| | I CINQUE DUCI A CONFRONTO saggio di storia comparata | |
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| Titolo: I CINQUE DUCI A CONFRONTO saggio di storia comparata Lun Ott 20, 2014 6:26 pm | |
| QUESTA E' LA SECONDA EDIZIONE, LA PRIMA NEL 2000 FU EDITA DA CAMPANIA LIBRI PREFAZIONE Chiunque si interessi alla storia contemporanea non può fare a meno di soffermarsi a lungo sulla Seconda Guerra Mondiale, sulle cause che l’hanno determinata, sul suo svolgimento e sulle sue conseguenze. Senza alcun dubbio è stato l’avvenimento più importante e traumatico del XX secolo, nel quale si sono scontrate ideologie diverse causando una lunga e crudelissima lotta (che ha lasciato sul terreno ben 50 milioni di morti e oltre 100 milioni di feriti) e un sostanziale sconvolgimento di equilibri di potenza nell’intero Globo. Infatti gli imperi italiano e giapponese sono del tutto scomparsi seguiti, non molto tempo dopo, da quelli inglese e francese. Inoltre la Germania (rimasta divisa in due parti per circa cinquant’anni) e la Polonia hanno dovuto cedere vasti territori all’est, mentre l’URSS (per oltre mezzo secolo) ha ancor più esteso i suoi già vastissimi confini ed ha esercitato un ruolo dominante su varie nazioni confinanti. Infine gli Stati Uniti d’America hanno praticamente assunto la guida della politica mondiale. Ebbene, è ormai consolidata convinzione che fra i protagonisti del colossale conflitto soltanto cinque hanno assunto singolarmente un ruolo davvero determinante. Sono, in ordine alfabetico, Churchill, Hitler, Mussolini, Roosevelt e Stalin. Tutti loro, chi più chi meno, non solo hanno gestito (al di là dei risultati e della morale) l’andamento della guerra, ma l’hanno anche causata per dare sfogo a smodate ambizioni (palesi o occulte che fossero). Sono essi quindi, nel bene o nel male, i veri protagonisti della storia del ‘900, o, quantomeno, della prima metà del secolo. Eppure, nonostante le tante biografie, a volta pregevoli, pubblicate su ognuno di loro, manca un libro che racconti le loro vicende, dalla 5 nascita alla morte, in modo comparativo e il lettore, appassionato della storia e dei suoi personaggi e dei raffronti fra di loro, deve ricorrere a più testi nella faticosa e dispersiva ricerca di fasi analoghe con il risultato, nella gran maggioranza dei casi, di abbandonare insoddisfatto l’impresa. Con questo libro ho inteso colmare la lacuna ed ho chiamato i cinque protagonisti, per comodità di titolo, “DUCI”, sempre che si intenda tale appellativo come quello usato nel primo medioevo (dux è colui che assume nella circoscrizione territoriale, assegnatagli o conquistata, tutte le funzioni governative sia civili che militari). Non intendo quindi confondere l’appellativo che ho dato con dittatura o tirannide, né tanto meno impegolarmi sull’ex defectu tituli o sull’ex defectu exercitii. Non è questo l’intento del libro e sarà il lettore, se lo vorrà, a fare le debite distinzioni sulla conquista e sulla gestione del potere di ognuno dei cinque “duci”. Quindi, tornando al libro e tralasciando il titolo, desidero sottolineare che ho fatto largo uso del metodo comparativo e ho dato ampio spazio alla corrispondenza intercorsa fra i cinque protagonisti, ad alcuni significativi colloqui fra di loro e ai giudizi reciproci espressi in più occasioni. I primi capitoli del mio libro sono dedicati, sempre comparativamente, all’anno, al luogo, all’ambiente sociale nel quale i cinque futuri “duci” sono nati, oltre al rapporto con i rispettivi genitori, agli studi scolastici intrapresi, ai titoli di studio conseguiti, alle letture formative, all’impatto con il lavoro, ai primi passi in politica, a quale ruolo hanno svolto nella Prima Guerra Mondiale e alla scalata al potere. Nei capitoli successivi, quando l’azione dei cinque protagonisti si identifica con quella dei loro paesi e quindi con la politica mondiale, si parla della crisi economica del 1929, e delle crisi per l’Etiopia, per la Renania, per l’Austria, per la Spagna, per la Cecoslovacchia, per l’Albania e per la Polonia, che prelude allo scoppio della Seconda 6 guerra Mondiale. Gli avvenimenti sono raccontati, in ogni capitolo, sempre dalla angolazione di ognuno dei cinque protagonisti, divenendo però, nell’insieme del capitolo, un tutt’uno che, spero, renda ben comprensibile e scorrevole la lettura, senza tuttavia mai perdere il rigore necessario ad un libro di storia. Infine l’ultimo capitolo, il 18° (che può essere consultato anche durante la lettura dei precedenti), è dedicato ad una serie di comparazioni estremamente sintetiche che raggruppano, nella prima parte, ben 21 argomenti; mentre, nella seconda parte, vi è l’attività parallela dei cinque protagonisti in ognuno di 29 anni, scelti come campione; infine, nella terza parte del capitolo, la comparazione riguarda i cinque quando hanno la stessa età: a 15, 20, 25 anni e cosi via. Bruno Cotronei 7
CAP. I QUANDO E DOVE E DA QUALI GENITORI E IN QUALI AMBIENTI NASCONO I CINQUE PROTAGONISTI Nella ricca e potente Gran Bretagna dell’età vittoriana, mentre il Primo Ministro Disdraeli provvede a consolidare e ad espandere l’Impero britannico e a conciliare la tradizione monarchica a qualche concessione democratica spinta dall’impetuoso progresso industriale, a novembre del 1874 una nobildonna cade durante una partita di caccia e viene immediatamente trasportata nello splendido palazzo di Blenheim. Si tratta della moglie di Lord Randolph Churchill, incinta da meno di sette mesi. Pochi giorni dopo, ed esattamente nelle prime ore del 30, nasce, settimino e primogenito, WINSTON CHURCHILL. Il destino sembra averlo privilegiato: è un bambino sano, la famiglia è ricca e nobile, il nonno paterno è il settimo duca di Marlborough mentre quello materno è un capitalista e proprietario di giornali americano. Invece, solo tre anni dopo quando il nonno è nominato viceré d’Irlanda e il padre ne diviene il segretario, il piccolo Churchill segue i genitori a Dublino ma non li vede quasi mai: suo punto di riferimento diviene la bambinaia, la signora Everest che, nonostante l’affetto e l’abilità profusi in continuazione, non riesce a compensare lo struggente bisogno del padre e della madre che sono, sempre più frequentemente in viaggio, come nel Natale del 1881 quando nemmeno una grande collezione di soldatini e di bandiere allevia il desiderio dei mancati baci materni. Altro prediletto della fortuna sembra essere FRANKLIN DELANO ROOSEVELT che nasce il 30 gennaio 1882 a Hyde Park nello Stato di New York da una famiglia di origine olandese che era 9 sbarcata nel Nuovo Mondo nel 1649 e aveva mutato il cognome da Martensen a Roosevelt facendo fortuna, dapprima con il commercio delle stoffe, e poi con raffinerie di zucchero. Il padre del nostro protagonista aveva combattuto con Garibaldi a Napoli e, successivamente, rientrato in America, s’era occupato di miniere, compagnie ferroviarie e della non brillante iniziativa di congiungere l’Atlantico al Pacifico attraverso il Nicaragua. Quando Franklin Delano Roosevelt nasce nella bella villa contornata da una grande tenuta, il padre ha 54 anni mentre la madre è una bella ed elegante giovane di 28 anni, figlia di Warren Delano che aveva guadagnato ben un milione di dollari con il commercio dell’oppio, richiesto in grandi quantità dagli ospedali americani durante la Guerra di Secessione, e poi era divenuto socio d’affari del futuro marito della figlia. Mentre gli Stati Uniti s’ingrandiscono annettendo nuovi Stati per oltre un milione di chilometri quadrati e scoppiano grandi scioperi per ottenere la giornata lavorativa di otto ore culminanti nell’impiccagione, il 1° maggio del 1885 dei cosiddetti “Martiri di Chicago”, il giovanissimo Roosevelt cresce figlio unico e adorato dai genitori e dalla fedele bambinaia ed è il potenziale erede di più di un milione di dollari equivalenti a ben 2.400 anni di reddito medio di un operaio. Sei anni prima, migliaia di chilometri lontano dagli splendori di New York, alle estreme propaggini meridionali della Russia, in Georgia nella piccola città di Gori, nasce Josif Dzugasvili. Il futuro STALIN. E’ esattamente il 21 dicembre 1879. I genitori sono entrambi semianalfabeti, di origine contadina, e da appena quindici anni sono stati emancipati dalla condizione di servi della gleba per i provvedimenti che lo zar ha emanato per tutta la Russia di un primo e prudente tentativo di riformare lo Stato in senso più liberale. Il padre, che ha sposato Ekaterina Geladze, fa il calzolaio e, con la piccola famiglia, abita in una casa in mattoni composta da 10 una sola stanza, un solaio ed uno scantinato. Il piccolo Stalin non solo si ammala di vaiolo e a stento riesce a sopravvivere, ma deve continuamente subire i maltrattamenti paterni impartiti anche alla mamma che cerca, con la sua fede religiosa e col suo amore, di proteggere il figlio. Poi, nel 1883, il padre si trasferisce a Tiflis a lavorare in un calzaturificio e la madre, conducendo con se Stalin, va ad abitare presso la casa di un prete ortodosso dove svolge il mestiere di cameriera notte e giorno. Proprio in quell’anno, a Varano dei Costa nel villaggio di Dovia in frazione di Predappio in Romagna, in un vecchio casolare che domina una piccola altura, una levatrice si prodiga per far nascere un bambino che si presenta più grosso del normale. E’ domenica 29 luglio e fa molto caldo. La levatrice ha dovuto abbandonare di corsa la sua famiglia e il pranzo del giorno di festa, l’unico nel quale in tavola compare la carne a completare la solita zuppa di verdure e pasta dei giorni feriali. La donna si deterge la fronte e completa il suo delicato lavoro tranquillizzando la ventiquattrenne Rosa Maltoni che è la maestra del paese, da un anno moglie del fabbro Alessandro Mussolini. Alla levatrice, come a molti benpensanti di Dovia, non piace quell’uomo duro, rissoso e donnaiolo che spesso abbandona la bottega per bere vino in eccesso e diffondere le idee dell’Internazionale socialista divenendo caporione di un gruppo numeroso con idee anarchiche che è stato sciolto da un deciso intervento della polizia. Ma la giovane maestra è tanto buona e il bambino è bello e sano anche se sembra che il padre voglia imporgli il nome del rivoluzionario Benito Juarez. Si chiamerà quindi BENITO MUSSOLINI. In effetti il neonato non sembra essere del tutto sfavorito dalla sorte. E’ vero che non ha genitori ricchi e altolocati come Churchill e Roosevelt, ma nemmeno poverissimi e semianalfabeti come quelli di Stalin. Anche i suoi sono di origine contadina, ma non braccianti bensì piccoli proprietari andati in rovina ai tempi del nonno. E’ vero che il 11 padre non ha frequentato la scuola, ma ha imparato a leggere e bene e la sua casa di capofamiglia ha in buona evidenza uno scaffale colmo di libri come il Capitale di Marx o il Principe di Macchiavelli. Eppoi la mamma ha pur conseguito un diploma e la patente di maestra, sia pure di grado inferiore! Certo il padre guadagna poco e la madre ha un misero stipendio, ma il necessario non manca. Anche nella casa del piccolo Mussolini (due stanze, compresa la cucina, miseramente arredate più