravigliosi è.la inesorabile scampanellata di un maestro ultracinquantenne ingaggiato da Guido per consentire ai ragazzi di non perdere l’anno scolastico. Il poveruomo, vestito dignitosamente sempre con lo stesso abito lucido per le troppo stirature e con un cappotto che mostra ormai la trama, sopporta tutto: lazzi, risate e gesticolare dei feroci ed impietosi cugini e lunghe attese dietro la pesante porta che non viene aperta quando Guido e Matilde mancano e Angela è dirottata con una scusa ben architettata per servizi “assolutamente indispensabili”. Dopo la scalata dei sette piani per l’ascensore cronicamente fuori servizio, mezz’ora di aspettativa e infine una sconsolata discesa arrestata magari al piano terra dall’incontro con Matilde che torna a casa e che si mostra al racconto troppo indulgente con i due diavoli, ma che riconduce il maestro per altre quattordici rampe alla lezione.
La s sibilante e la mancanza di un incisivo rendono l’insegnamento più vivace punteggiato com’è da schizzi di saliva che una mano vergognosa quanto rapida schiaccia sui quaderni, sul legno del grande scrittoio del pomposo studio del signor Barattoli, o sugli abiti di Sergio e Manù che si fanno ancora più dietro per non avvertire il puzzo proveniente dall’alito pesante, probabile risultato delle patate, cipolle e aglio che sono l’alimento principale che il poveretto può permettersi. Il cattivo odore invade presto tutta la stanza e a nulla valgono i mazzi di fiori che Manù provvede a non far mai mancare nella speranza di assorbirlo o soverchiarlo.
E la guerra, la sanguinosa guerra dov’è più? Forse è relegata nell’apparecchio radio, grande come un mobile ricco di colonnine e fronzoli intorno al quale di sera nel salotto dei Rocca sui panciuti divani di pelle fra zanne di elefante, archi, frecce e istoriati scudi africani siedono adulti e ragazzi ad ascoltare canzonette, pezzi d’opera e il giornale radio. A una certa ora Ernesto Rocca si alza e, atteggiando il volto esile a cospiratore del tipo che Sergio ha visto nei film sul Risorgimento, si accerta che ogni porta sia ben serrata, le. tapparelle abbassate fino all’estremo limite, le finestre ben chiuse e poi, inciampando in qualcuna delle infinite pile di libri che spuntano da ogni parte, abbassa il volume della radio e tormenta la manopola della sintonia e non trova pace fino a quando un “don-don-don, don-don-don... qui Radio Londra, amici italiani buonasera...” non zittisce persino le donne e li fa attenti alla voce stentorea che diffonde nell’etere notizie ben diverse da quelle che solo mezz’ora prima ha fornito il notiziario dell’EIAR. Sergio non ci capisce più nulla, ha la testa confusa: da quando ha incominciato a intendere, ha ascoltato i notiziari della radio come verità in assoluto, ed ora sente che la battaglia di Cassino sulla linea Gustav e l’altra che infuria intorno ad Anzio a soli cinquanta chilometri da Roma, le stanno vincendo tutti! Trionfalistiche le informazioni dall’una e dall’altra fonte! Ma la verità non è una sola? Come è possibile che le truppe Alleate hanno allargato la testa di ponte e si accingono a muovere su Roma, se l’altra parte afferma invece che i tedeschi hanno lasciato loro solo un lembo di terra e si accingono (è questione di ore) a rigettarli in mare?... Scrolla le spalle il ragazzo e il suo pensiero torna ai giochi e agli appuntamenti con gli amici per l’indomani. | |
| | | Bruno Admin
Numero di messaggi : 3063 Data d'iscrizione : 27.10.08 Località : Napoli Personalized field :
| Titolo: Re: INTORTE SPIRALI D'EROTISMO Cap. VIII Gio Feb 26, 2009 12:39 pm | |