un’altra che funge da scuola), che s’avvicina molto più a quella di Stalin che alle vastissime ed imponenti di Churchill e Roosevelt, la mamma deve tribolare, come la levatrice, tutti i giorni per mettere sulla tavola un pasto composto di minestra di verdura, la mattina, e di radicchio di campo, la sera. Solo la domenica c’è il lusso della carne di pecora per il brodo. Eppure al bambino bastano alcuni miniviaggi a Forlì e un breve soggiorno a Milano con il padre per rendergli più sopportabili i primi anni della sua vita trascorsi quasi sempre nei campi dove diviene presto il capobanda dei suoi coetanei e sviluppa un carattere impulsivo e rissoso al contatto con un ambiente violento dove spesso deve assistere a scene tutt’altro che adatte ed educative per un fanciullo. Più tardi egli stesso, ricordando la sua infanzia, scrive:“ La mia vita di relazione cominciò a sei anni. (...) Io ero un monello irrequieto e manesco. Più volte tornavo a casa con la testa rotta da una sassata. Ma sapevo vendicarmi. Ero un audacissimo ladro campestre (...) Trascinavo a mal fare parecchi miei coetanei. Ero il capo di una piccola banda di i che imperversava lungo le strade, i corsi d’acqua e attraverso i campi”. Ma, quasi per contrasto, ama gli animali e principalmente la musica che è indubbiamente importante in quell’Italia ricca di contrasti, che da solo qualche decennio è divenuta nazione e dove solo da poco, Primo Ministro il capo della sinistra moderata Depretis, si è esteso il diritto al voto ai ventunenni alfabeti che abbiano superato la seconda elementare o analfabeti che paghino imposte dirette non inferiori alle venti lire annue, e s’è stabilito 12 l’obbligo dell’istruzione elementare impartita gratuitamente, mentre si muovono i primi passi coloniali occupando Massaua in Eritrea seguiti, però nel 1887, dalla distruzione di un distaccamento italiano a Dogali da parte degli Etiopici. La notizia della disavventura italiana in Africa suscita qualche represso compiacimento nell’ancora potente Impero Austro-Ungarico dove, due anni dopo a Braunau am Inn un paesino alla frontiera con la regione tedesca della Baviera, il 20 aprile nasce ADOLF HITLER. Il padre Alois e la madre Klara , entrambi di origine contadina, ma di quella più evoluta dei coltivatori indipendenti che si trasforma in artigiani di villaggio, abitano in una casa linda e dignitosa, ben diversa da quella misera di Stalin o povera di Mussolini. Risponde ai dettami delle abitazioni della borghesia alla quale ormai appartiene Alois Hitler che, avendo conseguito un diploma ed essendo stato assunto come doganiere, ha fatto carriera giungendo così al grado più alto previsto per i funzionari pubblici in possesso del suo livello d’istruzione. E’ un uomo duro, autoritario ed egoista Alois, e, dopo due matrimoni mal riusciti, aveva preso per amante Klara, una sua cugina di secondo grado più giovane di lui di ben 22 anni, e l’aveva sposata quando era già incinta e lui era ormai alle soglie della pensione. Il rigido funzionario austriaco non mostra mai comprensione per le esigenze dei figli e della giovane moglie, ma è tutto preso dal perfetto espletamento del suo lavoro e dalla sua grande passione per le api alle quali dedica tutto il suo tempo libero. Finalmente, dopo altri due trasferimenti e dieci anni dopo la nascita di Adolf, può realizzare la sua massima aspirazione: acquistare una proprietà a Leonding nei pressi di Linz e dedicarsi completamente all’apicoltura. Hitler bambino sembra del tutto normale e,seppure soffre per l’autoritarismo paterno, è pienamente compensato dall’affetto e dalle cure materne che non diminuiscono mai,nemmeno quando nasce un 13 fratellino che diventa, per qualche tempo il suo compagno di giochi e col quale trascorre a Passau l’anno più felice della sua fanciullezza. 14 CAP. II DOVE STUDIANO E QUALI TITOLI SCOLASTICI OTTENGONO I CINQUE PROTAGONISTI E’ una mattina grigia e fredda del novembre 1882 quando CHURCHILL, che sta per compiere 8 anni, segue riluttante la madre che lo accompagna al collegio St George’s presso Ascot dove dovrà rimanere come interno. Non è certo la famosa Eton dove ha studiato il padre. Lui, Winston, è considerato un ragazzino difficile, per il quale è necessario l’uso di una continua severità e spesso della frusta per ben 15 colpi ogni volta, quando, già dopo tre o quattro, si formano grosse macchie di sangue. Ed è ovvio che il futuro protagonista della Storia ricordi così quel periodo: “Quanto odiavo la scuola, e che vita angosciata ho vissuto per più di due anni! Facevo ben pochi progressi negli studi e proprio nessuno nei giochi. Contavo i giorni e le ore che mancavano alla fine di ogni trimestre, quando sarei tornato a casa da quella schiavitù odiosa e avrei schierato i miei soldatini in battaglia sul pavimento della camera dei giochi”. Il bambino continua per due anni a lamentarsi, perché i genitori, particolarmente il padre che si candida al Parlamento per la circoscrizione di Birmingham, sono quasi sempre assenti. Inoltre, tranne in storia e geografia, seguita ad andare male negli studi e ad essere, nonostante le percosse, un tenace ribelle. Ma quando, finalmente, a causa della salute cagionevole, viene trasferito a Brighton nel collegio diretto dalle sorelle Thomson, si sente quasi felice e la pagella segnala buoni progressi tranne che in condotta, probabilmente perché i genitori persistono a villeggiare per loro conto, lontani dai figli. 15 Nemmeno nel 1886, quando il giovane Churchill è ormai un adolescente di 12 anni, riesce a vincere la frustrazione di sentirsi sempre più trascurato dal padre, che nel frattempo è stato nominato Cancelliere dello Scacchiere. Lo ama e lo ammira perdutamente, e sommessamente lo rimprovera per lettera: “Non sei mai venuto a trovarmi la domenica quando eri a Brighton”. Poi piange lacrime amare quando il suo eroe è costretto a dimettersi dalla carica politica, al punto da scagliarsi contro un uomo che fischia al nome paterno dicendogli: “Smettila con questo schiamazzo, radicale col naso rincagnato!”, e ne ricava un po’ di considerazione da Lord Randolph che, dal Marocco, gli invia una moneta d’oro e gli comunica che ha deciso d’inviarlo ad Harrow per proseguire negli studi. Nella scuola pubblica Churchill entra nell’aprile del 1888, quando ha 14 anni e vi si trova abbastanza bene. Addirittura è felice quando partecipa ad una finta battaglia, nella quale però si limita a portare solo le cartucce. Ciò nonostante scrive alla madre: “Ho portato 100 colpi da distribuire nel folto della mischia, cosicché il mio incarico mi ha consentito di avere una buona visione del campo. E’ stato davvero eccitante, attraverso il fumo si vedeva il nemico avvicinarsi sempre più”. Ma quando la madre, che si fa sempre desiderare, lo va a trovare, lo rimprovera aspramente per il disordine nel quale tiene la sua stanza, riecheggiando il vice direttore che si lamenta per la sua irregolarità negli studi tranne, come al solito, nella storia per la quale Churchill ha una vera e propria passione che gli permette di vincere il primo premio per due trimestri consecutivi. Ma il padre non ha molta stima per il ragazzo, tanto che comunica al direttore che vuole che Winston frequenti la classe militare, anziché quelle regolari. Anni dopo Churchill scrive a tale proposito: “Per anni pensai che mio padre, con la sua esperienza e il suo intuito, avesse colto in me le qualità del genio militare, ma anni dopo seppi che era giunto alla conclusione che non ero abbastanza intelligente per fare l’avvocato”. Niente Oxford e niente laurea quindi, al contrario del 16 padre, ma solo la carriera militare nell’esercito, dove, peraltro, nemmeno è facile accedere. Ci prova per ben due volte senza successo, mentre i genitori viaggiano per tutta Europa, per buona parte del 1892 e per molti mesi del 1893 e, finalmente, in agosto, ottiene 6.309 punti, non sufficienti per entrare in fanteria, ma che gli assicurano il quarto posto nel ruolo della cavalleria. Il padre, affetto da sifilide all’insaputa di Winston, gli scrive: “Sono piuttosto sorpreso del tuo tono di esultanza per l’inclusione nel ruolo di Sandhurst. Vi sono due modi di superare un esame, uno degno di lode e l’altro no. Sfortunatamente hai scelto il secondo metodo e sembri molto soddisfatto del successo. (...) Il tuo mancato ingresso in fanteria dimostra in modo inconfutabile il tuo stile di lavoro sciatto, spensierato e irresponsabile, con cui ti sei sempre distinto nelle varie scuole. Non ho mai sentito un giudizio davvero positivo sulla tua condotta nello studio da nessun insegnante o istitutore con cui hai avuto a che fare di volta in volta. Con tutti i vantaggi che hai avuto, con tutte la capacità che ritieni scioccamente di avere e che alcuni parenti ti attribuiscono, con tutti gli sforzi fatti per renderti la vita facile e gradevole, il grande risultato è che guadagni una classe di 2° o 3° rango, valida solo per il brevetto in un reggimento di cavalleria. Ora è bene spiegarti le cose in tutta franchezza. (...) Imprimiti indelebilmente nella mente quanto segue: se la tua condotta e le tue azioni a Sandhurst saranno analoghe a ciò che sono state in altre istituzioni in cui vanamente si è cercato di impartirti una certa educazione, allora la responsabilità che ho di te verrà meno. Lascerò che tu faccia assegnamento su te stesso, dandoti solo l’aiuto necessario per consentirti una vita rispettabile. Sono certo infatti che se non saprai evitare di condurre la vita oziosa, inutile e vana che hai vissuto durante i giorni di scuola e nei mesi seguenti, diverrai null’altro che un rifiuto sociale, uno delle centinaia di falliti delle public schools, fino a precipitare in un’esistenza meschina, infelice e futile. Se così sarà, dovrai sopportare l’intera responsabilità 17 di tali disgrazie. La tua coscienza ti permetterà di ricordare e enumerare tutti gli sforzi per offrirti le migliori opportunità cui ti dava diritto la tua condizione, e come tu le abbia trascurate praticamente tutte”. Eppure, nonostante la durezza di questa lettera dalla quale il giovane Churchill si difende promettendo tutto intero il suo futuro impegno, il padre gli fa ottenere un brevetto speciale, con cui Winston può entrare in fanteria nel 60° fucilieri. Dopo pochi giorni del Royal Military College egli scrive al padre: “...C’è qualcosa di entusiasmante nel modo militare con cui tutto funziona; penso che mi piacerà moltissimo la vita qui nei prossimi 18 mesi”. In effetti davvero Churchill si appassiona dei cannoni, delle granate, dei ponti, dei campi d’assedio, delle mappe, del nuovo fucile da 12 libbre, ma la salute lo aiuta poco e, dopo una corsa di un chilometro con fucile ed equipaggiamento, sta male e il medico gli dice che il cuore non sembra molto forte. Ciò nonostante Wiston prosegue, senza risparmiarsi, nei suoi studi militari, nei viaggi, durante i quali scala montagne e nuota nei laghi, e nella vita brillante a Londra, dove spesso fa le ore piccole e cene a notte fonda. Nel frattempo il padre, che va sempre più peggiorando sia mentalmente che fisicamente, decide di girare il mondo accompagnato dalla moglie, e Churchill fa giusto in tempo a raggiungerli alla stazione per salutarli, frammisto a numerose personalità fra le quali fa spicco il Primo Ministro Rosebery. Ora, dopo averla quasi snobbata, la sua passione è l’equitazione, in cui eccelle e desidera ardentemente entrare in cavalleria, contrastato dal padre che, dalla California, gli nega il permesso. Poi il giovane, sempre più sicuro di sé, s’impegna, anche con lettere pubblicate su giornali, in una polemica sulla chiusura dell’Empire Theatre e in proposito scrive al fratello minore “Hai letto gli articoli sul tumulto all’Empire sabato scorso? Ero io a capo dei rivoltosi, e ho arringato la folla!”. 18 A fine novembre 1894, improvvisamente, Churchill viene a sapere che al padre restano solo sei mesi di vita, ma non qual è la sua vera malattia che gli era stata sempre nascosta. Insiste allora con la madre perché riporti Lord Randolph a casa, mentre il principe di Galles invia il suo medico personale a visitare l’infermo, che non è più in grado di apprezzare i buoni risultati che Winston consegue agli esami, dove si classifica ventesimo su 130. In una mattina piena di sole che fa luccicare la neve il padre di Churchill muore pochi giorni prima di compiere 46 anni, allineandosi con quasi tutti gli uomini della famiglia nella precocità della morte e creando, questa volta del tutto involontariamente, un nuovo complesso nel figlio: quello di una terribile tara ereditaria. Nemmeno un mese dopo, ed esattamente il 20 febbraio 1895, Churchill conclude i suoi studi con il brevetto d’ufficiale e il grado di secondo luogotenente. Mentre il presidente repubblicano Harrison, dietro la spinta dei capitalisti concede forti incentivi ai settori privati dell’economia e stabilisce tariffe doganali fortemente protezionistiche per le imprese statunitensi, in casa ROOSEVELT viene deciso di non far frequentare al piccolo Franklin le scuole pubbliche primarie, ma di affidarlo, fra il 1888 e il 1890 ad una maestra tedesca e poi, nei due anni successivi, a un’istitutrice svizzera, che gli insegnano, fra l’altro, a parlare correntemente il tedesco ed il francese. E’ uno spettacolo confortante vedere l’intera famiglia composta dal padre anziano e affettuoso, dalla mamma giovane bella ed elegante, e dal ragazzo sereno e attento, girare per qualche mese ogni anno attraverso l’Europa e visitare città, regioni e musei con la curiosità e l’attenzione di turisti colti, pronti a distinguere le caratteristiche e le differenze dei vari popoli europei, come la libertà inglese, l’obbedienza tedesca e l’allegria italiana. Nemmeno i periodi riservati allo studio sono spiacevoli per il giovane Roosevelt, perché li alterna, in compagnia del padre, con 19 partite di caccia e pesca, lunghi giri a cavallo e appassionanti gare di golf. Tutto gli è permesso per l’agiatezza e l’affetto dei genitori e la sua esistenza sembra un perenne gioco. A 14 anni lo si vede sovente condurre sul fiume Hudson, con notevole perizia, la barca paterna lunga 21 metri. E’ quella la sua vera passione e desidera frequentare l’accademia navale di Annapolis per diventare ufficiale di marina, ma, per una volta, i genitori non lo accontentano e preferiscono inviarlo, nel settembre 1896, alla scuola di Croton nel Massachusetts. Si tratta di una scuola privata fondata dal pastore Peabody sul modello del famoso collegio inglese di Eton, quello dove studiò il padre di Churchill e che invece non fu consentito a Winston. E per la prima volta Franklin prende contatto con una rigida disciplina che genera, ai deboli, danni morali irreversibili, mentre ai forti irrobustisce il carattere per tutta la vita. Il giovane Roosevelt, nonostante non abbia mai frequentato una scuola, si adatta bene ai sistemi del collegio, ma non eccelle particolarmente negli studi. Poi, improvvisamente, a 16 anni, tenta l’avventura. Scappa dalla scuola per arruolarsi come marinaio nella guerra contro la Spagna nella quale gli Stati Uniti colgono una folgorante vittoria e ottengono Puerto Rico, Guam, le Filippine e il protettorato su Cuba, divenendo così una potenza imperiale e coloniale. Però Roosevelt non vi partecipa perché un attacco di scarlattina lo fa rientrare riluttante a casa. E’ mortificato per l’insuccesso: avrebbe voluto ad ogni costo ricalcare le orme avventurose del padre garibaldino a Napoli, o del nonno materno che aveva navigato nei mari della Cina, o del cugino Theodore Roosevelt, che, da Sottosegretario alla Marina, è un tenace sostenitore della politica di forza e riesce a trasformare gli Stati Uniti in un’agguerrita potenza navale. Nell’autunno del 1900, Roosevelt, conclusi gli studi a Croton, entra, a vele spiegate, nella prestigiosa università di Harvard e immediatamente ha dei problemi, perché nella contemporanea guerra 20 anglo-boera, lui, che è di origine olandese, parteggia per i boeri, aprendo a loro favore una sottoscrizione. Ma la stragrande maggioranza dei suoi più eleganti colleghi sono a favore degli aristocratici inglesi e considerano i coloni olandesi del Sud Africa “sudici e barbuti”. Così non lo ammettono nel Porcellian, che è il club studentesco più esclusivo del quale sempre hanno fatto parte i Roosevelt. Per la prima volta nella sua vita fortunata di ragazzo ricco e amato dai genitori, Franklin si sente escluso. Non dalla sorte, ma da altri uomini. E’ una specie di doccia gelata per lui e lo costringe a valutare in modo ben diverso da come ha fatto in precedenza i diseredati e gli oppressi. Incomincia a professarsi progressista in vari articoli, che pubblica sul periodico dell’università, Crimson. Comprende quanto sia, in democrazia, più importante il favore popolare e la forza della massa e tenta di mettersi alla testa dei 600 studenti disorganizzati, fino ad allora dominati da un centinaio di bulletti che si sono arrogati il diritto di comandare per privilegio di casta. Infatti scrive: “C’è un dovere molto più alto di quello di votare per il vostro amico personale, ed è quello di trovare per tutta la classe dei capi che meritino veramente questo posto (...) Nessuno dovrebbe essere eletto per la casta, ma tutti a seconda delle loro capacità”. Poco dopo Roosevelt diviene il direttore di Crimson, ma la sua soddisfazione è mitigata dalla morte del padre settantaduenne.. Proprio negli anni in cui Franklin frequenta l’università, il presidente McKinley viene assassinato e gli subentra Theodore Roosevelt che annette l’Oklaoma e il Nuovo Messico. Nel 1904 Roosevelt consegue il primo livello di lauree universitarie, il Bachelor of arts e, successivamente, invece di conseguire la laurea vera e propria di Master of arts, supera l’esame di stato che gli consente l’esercizio della professione d’avvocato. Il piccolo STALIN, pur non vivendo negli splendori abbacinanti nei quali sono cresciuti Churchill e Roosevelt e non muovendosi mai 21 dalle miserie di Gori, a 4 anni abita in una casa meno povera e stretta di quella natale. E’ vero che il prete ortodosso al quale la madre fa da cameriera lo tratta con distacco, ma non gli nega la possibilità di accedere alla sua piccola biblioteca e di sfogliare le pagine di qualche libro. Il bambino potrebbe quindi essere più sereno, se non fosse per le visite che, di tanto in tanto, il padre gli fa, e allora riprendono le dure e ingiustificate percosse a lui e alla madre. Di conseguenza nel piccolo Stalin si sviluppa, giorno dopo giorno, la convinzione che tutti coloro che esercitano un’autorità su altre persone somigliano al padre e quindi vanno duramente odiate. Ciò nonostante la mamma coltiva il sogno di farlo diventare prete, ma bisogna pur pagare le tasse scolastiche per fare frequentare al bambino la scuola religiosa che, solo da poco, ammette fra i suoi studenti i figli dei contadini o degli operai. Con grande tenacia la donna riesce a far ottenere al figlio una borsa di studio e ad avere la gioia di vederlo ogni mattina frequentare il collegio teologico. Però, quando Stalin ha dieci anni, nel 1889, il padre torna ad imperversare e, di forza, conduce il bambino a Tiflis ad imparare il mestiere nel calzaturificio. Ma la mamma non si arrende e torna a riprenderlo, vincendo, fra un diluvio di percosse, una durissima battaglia. Stalin entra a far parte del coro della chiesa, dove mette in mostra buone doti vocali. Frequenta la scuola dove si appassiona alla letteratura georgiana, privilegiando i racconti romantici di Kazbegi sull’eroica resistenza delle tribù montane del Caucaso contro i conquistatori russi. Lo fa letteralmente impazzire il personaggio di Koba, una specie di Robin Hood caucasico, che sconfigge i cosacchi e difende i diritti dei contadini. Nel 1894, quando ha quattordici anni compiuti, Stalin ritorna a Tiflis per frequentarne il seminario che, mancando un’università in tutto il Caucaso per la precisa volontà delle autorità russe, raccoglie tutti i giovani georgiani che tendono a raggiungere un’istruzione 22 superiore, senza però avere, nella grande maggioranza, alcuna intenzione di diventare sacerdoti. L’atmosfera del seminario è severa militaresca e repressiva: oltre a pregare in piedi per molto tempo ogni giorno, si deve studiare intensamente antico slavo ecclesiastico, teologia, latino, greco, storia e letteratura russa. Nonostante, o proprio per questo, il continuo frugare dei monaci fra gli abiti e i cassetti degli studenti, serpeggiano violente idee sovversive. Stalin non vi si trova male e studia intensamente, sviluppando una memoria prodigiosa. I compagni lo rispettano anche per la forza fisica che racchiude in un corpo solido anche se non alto. Comunque sia, le dure esperienze di Gori e la continua repressione nel seminario, rafforzano nel giovane la voglia di apprendere, specialmente dai testi proibiti che riesce a procacciarsi in qualche modo. Legge Darwin, Comte, Marx e Plechanov, che è il primo marxista russo. Fonda successivamente, insieme con altri studenti, un circolo di studi socialista, del quale diventa un capo del tutto intollerante per chi non è d’accordo con lui. In Stalin studente si sviluppa sempre di più l’adesione all’idea marxista dell’inevitabilità della guerra di classe e della necessità di distruggere l’attuale ordine sociale, ingiusto e corrotto. Condisce il tutto con l’innata passionalità e l’odio che si è sviluppato contro il padre, in tal modo egli finisce con l’identificare i suoi nemici come nemici della storia. D’altra parte nel Caucaso, dove vi sono giacimenti petroliferi, raffinerie, un oleodotto e una ferrovia in costruzione, è attivo un circolo marxista chiamato Messame Dassy dove studenti e operai entrano in contatto. Lì Stalin conosce un giovane, Lado Keckoveli, che, avendo tre anni più di lui, aveva frequentato prima sia la scuola di Gori che il seminario di Tiflis. Il giovane futuro protagonista della storia ammira, quasi adora, Keckoveli, che oltretutto possiede il fascino di essere un clandestino e di aver imparato a fare il tipografo per produrre quasi un milione di copie di pubblicazioni illegali. Lo 23 frequenta intensamente apprendendo moltissimo su Marx, sulla rivoluzione proletaria e sui metodi per svilupparla. Tutto