| Ma la guerra c'è e manifesta le sue infinite crudeltà proprio vicino a loro, come ha modo di constatare con occhi sbarrati una mattina che è uscito con guido nella Topolino targata CD. Sono in Trastevere, un quartiere popolare densamente abitato straripante di un’umanità a lui sconosciuta che si riversa in stradette e microscopiche piazze sulle quali si affacciano botteghe di artigiani, osterie, latterie e trattorie con i pochi tavoli, uno addossato all’altro, per guadagnar spazio e per sentirsi più uniti. In via della Lungaretta uno sbarramento di tedeschi e repubblichini li blocca, ma non chiede loro documenti per la provvidenziale targa: c’è paura e agitazione intorno, drappelli di militari frugano nei secolari palazzotti e ne discendono, dopo urla, pianti e tramestii che giungono da ogni parte, con giovani dall’aria disfatta e disperata che sono malamente spinti a procedere dalle canne dei mitra. Alle finestre compaiono visi di donna con i capelli arruffati, gli occhi pieni di lacrime che imprecano, urlano e pregano al tempo stesso. E una retata! Quei giovani saranno avviati ai campi di lavoro in Germania o usati per scavar trincee, elevare barriere, stendere fili spinati lungo il fronte sotto il fuoco degli Alleati per una guerra che non è più la loro. Uno si divincola, fugge, guadagna cinquanta metri, èquasi salvo! Ma una scarica di mitra, possente, tremenda, inesorabile con il rumore secco ben diverso da quello che si sente nei film, lo arresta. Il giovane gira il volto: sembra stupito, un fiotto di sangue esce impetuoso dalla bocca spalancata e stramazza sul selciato che si tinge di sangue scuro e denso. Una mano copre gli occhi di Sergio, ma il ragazzo scosta risolutamente la testa, vuoi vedere tutto e un moto di ribellione lo pervade: vorrebbe fare qualcosa, urlare, muovere contro i soldati, ma la mano questa volta più ferma e decisa lo blocca con forza e gli tappa la bocca e un braccio lo attira sul petto di Guido. Sulla strada di casa a non più di due chilometri il padre gli parla, ma il ragazzo non ascolta, quell’episodio di violenza lo ha cambiato: non ha più Otto anni, ma tanti di più, la fanciullaggine è finita!
Anche nel quieto quartiere che lo ospita la guerra stende i suoi tentacoli possessivi ed invia i suoi strumenti di morte: lo sparo nervoso di una pistola, il boato di una bomba a mano, la raffica asmatica di una mitragliatrice e aerei da ricognizione Alleati volano alti sul vicino Montemario contrati qualche volta dai caccia tedeschi che ingaggiano dei veri e propri duelli conclusi perlopiù con la spettacolare caduta a spirale di uno o più aerei che emette un fumo denso e spesso fra il quale emerge il grande ombrello bianco di un paracadute. Gruppi di civili si sono riuniti in bande e impegnano in isolati scontri germanici e i fascisti, ma più di sovente protetto dal buio della sera o dall’ombra di un androne odi un giardino, un cecchino fulmina un soldato che crolla al suolo e il silenzio circostante è turbato da un urlo strozzato e dal rotolare di un elmetto o dalla caduta di un mitra. Immediate lugubri sirene annunciano l’arrivo di un nugolo di SS e potenti fotoelettriche illuminano a giorno la zona, che viene circondata e perlustrata palmo a palmo, e tremanti vecchi, donne e bambini sono condotti in strada dove, in ottemperanza ai precisi ordini del Comandante della Piazza, vengono passati per le armi. Un vero e proprio incubo per quanti hanno cercato rifugio nella Città Eterna e incominciavano a dimenticare il sangue, le macerie, il rombo dei cannoni, le conflagrazioni di bombe sempre più potenti, le lunghe ore trascorse nei rifugi con l’angoscia di non più rivedere la luce del sole o di ritrovare le abitazioni sventrate e i propri beni dispersi. Anche i quiriti che tanto si erano spauriti per il bombardamento del luglio deI ‘43 che aveva causato duemila morti e la distruzione di metà della basilica di San Lorenzo fuori le Mura, non dormono più sonni tranquilli e non vedono l’ora che tutto sia finito. Ma gli Alleati cozzano a Cassino contro una resistenza tenace fra le rovine dell’Abbazia rasa al suolo nel dissennato bombardamento del 15 febbraio.