ciò rafforza la decisione di Stalin di lasciare il seminario per dedicarsi anima e corpo a fare l’agitatore e il rivoluzionario di professione, e, nel maggio 1899, quando già da un anno in Russia è stato fondato il Partito Operaio Socialdemocratico d’ispirazione marxista, egli viene espulso dalla scuola per non essersi presentato, senza motivi noti, agli esami di fine anno. Dopo aver frequentato le prime due classi di scuola elementare nel paese natale MUSSOLINI, che si è mostrato sveglio e intelligente ma anche provvisto di un carattere violento da piccolo teppista, viene iscritto, come interno, al collegio dei preti salesiani di Faenza, dove trascorre gli anni più difficili della sua infanzia e della sua adolescenza. Infatti, mentre a Dovia il ragazzo passa gran parte della sua giornata in assoluta libertà con la sola costrizione di qualche ora di scuola e viene poche volte punito dalle cinghiate paterne, impartite però col calore selvaggio di un padre che tutto sommato ama il figlio, nel collegio ogni cosa è diversa e impersonale. Innanzitutto c’è una disciplina ossessiva con un sorvegliante in tonaca che non lo perde mai di vista. Poi, ed è per Mussolini il fatto più traumatizzante, “A tavola noi ragazzi sedevamo in tre reparti. Io dovevo sempre sedere in fondo e mangiare coi più poveri . Potrei forse dimenticare le formiche nel pane della terza classe. Ma che noi bambini fossimo divisi in classi sociali, mi brucia ancora nell’anima”. Da qui nel ragazzo decenne (1893) si sviluppa ancora di più l’innato senso di ribellione che si esprime con una continua indisciplina e gli procura una serie di punizioni severe da parte di insegnanti, che sembrano crudeli e sadici. Non sono buoni i rapporti neppure con i compagni di classe o di camerata che, invece di aiutarsi fra di loro, sono sempre pronti alla delazione. E nel giovane Mussolini scompare, giorno dopo giorno, quel senso di cameratismo 24 che provava per i suoi compagni di gioco a Dovia e subentra, irreversibile, l’incapacità che sempre proverà a stabilire veri rapporti d’amicizia, come confesserà molti anni dopo: “Io non posso avere amici, io non ne ho. Primo per il mio temperamento, poi per il mio concetto degli uomini. Perciò non sento la mancanza né d’intimità né di discussione”. Nel 1894 tutto ciò sbocca addirittura nella violenza, e Mussolini, preso da tavola un coltello, insegue e ferisce alla mano un compagno: “Le grida del ferito richiamarono l’istitutore, il quale mi acciuffò e mi rinchiuse immediatamente in uno stanzino. Atterrito da quanto avevo fatto, mi misi a piangere e a implorare perdono, ma nessuno si fece vivo. (...) La notte era già inoltrata quando udii camminare alla mia volta. Diedi un balzo. Poi misero la chiave nella toppa e una voce cavernosa (...) mi ordinò :‘Esci! La tua coscienza è nera come il carbone. Tu dormirai con i cani di guardia stasera, poiché chi tenta di uccidere i propri compagni non deve più avere contatti con loro’. E ciò detto mi abbandonò in mezzo al corridoio.(...) Un latrato dei cani mi fece ritornare suoi miei passi. I cani s’allontanarono. Attraversai rapidamente il cortile per recarmi nella mia camerata. Ma il cancello d’ingresso alla scala era chiuso. Lo scossi. Inutilmente. Il rumore del ferro richiamò i cani. Fu quello un momento di tremenda paura. Mi arrampicai sul cancello e riuscii a scavalcarlo, non tanto in fretta però da non lasciare un lembo inferiore dei miei pantaloni fra i denti aguzzi di quelle bestie feroci. Ero salvo. Ma ormai estenuato. Avevo appena la forza di gemere. Dopo molto tempo l’istitutore della mia camerata ebbe pietà di me. Mi raccolse e mi condusse a letto. Alla mattina non potei alzarmi. Avevo la febbre altissima. Deliravo. Dopo tre giorni fui giudicato e condannato alle seguenti pene e cioè: alla retrocessione dalla quarta alla seconda elementare, all’angolo fino alla fine dell’anno, alla privazione della pietanza, a otto giorni d’isolamento in un camerino di fronte all’aula della quinta ginnasiale. Non mi espulsero dal 25 collegio perché le vacanze estive erano imminenti. Si trattava di poche settimane. Espiai le mie pene, senza chiedere, come mi veniva consigliato, il perdono e la grazia del direttore”. Ormai al ragazzo non conviene tornare per un terzo anno ai Salesiani e, dopo accese discussioni in famiglia, viene deciso che deve assolutamente proseguire negli studi e che ci si dovrà sobbarcare del notevole sacrificio di pagare la retta di un istituto laico di Forlimpopoli, il collegio Giosué Carducci dove Mussolini entra nell’ottobre 1894 per frequentarvi, da interno, la quinta elementare. Mentre in tutt’Italia fermentano agitazioni di lavoratori e si costituisce a Milano la prima Camera del Lavoro e in Sicilia i Fasci dei Lavoratori, viene fondato il Partito Socialista Italiano. Ma il Primo Ministro Crispi firma i decreti di scioglimento delle nuove organizzazioni e, a Milano, il generale Bava Beccaris fa sparare cannonate sui dimostranti che protestano per il carovita. Come se non bastasse, il corpo di spedizione italiano in Eritrea viene sbaragliato ad Adua dall’esercito del negus etiopico Menelik e Crispi è costretto a dimettersi e a riconoscere la piena sovranità dell’Etiopia. Invece al giovane Mussolini la vita e gli studi sembrano più facili nel nuovo collegio dove non vi sono discriminazioni sociali e gli insegnanti sono più comprensivi. Ciò nonostante il carattere del ragazzo, seppure avviato a un buon miglioramento, lo trascina ancora ad intemperanze che costringono il direttore del Carducci ad espellerlo come interno e a riammetterlo come esterno per gli ultimi tre anni che mancano al diploma. Certo il giovane Mussolini non si è del tutto normalizzato: stargli vicino non è molto gradevole per quella strana timidezza che improvvisamente si trasforma in orgogliosa irruenza e che, comunque, lo rende un ragazzo interessante ed importante fra i suoi coetanei. Egli va abbastanza bene in tutte le materie e, a volte, brilla in storia, geografia e italiano, dove riesce immediatamente a comprendere 26 l’essenza di ciò che studia. Indubbiamente quasi tutti i suoi insegnanti lo stimano, al punto che, quando nel gennaio 1901 muore Giuseppe Verdi, gli affidano il compito di commemorare in pubblico il grande musicista. Senza batter ciglio, Mussolini improvvisa un caloroso discorso che, partendo dall’opera artistica di Verdi, presto si trasforma in comizio politico sulla situazione italiana durante il Risorgimento in parallelo con l’attualità, e il quotidiano socialista “Avanti!” pubblica un trafiletto nel quale viene scritto: “Ieri sera al teatro comunale il compagno studente Mussolini commemorava Giuseppe Verdi, pronunciando un applaudito discorso”. Pochi mesi dopo, e prima che il giovane compia 18 anni, giunge il sospirato diploma di maestro elementare Quando HITLER bambino incomincia a frequentare la scuola elementare, il padre non ha motivo per lamentarsi di lui perché i maestri gli assicurano che il piccolo scolaro è tutto sommato brillante anche se è testardo e non si applica con la dovuta e fruttuosa costanza. Invece alla scuola media di Linz, dove Hitler viene iscritto nel 1900, è un vero disastro: voti bassissimi e la sufficienza solo in disegno. Ciò nonostante il padre non demorde dal fermo proposito che il figlio si diplomi come lui e, come lui, diventi un ottimo funzionario statale. Lo sorveglia e lo punisce continuamente e gli impedisce, per quanto gli è possibile, di giocare alla guerra e di leggere le storie d’avventura dei pellerossa nordamericani. Ma, quando il giovane non ha ancora compiuto 14 anni, Alois Hitler muore e il ragazzo chiede insistentemente alla madre di lasciare la Realschule per dedicarsi agli studi artistici. Non viene accontentato ed è costretto, con risultati ancor più disastrosi, ad andare nel collegio di Steyr fin quando, nel 1905, a 16 anni, un’infezione polmonare induce la madre, che teneramente lo ama, a consentirgli di tentare l’esame di ammissione all’Accademia di Belle arti di Vienna. In fondo però il giovane Adolf non è ansioso di farlo, ma solo di godersi la vita e per ben due anni non sostiene l’esame, ma si 27 gingilla a fare disegni, a dipingere, a vestirsi come i giovanotti benestanti, mostrando orgogliosamente un elegante bastone da passeggio nero con il manico d’avorio, e a spacciarsi per studente universitario. Come platea ha principalmente un amico più giovane appassionato di musica, al quale continuamente dice di sentirsi un vero genio artistico che avrebbe mostrato il suo talento prevalentemente nell’arte pittorica, e, forse, anche nell’architettura e nelle belle lettere. I due si recano sovente a teatro e Hitler assume come suo eroe Richard Wagner di cui ammira tutto: la teatralità, la dimensione epica delle sue opere e, non ultimo, il suo antisemitismo. E già in quegli anni Hitler descrive dettagliatamente al fedele amico di come un giorno avrebbe salvato il popolo tedesco. Poi la madre che, permettendo a Hitler di attingere dal lascito paterno e di poter spendere interamente la pensione che gli spetta quale figlio di un funzionario statale deceduto, gli consente di condurre quella vita scioperata, si accorge di essere affetta da un cancro al seno e insiste perché Adolf si trasferisca a Vienna e finalmente si presenti all’esame di ammissione all’Accademia. E’ l’ottobre 1907 quando il giovane ormai diciottenne sostiene l’esame, ma senza ottenere successo. Ciò nonostante fa credere alla madre ed ai parenti di essere entrato a vele spiegate nella desiata scuola di pittura. Però lo choc è stato così violento che odia profondamente quei professori, “maledetti ebrei”, che lo hanno respinto. Inoltre gli giunge notizia della malattia e delle condizioni disperate della madre dalla quale si precipita per assisterla amorevolmente fino alla morte, che gli procura un immenso dolore. Poi, incassata la magra eredità, torna a Vienna con il fedele amico, che, al contrario di lui, non ha difficoltà ad essere ammesso al Conservatorio di Musica. 28 I due vivono insieme in una linda, anche se superaffollata, camera d’affitto e conducono la vita affascinante degli studenti d’arte che vivono indipendenti e lontano dalle famiglie in una grande città. Fra di loro i due giovani parlano spesso di donne e Hitler lo fa con ardore, ma non risulta che abbia rapporti sessuali. L’amico, ai sempre più repentini sbalzi d’umore di Adolf, lo definisce “completamente squilibrato”. Inoltre, insospettito del fatto che mentre lui esce ogni giorno presto di casa per frequentare il Conservatorio Hitler rimane a letto, gli chiede dei suoi studi all’Accademia, provocando una vera e propria crisi nervosa in Adolf. Questi gli confessa la mancata ammissione e il suo odio verso i professori che, del tutto ingiustificatamente, l’hanno bocciato, ma gli dice anche di essere sicuro di poter divenire un architetto autodidatta e di trionfare nella vita nonostante tutto. In effetti Hitler è continuamente per strada e fa bozzetti dei più interessanti edifici, ma, quando l’amico nel luglio 1908 si trasferisce per le vacanze a Linz per poi tornare a Vienna in novembre, non si fa trovare. E’ scomparso nell’anonimato della grande città perché non ha il coraggio di confessare di essere stato, nell’autunno 1908, nuovamente respinto dall’Accademia. Con questo traumatico avvenimento si concludono definitivamente gli studi, veri o tentati, di Hitler. 29 | |
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| Titolo: Re: I CINQUE DUCI A CONFRONTO saggio di storia comparata Lun Ott 20, 2014 6:45 pm | |
| CAP. III QUAL E’ L’IMPATTO CON IL LAVORO E QUALI SONO I PRIMI PASSI IN POLITICA DEI CINQUE PROTAGONISTI Ad Aldershot gli ufficiali subalterni del 4° Ussari di cavalleria conducono giornate piacevoli con colazione a letto. Un’ora al comando di 30 soldati per sorvegliare che i cavalli siano strigliati, lavati e nutriti, un po’ d’equitazione e bagni caldi, cena, biliardo e bazzica. Il secondo luogotenente CHURCHILL vi si trova pienamente a suo agio e raggiunge addirittura la felicità quando viene incaricato di parlare agli elettori di Barneabury, cavandosela molto bene al punto da scrivere, nell’agosto del 1895, alla madre: “E’ un bel giocare il gioco della politica, e vale senz’altro la pena di aspettare una buona mano prima di tuffarvisi davvero (...) La vita militare tanto più mi piace, ma mi convinco che non è il mio mestiere. Bene, staremo a vedere”. Qualche mese dopo Churchill, usufruendo ancora una volta del patrimonio di famiglia, decide di andare a Cuba, dove le forze armate spagnole cercano di reprimere una violenta rivolta. Ma, come spesso succede, piove sul bagnato per lui, perché il prestigio del nome gli procura un incarico semiufficiale da parte del comandante in capo dell’esercito britannico e un contratto con il Daily Grafic, al quale avrebbe potuto inviare articoli dalla scena dell’insurrezione. Come se non bastasse, a New York i suoi cugini americani lo accolgono festosamente e gli procurano un servizievole valletto e gli ottengono di poter visitare West Point ,che è la Sandhurst americana, ma con una disciplina ben più severa che induce il giovane Churchill a scrivere al fratello: “Gli americani sono un popolo grande, rozzo, forte e giovane, simile a un robusto, chiassoso ragazzo in mezzo a dame e 30 gentiluomini fiacchi ma ben educati. (...) Immagina il popolo americano come un ragazzone gagliardo che calpesta tutta la tua sensibilità, che penetra ogni possibile nefandezza in fatto di maleducazione, cui né l’età e neppure la tradizione ispirano rispetto, e che pure si muove in mezzo ai suoi affari con una freschezza spensierata che può ben suscitare l’invidia di nazioni più vecchie”. Anche a Cuba Churchill è trattato dagli spagnoli con molto rispetto ed assiste ad alcuni sanguinosi scontri con i ribelli. Ne ricava, in uno dei suoi articoli, un giudizio favorevole alla causa dei cubani perché “L’isola era stata spremuta in misura enorme per un periodo considerevole e la Spagna estorceva tanto denaro al Paese che le industrie sono paralizzate e lo sviluppo è impossibile.(...) Ritengo che alla fine gli Stati Uniti interverranno per mettere pace”. La mamma del giovane, che da quando ha perso il marito è molto più partecipe della vita del primogenito, s’affretta ad inviare a Chamberlain una copia di un articolo di Winston su Cuba pubblicato da Saturday Review, ricavandone questo giudizio: “E’ la migliore sintesi che abbia letto sui problemi che gli spagnoli si trovano ad affrontare, e che concorda con le mie conclusioni (...) E’ evidente che Mr Winston ha tenuto gli occhi aperti”. Gli anni seguenti trascorrono per Churchill nei tentativi, spesso falliti, di ottenere dal prestigio e dalle conoscenze materne incarichi in zone militarmente calde per ottenere decorazioni e il diritto di “sostituire alla spada il tagliacarte e alla giberna il comizio”. Poi, di ritorno dall’India, chiede ai Conservatori di organizzargli una serie di comizi, dove sarebbe stato presentato come il figlio di Lord Randolph, nei quali dice: “...e ora dovrebbe iniziare il declino come a Babilonia, Cartagine e Roma. Non bisogna credere agli uccelli del malaugurio, ma smentire la loro lugubre profezia mostrando con le nostre azioni che il vigore e la vitalità della nostra razza restano integri, che da veri inglesi siamo decisi a conservare l’impero ereditato dai nostri padri e la nostra bandiera sventolerà sui mari, la nostra voce sarà 31 ascoltata nei consigli d’Europa, la nostra Sovrana, incoraggiata dall’amore dei suoi sudditi, ci guiderà sicché continueremo a seguire la strada indicataci da una mano onnisciente e a svolgere la nostra missione di portare pace, civiltà e buon governo nei più remoti angoli della terra”. Ritorna in India e, nell’Agosto 1897, inizia un lungo viaggio per giungere a Malakand, dove tutte le tribù di razza afgana sono in rivolta. Come Churchill scrive al fratello, è per gli inglesi “impossibile ignorare un torto subito: bisogna vendicarlo. Così a nostra volta dobbiamo attaccare afridi e orakzai e altri che hanno osato violare la Pax Britannica”. Nel frattempo, la mamma onnipresente ha convinto il Daily Telegraph a pubblicare lettere dal fronte del giovane ufficiale e l’Allahabad Pioner ad accettare un telegramma quotidiano di 300 parole dalla frontiera, ma entrambe le testate omettono di firmare i pezzi col nome dell’autore. Churchill entra subito in azione sia come giornalista che come ufficiale, ed è più volte nel vivo di selvaggi combattimenti dove mostra un notevole coraggio, quasi a volersi definitivamente riabilitare dalle critiche che il padre gli aveva rivolte durante gli studi. Egli scrive alla madre: “Ambisco alla fama di coraggio personale più di qualunque altra cosa al mondo poiché in molte cose -in particolare a scuola- sono un codardo”. Ma, in fondo, è l’ambizione politica, che si fa sempre più pressante, che lo guida a mettersi in mostra a qualsiasi rischio. Tutto, medaglie, nastrini, uccisioni, articoli e un romanzo già iniziato, deve servire ad acquisire una vasta notorietà che lo favorirà, ne è certo, in politica. Più volte è menzionato nei bollettini e apprezzato dai superiori, e , abbandonato il romanzo, inizia a scrivere Story of Malakand Field Force dicendo: “Ogni cosa necessita di un duro lavoro e di frequenti rielaborazioni. (...) Una buona conoscenza della storia è una faretra piena di frecce nelle discussioni”. 32 Il 31 dicembre 1897 invia il manoscritto alla madre che gli trova subito agente letterario ed editore. Nel frattempo Churchill, che ha assistito alle atrocità degli indigeni e a quelle ancor più terribili degli inglesi che, fra l’altro, fanno largo uso delle nuove pallottole dumdum “i cui effetti dirompenti sono semplicemente spaventosi. E’ un quadro terribile e naturalmente presenta aspetti cui non si fa cenno sulla stampa...”, scrive alla madre: “...naturalmente basta osservare la natura per accorgersi quanto poco valore attribuisca alla vita, la cui santità è un’idea squisitamente umana. Prova a pensare che la magnifica farfalla, 12 milioni di piume sulle ali, 16mila lenti nell’occhio, è solo un boccone per l’uccello...” Immediatamente dopo Churchill, nonostante gli splendidi rapporti con la madre, avvia una causa per impedirle di trasferire parte dell’eredità ad un eventuale secondo marito che avrebbe potuto essere “un uomo povero non di mio gradimento, un vagabondo”. In effetti il giovane è preoccupato, perché l’eccessiva prodigalità della madre ha più che dimezzato il patrimonio familiare, e i Churchill sono abituati a vivere nel lusso. Inoltre fare politica, che ormai è sempre più lo scopo della vita di Winston, costa e molto. Poi ci ripensa e annulla tutto, dicendo “confido nella mia capacità di scongiurare definitivamente la miseria grazie al giornalismo”. Torna a rivolgersi alla madre per chiederle di organizzare alcune riunioni politiche di grandi dimensioni e per ottenere che il generale Kitchener, comandante dell’esercito in Sudan, lo chiami in servizio presso di lui. Mentre i comizi si svolgono splendidamente e Churchill viene acclamato con “un entusiasmo incredibile”, Kitchener non molla, nonostante sia intervenuto in favore di Winston addirittura il Primo Ministro che ha letto il suo libro e lo invita per la prima volta al numero 10 di Downing Street. Ma poi l’insistenza pressante di molte ladies, che contano nei salotti e nei letti, gli ottiene la chiamata desiderata presso il 21° lancieri in Egitto, e un amico di famiglia, 33 proprietario di giornali, gli fa avere l’incarico dal Morning Post per una serie di articoli compensati con 15 sterline a colonna. Il 26 agosto 1898 Churchill è al fronte sudanese, dove si distingue per coraggio e intelligenza e ha anche modo di conoscere e farsi apprezzare da Kitchener, che procede allo sterminio dei dervisci con decisione e ferocia tali da indurre Winston a scrivere alla madre: “La vittoria di Omdurman fu disonorata dal massacro inumano dei feriti, Kitchener ne è responsabile”. E nel suo nuovo libro, The River War, scrive: “Per ordine di Sir H. Kitchener la tomba era stata profanata e rasa al suolo e la salma del Mahdi disseppellita. La testa fu staccata dal corpo e, per citare la spiegazione ufficiale, ‘preservata per future disposizioni’, espressione che in questo caso significa che passò di mano in mano fino ad arrivare al Cairo”. Ora non c’è più bisogno di raccomandazioni: anche i giornali più grandi vogliono Churchill come collaboratore, e lui, mentre continua a scrivere il libro sui dervisci e la loro sconfitta, decide di lasciare l’esercito entro sei mesi per dedicarsi alla politica. Tornato in Inghilterra, il 9 giugno 1899 si presenta alle elezioni suppletive di Oldham per il partito conservatore, ma viene battuto per poco più di mille voti dal candidato liberale. Non passano che pochi mesi e Churchill è nuovamente in azione: il suo desiderio di successo e di superare le imprese paterne è sempre più vivo! Il Daily Mail gli ha offerto l’incarico di corrispondente in Sud Africa, dove sta per scoppiare un conflitto con i Boeri, e Churchill gioca al rialzo, finendo con l’ottenere dal Morning Post un compenso per 4 mesi, tutto compreso, di ben 1.000 sterline (circa 100 milioni di lire di oggi). Ed ecco, nei primi giorni di novembre 1899, Churchill cercare in tutti i modi di raggiungere la città di Ladysmith, accerchiata dai boeri, senza riuscirci. Poi ha la discutibile fortuna d’incontrare un suo amico dai tempi dell’India, il capitano Haldane, che ha ricevuto un ordine di ricognizione su di un treno corazzato e che lo invita ad 34 accompagnarlo. E’ il 15 novembre quando il treno, composto da un vagone armato di un potente cannone di marina, 3 vagoni corazzati con 150 uomini a bordo, e una locomotiva con il tender, parte. Ma dopo qualche ora viene centrato da una granata boera, mentre s’intravedono truppe nemiche che tendono un’imboscata alla quale gli inglesi cercano di sfuggire a tutto vapore. Un masso sui binari fa deragliare alcuni vagoni e Churchill, quale ex ufficiale, offre ad Haldane i suoi servigi, che vengono immediatamente accettati. Qui inizia l’epopea di Winston. Il futuro protagonista della storia va avanti e indietro intrepidamente e rivitalizza il macchinista