Sergio non sa cosa pensare dei partigiani che ammazzano un tedesco pur sapendo di condannare ben dieci innocenti connazionali e fuggono lasciando tanti poverettt nell’ansia e nel timore di una morte crudele quanto ingiusta. La sera è il primo a prendere posto vicino alla radio tutta colonnine e fregi e non perde una parola di Radio Roma e di Radio Londra e chiede a Ernesto Rocca e al padre spiegazioni, ma i due uomini non lo ascoltano e si rinchiudono nello studio occupati in ben altri pensieri e preoccupazioni che perder tempo a rispondere a un bambino. Che senso hanno le azioni isolate, i veri e propri assassinii di qualche nemico solitario? Eppoi quali sono i veri nemici? I tedeschi che proseguono nella lotta a fianco dei fascisti ma, al tempo stesso, deportano e uccidono nostri compatrioti, o gli americani e gli inglesi che hanno raso e continuano a radere al suolo le maggiori città italiane o mitragliano innocue automobili civili lungo le grandi strade di comunicazione come ricorda hanno fatto anche contro la Topolino nel travagliato viaggio da Fiuggi?
Ormai non gioca più il ragazzo, ma studia con serietà e legge e rilegge la storia sul testo di stato per la scuola elementare, zeppo di frasi roboanti sulla grandezza dell’antica Roma, dell’italia dei Comuni e sulle glorie del risortò impero per la volontà e la tenacia del nostro Duce e del nostro Re. Ma il Re non è ora contro il Duce? Chi ha ragione? Allora fruga nella biblioteca del signor Barattoli alla ricerca di una risposta, ma non la trova nè può trovarla in quei libri che parlano solo del passato e non di quanto più lo interessa. Si rivolge al maestro, ma il poveretto sembra sempre più spaurito e quando Sergio lo tormenta con i suoi interrogativi gli risponde:
«Non ti interessare di queste cose, riguardano i grandi, impara quello che ti è necessario per fare un buon esame)>>
È durante una lezione che sente uno sparo secco e poi urla, suoni, comandi imperiosi, stridio di freni, sfrigolare di pneumatici e il passo cadenzato di truppa. Si precipita alla finestra e vede sull’altro lato del viale un assembramento incredibile e un frenetico fuggi fuggi in ogni direzione. Una ventina di individui sono trascinati, alcuni portati di peso, lungo il muro dell’edificio: sono perlopiù donne e vecchi, sembrano intontiti, incapaci di resistenza, uno è in pigiama. Un ufficiale delle SS nella maledetta inappuntabile divisa ormai stranota fa allineare un plotone a qualche metro dal muro. Sono tutti alti uguali, sembrano usciti da uno stampo: rigidi, perfetti, i passi all’unisono, i movimenti coordinati come elementi di un meccanismo fatto di leve ed ingranaggi esenti da polvere, lubrificati al punto giusto dove è impensabile anche un benché minimo inceppo. Di fronte a loro esseri umani che incominciano a rendersi conto di ciò che sta per succedergli e si agitano, piangono, pregano, imprecano, svengono, si divincolano come in una bolgia da inferno dàntesco. Anche il maestro e Manù sono alla finestra, la ragazza non resiste e si accascia piangendo su una poltrona, il maestro strappa Sergio dai vetri e tenta di chiudere gli scuri, ma il ragazzo sguscia e preme il viso sulla superficie fredda trasparente. Gli occhi, il naso, la bocca sono deformati dalla pressione parossistica e il volto si deforma, lo sguardo sbarrato, le gote rigate da lacrime. Quei poveri esseri laggiù sono costretti lungo il muro, un comando perentorio e le canne vengono puntate e brillano di centinaia di sinistri