colpito al capo. Poi, nonostante un vivissimo fuoco d’artiglieria nemico che causa 4 morti e 30 feriti, riesce a salvare locomotiva, tender e vari uomini. Torna intrepidamente da solo indietro per cercare Haldane e gli altri che, nel frattempo, dopo essersi asserragliati in una casa colonica, vengono fatti prigionieri. A sua volta Churchill, che è senza la pistola, viene perseguitato da due fanti e da un alfiere boeri che, alla fine, riescono a catturarlo e a condurlo “come bestiame” nella prigione di States Model School da dove scrive lettere a profusione: alla madre, al Principe di Galles, e al Ministro della Guerra boero, chiedendo di essere liberato immediatamente perché non è un militare, ma un corrispondente di guerra. Tutto è inutile: i Boeri dicono che si è comportato nell’azione come un soldato, non come un giornalista. Allora chiede ad Haldane di poter far parte di un tentativo di fuga con lui e il sergente maggiore Brokie. I tre dovrebbero, nascondendosi di giorno e viaggiando di notte, compiere a piedi ben 500 chilometri fino al confine con il Mozambico portoghese. Prima, però, bisogna scavalcare un muro, sempre sorvegliato, fra la prigione e un piccolo giardino privato. Dopo vari tentativi, in una notte senza luna, Churchill vi riesce e gli altri due no, ma, in un romanzesco dialogo attraverso il muro di lamiera, i compagni lo incitano a proseguire da solo. 35 E’ il 12 dicembre, Churchill salta su di un treno in corsa e, giunto dopo molte ore nei pressi di un piccolo centro minerario, si lancia giù affamato ed assetato. S’incammina verso le luci di alcune misere case, dove ha la grande fortuna di trovare minatori inglesi che lo nascondono nel più profondo della miniera, fra una massa formicolante di topi bianchi. Nel frattempo in tutto il Transvaal si cerca di riprenderlo: c’è una taglia di 25 sterline per la sua cattura vivo o morto. Viene diffusa una sua fotografia con questa descrizione: “Inglese, 25 anni, altezza circa 1 metro e 73 centimetri, corporatura media, colorito pallido, capelli rosso scuro, baffetti quasi invisibili, voce nasale, pronuncia male la lettera s , non parla l’olandese”. Alcuni giorni dopo, aiutato dai provvidenziali amici minatori, si nasconde in un vagone di un treno diretto nell’Africa orientale portoghese e, alle 4 del pomeriggio del 21 dicembre, è al consolato britannico dove, oltre a spedire una marea di telegrammi, fa un bagno ristoratore e apprende che la guerra va male per gli inglesi. Poi parte per Pretoria dove trova una folla entusiasta che lo scorta applaudendolo fino all’ingresso del municipio. La popolarità tanto cercata è finalmente giunta! Non può deluderla ritornando subito in patria, quindi riprende per mesi l’attività di corrispondente, insieme a quella di luogotenente della South African Light Horse, mentre i suoi libri vanno a ruba e varie circoscrizioni elettorali inglesi gli chiedono di candidarsi per le elezioni generali. Sceglie ancora una volta Oldham e la famosa rivista Vanity Fair pubblica una vignetta su di lui con questo testo: “Sa scrivere e sa combattere. Aspira alla politica fin da quando era bambino ed è probabile che tutte le sue fatiche, militari o letterarie, siano state compiute con un occhio alla politica”. Sbarca in Inghilterra e 10.000 persone invadono le strade per festeggiarlo, ma la mamma non è lì: sta per sposare un capitano che ha solo 16 giorni più di Winston e vent’anni meno di lei. Allora Churchill va ad abitare in un elegante appartamento da scapolo e il 1° ottobre 36 1890 viene eletto deputato. Per quasi quattro mesi, sull’onda della fama derivatagli dalle sue avventure sudafricane, tiene, in Inghilterra e negli Stati Uniti, una lunga serie di conferenze a pagamento, che gli fruttano ben 10.000 sterline, quasi un miliardo di lire di oggi! Poi il corso della sua vita diviene meno frenetico: è un deputato di 27 anni, giovane, ma assai più noto e corteggiato di colleghi alla loro prima esperienza in parlamento. Quattro anni dopo, quando il premier conservatore Chamberlain inizia una politica fortemente protezionista, Churchill gli si schiera contro e passa al Partito Liberale, propugnando libertà di commercio. Ne viene premiato nel 1906, a 32 anni, quando il governo retto dai liberali lo chiama a farvi parte come Sottosegretario alle Colonie. Dopo altri due anni Churchill fa ancora un passo avanti e diviene, prima Ministro del Commercio, e poi Ministro degli Interni. A 34 anni è ormai un uomo politico influente e collabora strettamente con il Primo Ministro, Lloyd George, nel promuovere fondamentali provvedimenti sociali come: assistenza sanitaria, sussidi di disoccupazione, e limitazione della giornata lavorativa nelle miniere. Nella politica militare Churchill privilegia il rafforzamento della Marina da Guerra e viene nominato Primo Lord dell’Ammiragliato, adoprandosi, con l’attivismo e l’aggressività del suo forte carattere, per ottenere un significativo incremento delle costruzioni navali. Molto meno articolato e avventuroso è invece l’impatto con il lavoro e la politica per ROOSEVELT. Nel 1905 supera l’esame di Stato ed entra nello studio legale Carter-Ledyard-Milburn dove si occupa, senza grande entusiasmo, di cause di diritto marittimo. Ma anche per lui, come per Churchill, la massima aspirazione è la carriera politica, perché tanto ammira e vuole imitare il cugino Presidente. Forse è proprio per ottenerne i favori che lui, giovane ricco e bello, sposa, appena ventitreenne, la nipote diretta e prediletta di Theodore Roosevelt. La ragazza diciannovenne, infatti, non sembra proprio poter ispirare grandi passioni amorose: è intelligente, ma non bella né 37 aggraziata, e il suo aspetto mascolino, la voce stridula e il sorriso che mette in mostra denti sporgenti, sono tutt’altro che attraenti. Eppure, dopo un breve e facile corteggiamento, Franklin la sposa il 17 marzo 1905, ricevendo come ricompensa al matrimonio la presenza ammiratissima di Theodore, che abbraccia gli sposi davanti ai giornalisti estasiati e tiene il discorso di circostanza. Ciò nonostante debbono trascorrere quasi cinque anni nella routine della professione che non ama e le continue gravidanze della moglie, perché il mondo politico si accorga di Franklin. Stranamente sono i democratici e non i repubblicani a pensare che, in quel periodo di confusione, un Roosevelt democratico possa essere utile al partito e gli propongono di candidarsi ad un seggio senatoriale per lo Stato di New York. Franklin non se lo fa dire due volte e, anche se ha sempre votato repubblicano in omaggio a Theodore, rispolvera la fede democratica del padre e del nonno. Ma il collegio nel quale deve candidarsi non si presenta come una conquista facile perché è una roccaforte repubblicana. Ed ecco venir fuori il temperamento del giovane Roosevelt che organizza una campagna aggressiva e spettacolare con l’uso, così poco consuetudinario, di un’automobile decappottabile completamente ricoperta di manifesti, con la quale gira per tutto il collegio, improvvisando discorsi dovunque trova un po’ di gente, attratta più dall’auto che da lui. Non è un buon oratore, ma gli strali che lancia con veemenza contro l’alta finanza, la corruzione politica e le argomentazioni in favore della sicurezza del cittadino, il diritto al guadagno e alla felicità, conquistano gli ascoltatori. E’ il 1910 quando viene eletto e subito si trasferisce, con tutta la famiglia, ad Albany, capitale dello Stato, anche per allontanarsi dalla madre, il cui amore s’è tanto intensificato da divenire quasi maniacale. Subito la sua azione di senatore è improntata in senso progressista e riformatore e, capeggiando la rivolta dei “giovani leoni” contro la 38 designazione di Sheehan a senatore dell’Unione, mette in luce una grande abilità che gli frutta il successo, un’ampia popolarità sui giornali e il merito di una riforma costituzionale, che stabilisce l’elezione diretta dei senatori dell’Unione da parte del popolo. Tre anni dopo, nel 1913, il nuovo presidente Wilson, che Roosevelt ha appoggiato come candidato democratico, si disobbliga nominandolo, a 31 anni, Sottosegretario alla Marina, dove si trova ad avere alle sue dipendenze circa centomila civili che riesce a guidare tanto abilmente da farli collaborare attivamente al potenziamento della flotta da guerra americana senza un solo sciopero. In questa occasione Roosevelt conferma definitivamente come suo prezioso assistente il giornalista Howe. Meno felice nelle scelte si dimostra Eleanor, che gli raccomanda come segretaria una bella ragazza ventiduenne di cui Franklin presto s’innamora, facendone la sua amante e riuscendo persino (con l’uso della stessa astuzia e spregiudicatezza sperimentata in politica) ad inserirla nella vita familiare fin quando, anni dopo, la moglie non viene a scoprire la verità e gli offre il divorzio. Ma Roosevelt non accetta e rinuncia alla ragazza, perché più di tutto ama la sua carriera, ed Eleanor, seppure insopportabile e poco femminile, gli è assolutamente indispensabile. Al contrario di Churchill e Roosevelt, STALIN vive lontano dalla ricchezza e da conoscenze altolocate. Inoltre la Russia della fine Ottocento è la più vasta, ma anche la più arretrata, delle grandi potenze. Ha 129 milioni di abitanti di cui circa l’85% analfabeti. Solo poco più di centomila persone studiano o hanno studiato all’università. Buona parte dell’economia si fonda su un’agricoltura arretrata che, comunque, procura l’essenziale per vivere a 90 milioni di contadini. Da qualche tempo si punta sull’industria, che si va sviluppando impetuosamente, dove intellettuali russi, convertiti al marxismo, penetrano nei circoli operai cercando di fare proseliti per le loro idee rivoluzionarie. Fra questi è Stalin che, all’età di vent’anni, ha ormai 39 definito sia i propri ideali che il suo futuro lavoro: agitatore professionista e politico. Ecco perché trascura gli esami al seminario facendosi espellere. Ma il giovane deve pur mangiare e gli studi che ha fatto gli danno la possibilità di essere assunto come impiegato all’Osservatorio Astronomico di Tiblis nel 1899. Nella sua attività prediletta, condotta parallelamente, ha assunto il nome di battaglia di Koba e dirige, a 22 anni, una violenta agitazione fra gli operai del petrolio nella città di Batum. Presto le manifestazioni diventano imponenti e si trasformano in grandi scioperi, che generano scontri armati con la polizia e l’esercito. Il giovane Stalin, a 23 anni (1902), viene arrestato ed imprigionato per sei mesi in varie carceri della Georgia. Ovviamente perde il posto di lavoro e viene condannato a tre anni di confino in Siberia, ma , durante il viaggio, fugge e fa ritorno nella sua città, dove riprende l’attività di rivoluzionario. E’ ormai un clandestino. Tuttavia, fornito di documenti falsi, pubblica articoli sia sui giornali marxisti che circolano di nascosto, sia su quei pochi che hanno il permesso di essere distribuiti legalmente. Continua ad organizzare l’attività rivoluzionaria dei lavoratori e viene ancora più volte arrestato. Sempre riesce a fuggire. Nel frattempo ha aderito alla corrente bolscevica del Partito Operaio Socialdemocratico e, come delegato del Caucaso, partecipa al Congresso Bolscevico di Tammerfors, dove finalmente incontra il già mitico Lenin che gli appare il suo nuovo Koba, “un leader di incomparabile statura, un’aquila di montagna, impavido di fronte alla lotta e che con audacia guida il partito lungo sentieri inesplorati”. Anche il grande capo incomincia ad apprezzare il giovane rozzo e scorbutico che afferma continuamente “Anche quando dormono, i contadini sognano di potersi impossessare delle terre dei grandi proprietari terrieri” mostrando un gretto realismo, ma anche tanta forza e tanta fede. Decide quindi di inviarlo ai congressi della Socialdemocrazia russa di Stoccolma e Londra (1906 e 1907), dove il ventottenne Stalin ( tale è 40 il suo nuovo e definitivo nome di battaglia che significa “uomo d’acciaio”) viene considerato uno dei massimi dirigenti bolscevichi del Caucaso. Nel frattempo nel 1906, nonostante la vita tumultuosa e pericolosa, si sposa con Ekaterina Svanidze dalla quale ha un unico figlio. Successivamente Stalin si trasferisce nella città industriale di Baku, che è da tempo teatro di aspra rivalità fra menscevichi e bolscevichi, e diviene il deus ex machina delle attività illegali per finanziare il Partito, consistenti nei cosiddetti “espropri proletari”, ossia rapine e assalti armati a banche, casse e uffici governativi. Nel 1912 giunge per il trentatreenne Stalin il vero successo politico, che lo proietta da un ambito regionale ai vertici nazionali. Infatti, nonostante sia stato confinato a Vologda nella Russia Settentrionale, viene eletto fra i nove membri del Comitato Centrale del Partito Socialista Russo. Appena saputo della nomina, Stalin non esita un attimo a fuggire dal confino, perché deve assolutamente mantenere l’importantissima posizione acquisita dopo tanti anni di lotta. Intensifica quindi, in tutto il Paese, la sua azione, ottenendo due risultati fondamentali: la pubblicazione del primo numero della “Pravda”, il giornale dei Bolscevichi in Russia, e l’organizzazione accurata dell’elezione dei deputati alla quarta Duma, dove riesce a portare, fra i tredici deputati socialdemocratici, sei bolscevichi. Si stabilisce poi a Pietroburgo e Lenin gli affida stabilmente la direzione del giornale. L’anno dopo Stalin è nella Polonia austriaca a Cracovia per incontrare Lenin, e poi a Vienna dove prepara uno scritto fondamentale, che espone il punto di vista bolscevico sul problema delle nazionalità. Questo saggio, dal titolo “Il marxismo e la questione nazionale”, rivela in Stalin una notevole cultura e lo afferma definitivamente anche come teorico. Ma non ha il tempo per goderne i risultati: viene arrestato a Pietroburgo, esiliato e tradotto (questa volta sotto rigorosa sorveglianza) in Siberia. 41 MUSSOLINI nel 1901 (a 18 anni) ha ottenuto il diploma di maestro parallelamente alla fama di individuo violento e donnaiolo. Ma è anche ritenuto intellettuale e bohemien, perché scrive poesie e cerca di farsele pubblicare, perché conosce a memoria interi canti della Divina Commedia e perché legge forsennatamente, e più volte, di tutto. Ha bisogno di guadagnare e, forte del diploma, fa domanda per un posto di maestro a Predappio, Legnano, Castelnuovo Scrivia, Tolentino e Ancona. Senza successo. Poi prova ad essere assunto come secondo aiutante del segretario del Comune di Predappio, ma la sua cattiva fama gli procura un deciso rifiuto. E’ scoraggiato al punto da scrivere ad un amico: “Ma vedi la filosofia m’ha reso perfettamente uno stoico. Guardo e sorrido. Che è la nostra miserabile esistenza al paragone del macrocosmo (...) Così rido. Ridere, ridere sempre! Ho concorso in 4 posti, ma probabilmente rimarrò a piedi ed io me ne vendicherò andando alla strada di Zeno a condurre una carriola e colla licenza avvolgerò mite lo stracotto e abbrucerò i libri”. Ma è solo un atteggiamento, perché continua a studiare, prendendo lezioni di latino e di musica, oltre a comporre un’infinità di poesie. Improvvisamente, ai primi di marzo 1902 il padre gli fa ottenere una supplenza alla scuola maschile di Pieve Saliceto, una frazione del comune di Gualtieri, che è il primo in Italia ad avere un’amministrazione “rossa”. Ma a giugno non viene confermato per l’anno successivo, non perché abbia mostrato carenze come maestro, ma per aver subito intrecciato una burrascosa relazione con una ventenne sposata con un militare che, appena viene a conoscenza dell’adulterio, scaccia di casa l’infedele, e, come ricorda Benito, “Essa si prese il suo piccino e riparò nella stanza dove ci eravamo incontrati la prima volta. Tutte le sere io l’andavo a trovare. Ella aspettava sempre sulla porta (...) Nel paese, la nostra relazione era oggetto di scandalo, ma noi ormai non ne facevamo più mistero alcuno. Ci recammo insieme a certe saghe campestri...”, . 42 Mussolini si ritrova quindi a 19 anni (1902) disoccupato, anche se è entrato in politica ed è riuscito a diventare segretario del Circolo Socialista di Gualtieri, dove incomincia a mettersi in luce scrivendo articoli per vari giornali della Sinistra ed improvvisando, con non comune abilità, discorsi su qualsiasi argomento. Ma la politica, gli articoli e i discorsi gli fruttano solo pochi soldi e nel mese di luglio il futuro Duce si trasferisce in Svizzera, dove fa dapprima il muratore e poi il commesso in un negozio. Ora la politica diviene per lui una vera e propria passione, oltre che un mezzo per tentare di ottenere una migliore collocazione nella vita, e il giovane s’inserisce nell’attività che il Partito Socialista svolge fra gli immigrati italiani. Fra l’altro scrive sul giornale “Avvenire del lavoratore”, riesce a frequentare la rivoluzionaria russa Angelica Balabanoff, che lo aiuta ad approfondire la conoscenza dei classici del socialismo europeo, frequenta per vari mesi le lezioni del grande sociologo Pareto all’Università di Losanna, nella cui fornitissima biblioteca Mussolini, mai sazio di sapere, trascorre lunghe e utilissime ore a fare vaste, anche se disordinate, letture. Però la sua attività di agitatore lo fa arrestare, prima a Berna e poi a Losanna. Nel 1904 (a 21 anni) l’inquieto giovane trascorre qualche tempo in Francia ed anche qui viene arrestato. Poi, approfittando di un’amnistia che estingue la condanna ad un anno di prigione per renitenza di leva, rientra in Italia e compie disciplinatamente il servizio militare a Verona come bersagliere. Quando nel settembre 1906 torna alla vita civile, il ventitreenne Mussolini riprende l’attività di maestro elementare come supplente a Tolmezzo, dove non riesce assolutamente ad inserirsi nella scuola, al contrario di quello che gli accade con le donne del paese, con le quali intreccia sordide relazioni che gli rendono “gli ultimi mesi assai tempestosi. Ebbero luogo fra me e il marito della P. spiegazioni assai penose, scambio d’invettive e un pugilato, nel quale la peggio toccò naturalmente al marito, più vecchio e debole di me. Nel paese non si 43 parlava che di questa nostra scandalosa relazione”. Ovviamente nemmeno questa volta la supplenza gli viene rinnovata e Benito torna a Dovia, stanco e sfiduciato, con progetti di emigrare definitivamente in America. Ma, come sempre, presto si risolleva e a novembre ottiene a Bologna, dopo esami scritti e orali, l’abilitazione all’insegnamento della lingua francese nelle scuole secondarie che mette a frutto, dal febbraio 1908, nel collegio Ulisse Calvi di Oneglia, dove gli spetta il titolo di professore. Finalmente si trova bene e non dà scandalo con amori proibiti. Anzi, stringe amicizia con influenti socialisti con il cui aiuto spera di poter porre le basi per una candidatura politica. Pubblica in appena quattro mesi ben 24 articoli per il settimanale “La lima” e decide di abbandonare definitivamente l’insegnamento, per dedicarsi interamente alla politica e al giornalismo. Dopo aver partecipato alle lotte dei braccianti in Romagna, nel 1909 Mussolini si trasferisce a Trento, che è ancora austriaca, e, con la raccomandazione della Balabanoff, dirige il segretariato trentino del lavoro e il settimanale “L’avvenire del lavoratore”. Poi, presentato a Cesare Battisti, diviene redattore capo del suo giornale, “Il popolo”. Il modo di condurre il quotidiano, gli attacchi violenti al partito clericale ed in particolare ad Alcide De Gasperi, conducono Mussolini a ben cinque condanne e più volte in carcere. Infine all’espulsione dal Trentino, dove aveva concepiti sia il romanzo storico “Claudia Particella, l’amante del cardinale” che il saggio “Il Trentino veduto da un socialista”. Entrambi scritti e pubblicati qualche mese dopo, sotto la spinta di un assoluto bisogno di denaro, che costringe Mussolini, nel febbraio del 1910, a scrivere a Cesare Battisti: “Come avrai visto dal giornale che ti ho mandato, mio padre trovasi colpito da paralisi all’ospedale. Per istallarcelo abbiamo vuotato la casa. Bisogna anticipare l’importo per un mese di degenza: tre lire al giorno. La mia crisi finanziaria è acutizzata dal mio faux-menage iniziato nel gennaio Puoi pensare che io non ho scritto Claudia P. per i begli 44 occhi delle Claudie trentine attuali, né del resto per speculare sul “Popolo”. Verbis brevis io ti chiedo 200 lire. Non spaventarti, amico mio, leva da tale somma le 65 lire che ti debbo per la stampa della santa di Susà e le 20 che mi consegnasti a Verona. Rimangono 115. Converrai che romanziere non deprezzò mai a tal punto la sua prosa narrativa. Senti: per il 16 corrente ho uno di quegli impegni che torcono il collo: mandami 65 lire , le altre 50 me le darai quando vorrai. Più che una ricompensa, mi farai un piacere e te ne sarò grato. Ad ogni modo scrivimi subito qualcosa. Spero che non farai il sordo, ma ricordati che stroncherò il romanzo. Absit injuria verbis e ciao, tuo Mussolini”. Nel frattempo, come anche risulta dalla lettera, l’inquieto Benito si unisce a Rachele Guidi, che è la figlia della nuova compagna del padre, rimasto vedovo nel 1905, e il primo settembre nasce la sua primogenita, alla quale dà il nome Edda. Sempre in Romagna, dove s’è nuovamente stabilito, il giovane socialista , che ha acquisito il marxismo esclusivamente come lotta di classe e lo ha mescolato con gli aspetti irrazionalistici e volontaristici della cultura del tempo, come il vivere pericolosamente e il mito del superuomo di Nietzsche e la funzione della violenza nell’agire storico di Sorel, diviene nel 1910 segretario della Federazione Socialista Forlivese e direttore del giornale “Lotta di classe”, che presto raddoppia le vendite. I suoi discorsi si moltiplicano e nel 1911 il futuro Duce capeggia la protesta contro la guerra in Libia, ricavandone una condanna a cinque mesi di carcere, ma anche l’assoluta preminenza nel Congresso del Partito Socialista a Reggio Emilia e la direzione dell’importante quotidiano del Partito, “Avanti!”, che si pubblica a Milano, e dalle cui colonne raggiunge, a meno di 30 anni, larghi consensi e una vasta popolarità nazionale, come attesta persino Antonio Gramsci che scrive: “L’Avanti! Diretto dal Mussolini, lentamente, ma sicuramente si viene