scintillii per il riflesso degli ultimi raggi del sole ormai al tramonto. La raffica parte e i corpi, in un attimo interminabile come la sequenza di un film di una fantasia perversa, si inarcano in uno spasimo ribelle e poi si afflosciano ormai vinti, mentre l’asfalto, il muro, le finestre del piano terra si picchiettano di schizzi rossobruno. Ma non è finita: lamenti si levano dall’ammasso di corpi e arti si muovono ancora e un viso —indimenticabile — emerge su tutto e sembra fissare i suoi carnefici quasi immobile. L’ufficiale e due graduati si avvicinano e puntano a meno di un metro pistole dalla canna lunga e fanno fuoco, gli stivali rovistano l’ammasso di carne e continuano a sparare per minuti lunghi una vita. I timpani di Sergio rintronano degli spari come la sua mente. Il maestro riesce infine a tirarlo via e finalmente il ragazzo si lascia andare in un pianto dirotto gridando: «Perché, perché?» e fugge nella sua stanza.
Per giorni non tocca quasi cibo e poi la vita riprende e alla fine di uno stupendo maggio romano quando i fiori rallegrano i giardini e i grandi alberi di quella città tanto ricca di verde sembrano trarre novello splendore, il nuovo Sergio serio e composto si reca insieme a Manù e Matilde alla scuola elementare Cristoforo Colombo per sostenere gli esami di idoneità alla 5a classe che supera brillantemente ricavandone una pagella con una lunga sfilza di lodevole sulla cui copertina campeggia un grande fascio stilizzato fra due triangoli, uno rosso e l’altro verde e la scritta: “Ancora più vicino al mio cuore degli istituti, delle università fasciste, è una nuova istituzione che ha tutti i segni originali della rivoluzione fascista: l’opera balilla. Mussolini”.
Solo due giorni dopo la vicina caserma Mussolini è saccheggiata dalla popolazione e Sergio, un possibile balilla, assiste alla scena di donne scarmigliate che trasportano sedie, tavoli, divise, pentole, suppellettili di ogni genere ed interi mobili e qualche arma abbandonata dell’imponente edificio dalle linee moderne che ha forgiato per un ventennio elementi di un esercito che è riuscito soltanto a piegare un paese africano e si è disciolto, come neve al sole, di fronte alle Potenze che la propaganda per anni ha definito imbelli ed incapaci di fare una guerra precipitando quel popolo, che tanto ha osannato il Dittatore e i suoi gerarchi, nel più profondo e buio medioevo.
Il 4 giugno 1944 gli Alleati entrano in Roma e anche sul viale degli Spiga l’esercito multicolore composto da americani, inglesi, francesi, canadesi, marocchini, indiani, neozelandesi, australiani sfila acclamato da due fitte ali di folla alla quale, come si fa con gli straccioni, vengono lanciate sigarette, tavolette di cioccolatta e tanti barattoli di cibarie. La finestra della camera di Sergio rimane chiusa: non puo il ragazzo considerare amici quei soldati che hanno straziato il paese che li accoglie così benevolmente. Odia i tedeschi, èvero, ma l’immagine dei palazzi sventrati, delle strade dissestate, delle donne che hanno pianto i loro figli uccisi in terra, in cielo e sul mare si forma chiara ora nella sua mente e mai lo dimenticherà, affiancandola a quella del giovane ucciso in via della Lungaretta e di disgraziati individui che improvvisamente e incolpevoli sono stati strappati alla loro casa e fucilati senza pietà lungo il muro che ancora reca i segni delle pallottole e qualche macchia ormai stinta di sangue innocente. | |
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