trasformando in una palestra per gli scrittori sindacalisti e meridionalisti. I Facello, i Lanzillo, i Panunzio, i Ciccotti ne 45 diventano assidui collaboratori: lo stesso Salvemini non nasconde le sue simpatie per Mussolini, che diventa anche il beniamino della Voce di Prezzolini”. A novembre 1908 HITLER ha ancora del denaro e riesce a sopravvivere per un anno in una buia stanzetta a basso prezzo. E’ ormai completamente solo e trascorre le giornate a leggere nelle biblioteche pubbliche. Poi rimane completamente senza soldi ed incomincia a dormire, come un vero barbone, nei parchi o negli androni dei palazzi e a mangiare facendo la fila avanti alla cucina d’un convento. Infine riesce ad entrare in un ospizio per senzatetto delle suore di carità. Lui che era un giovane snob, abituato a vivere senza problemi economici, anche se mai nel grande lusso come Churchill e Roosevelt, ora è solo un vagabondo ai margini di tutto! Ne viene però tirato fuori parzialmente da un certo Hanisch, che ha imparato a muoversi nella miseria. I due fanno società: Hitler dipinge quadri e l’altro li vende. Un po’ di denaro torna nelle tasche di Adolf, che alloggia per tre anni in un albergo dei poveri migliore dove usufruisce di un trattamento particolare perché, come pittore di quadretti di maniera, viene pur sempre considerato un artista e, quindi, un intellettuale. In quello strano ambiente trova anche un pubblico ed incomincia ad uscire dalla solitudine e dall’estraniazione in cui è sprofondato. E’ ormai l’inizio del 1913 e il giovane ventiquattrenne quando sente parlare di politica si trasfigura: s’alza in piedi e incomincia a sproloquiare, ma è ancora lontano dal praticare vera politica attiva. Poi, con maggior calma e al di fuori dell’ospizio, ascolta con attenzione discorsi e dibattiti politici nei quali interviene, dapprima, timidamente e, poi, con più convinzione. In queste occasioni si accorge di riuscire a trascinare gli interlocutori quando ripete ossessivamente il concetto che ha nella mente. Il giovane Hitler prova un profondo odio per i suoi simili nei quali trasferisce costantemente l’esecrata figura paterna, e diviene sempre 46 più irresistibile in lui il concetto che gli uomini sono molto stupidi e deboli quando sono schiavi di stucchevoli sentimentalismi. Però, per lui, in ogni caso i tedeschi sono superiori agli altri popoli, ma non nel vecchio e cadente Impero Austro-ungarico. Ed è proprio per non prestare servizio militare nella nazione dov’è nato che si trasferisce a Monaco nel maggio 1913, quando ha 24 anni. 47 CAP. IV I CINQUE PROTAGONISTI DURANTE E DOPO LA GRANDE GUERRA 1914/18 Quando nel 1914 scoppia la Grande Guerra, ROOSEVELT è ancora segretario aggiunto alla Marina ed è immediatamente favorevole ad un intervento americano o, quantomeno, a far in modo che la flotta sia pronta ad un eventuale impiego. Ma il presidente Wilson lo frena e gli dice: “Venga, Roosevelt, si sieda. Le voglio spiegare. Noi operiamo sotto gli occhi della storia. Certo, la nostra entrata in guerra è possibile. Ma, vede, nel 1980 qualche storico scriverà su questa guerra: forse un tedesco, forse un russo; ebbene costui dovrà poter dire: l’America è stata trascinata alla guerra impreparata”. E così avviene davvero, perché quando gli Stati Uniti entrano in guerra solo un terzo della flotta è pronto e occorrono nove mesi perché tutte le navi siano in buona efficienza. Ancora Wilson blocca lo scalpitante Franklin che, ad imitazione di quello che aveva fatto Theodore nel conflitto con la Spagna, vuole dimettersi dall’incarico governativo ed arruolarsi. Riesce soltanto a conoscere Churchill in una sua visita di lavoro negli Stati Uniti ed a recarsi ad ispezionare basi americane sorte alle Azzorre e a Corfù. A guerra largamente conclusa Roosevelt, che nel frattempo è stato in Europa con Wilson, i cui famosi “14 punti” alla Conferenza di Pace scontentano sia vincitori che vinti, accetta di presentarsi, nel 1920 quando ha 38 anni, come candidato democratico alla vicepresidenza degli USA con Cox che è candidato alla presidenza. Ma l’ombra negativa di Wilson e una violenta campagna elettorale da parte dei suoi avversari lo condannano all’insuccesso, a ritirarsi deluso dalla vita politica e ad accettare l’incarico di direttore di agenzia della 48 società di assicurazioni Fidelity and Deposit Company, che gli offre ben 25mila dollari di stipendio annuo. Nemmeno un anno dopo viene improvvisamente aggredito da un violento attacco di poliomielite. Salva la vita, ma rimane quasi completamente paralizzato alle gambe, senza alcuna speranza di poter guarire completamente. E’ lunga e dura la battaglia per riuscire ad accettare di convivere con la grave menomazione, ma Roosevelt, ha tre alleati impareggiabili: il suo forte temperamento, la moglie e l’amico Howe, che abbandona immediatamente un ottimo lavoro a Washington per dedicarsi completamente a lui. E Franklin lentamente migliora e occupa il tempo, una volta dedicato alla vela e al golf, nello studio della storia americana da cui ricava le basi teoriche che fino ad ora gli sono mancate. Nel 1923 riprende l’attività forense e parallelamente inizia a speculare in borsa, dove guadagna cifre considerevoli dimostrando anche tanta spregiudicatezza in combinazioni finanziarie e societarie con individui di dubbia fama. Poi, finalmente, nel 1928 torna, a vele spiegate, in politica e accetta la candidatura a Governatore dello Stato di New York. Intensa è la campagna elettorale dove fa largo uso della radio e vince. Ha quasi 47 anni quando, a Capodanno del 1929, prende possesso della carica e immediatamente inserisce nel suo staff governativo l’amico Howe e la moglie Eleanor, oltre ad altri validi e competenti collaboratori. A sua volta CHURCHILL affronta la Grande Guerra con la carica di Primo Lord dell’Ammiragliato e prende o caldeggia una serie di iniziative dall’esito tutt’altro che brillante, o addirittura disastroso come la spedizione anglo-francese ai Dardanelli nel 1915. Il suo prestigio ne viene profondamente scosso al punto di doversi dimettere dalla carica. Ma il suo ardente temperamento non gli permette di tenersi fuori dalla mischia e Churchill chiede e ottiene il comando di un battaglione sul fronte francese dove combatte per sei mesi. Ciò non 49 serve a riabilitarlo come uomo di governo, anzi i conservatori, nel 1916, pongono il veto più assoluto a Lloyd George di avvalersi della collaborazione di Churchill. Però un anno dopo, nel 1917, quando ha 43 anni, il tenacissimo uomo politico torna a far parte del governo fino alla conclusione della guerra, sia pure con un ministero non di primissimo piano, come quello delle Munizioni. Non trascorre un anno dalla fine del Grande Conflitto che Churchill torna ad ottenere un incarico importante come Ministro della Guerra e dell’Aviazione, ed immediatamente riprende a commettere errori, come l’ossessiva insistenza con la quale ottiene l’intervento armato contro la Russia rivoluzionaria e comunista, che si risolve in un insuccesso perché gli eserciti dei Russi Bianchi vengono sconfitti dai Bolscevichi nonostante gli aiuti. Allora Churchill viene dirottato al Ministero delle Colonie dove costituisce il mandato inglese in Palestina, che nemmeno gli darà ragione. Quest’uomo testardo è più che mai in disgrazia e, quando Lloyd George si dimette nel 1922, non solo perde l’incarico di ministro, ma addirittura viene battuto alle elezioni. Ma non demorde. Nel 1924, all’età di 50 anni, cambia partito e viene eletto deputato conservatore ottenendo dal Governo Baldwin la carica di Cancelliere dello Scacchiere, che lo vede promotore di una politica deflazionistica e di violenta repressione contro i sindacati nel grande sciopero generale del 1926. STALIN invece non è un protagonista, sia pure minore, della Grande Guerra e della presa di potere da parte dei rivoluzionari russi, perlomeno nella fase iniziale. Infatti è relegato dapprima in una località più che mai desolata della Siberia, al di sopra del Circolo Polare Artico e distante ben sei settimane di viaggio in slitta dalla stazione più vicina della ferrovia Transiberiana. Poi, essendo stato riformato per un difetto al braccio sinistro, è custodito in una località molto più vicina alla grande linea ferroviaria. Qui, liberato dall’abdicazione dello zar, si precipita ad inviare a Lenin un 50 telegramma di fraterni saluti e a partire per la capitale, dove giunge il 12 marzo, e, in assenza dei maggiori esponenti bolscevichi, assume per un mese il comando dell’attività del Partito e poi entra a far parte del Comitato Esecutivo del Soviet dei Deputati, degli Operai e dei Soldati. Tornato Lenin, Stalin retrocede di grado, ma presto chi è più in alto di lui è costretto alla clandestinità dalla repressione dei moti popolari. Allora il futuro padrone della Russia torna in primo piano e tiene la relazione introduttiva al Sesto Congresso del Partito. Nel 1918 viene costituito il primo Governo Sovietico, e il trentanovenne Stalin ne fa parte come Commissario delle Nazionalità. Successivamente, durante la sanguinosa Guerra Civile e in quella contro la Polonia (1918 e 1920), viene inviato come Commissario Speciale nei punti più caldi del fronte dove sa mettersi così bene in evidenza che la sua notorietà cresce vertiginosamente in parallelo alla fama di individuo sempre pronto ad agire con efficacia, ma in modo spietato e violento. Con accorte ed opportunistiche alleanze, continua ad essere eletto nei maggiori organi del Partito e nel Politburo. Poi, nel 1922 Lenin, le cui condizioni di salute sono divenute estremamente precarie, lo nomina suo assistente di fiducia e segretario del Comitato Centrale. Infine, quando nel 1924 Lenin muore, Stalin, a 45 anni, conquista la guida assoluta del Partito nel quale ha preventivamente minato l’autorità del più prestigioso Trotzkij, che viene espulso dall’URSS nel 1929. HITLER, quando scoppia la Grande Guerra, si è da qualche mese trasferito a Monaco dove si è fatto registrare dalla polizia come pittore e scrittore e ha continuato a condurre la solita vita di Vienna: dipinge quadretti e li vende, si reca nelle biblioteche dove legge principalmente di marxismo, fa infiammate discussioni nei caffè. Poi, improvvisamente, viene fermato dalla polizia per essersi sottratto agli obblighi di leva in Austria, ma a Salisburgo viene dichiarato inabile al 51 servizio perché è troppo gracile. Al contrario l’esercito tedesco, dove si è presentato per partecipare da volontario alla guerra, lo fa abile e lo spedisce al fronte. Hitler è felice, finalmente si sente del tutto inserito e si mostra un soldato valoroso con la partecipazione a più di 50 scontri sul fronte occidentale. Fa il portaordini con impegno e sprezzo del pericolo e viene ferito per ben due volte guadagnandosi meritatamente la Croce di ferro di prima classe. Però non va oltre il grado di caporale perché i suoi superiori non lo ritengono fornito di doti di comando... La resa della Germania, giunta così imprevista per la truppa e per la maggior parte del popolo tedesco quando i suoi eserciti sono ancora al di là delle frontiere e nessun nemico ha toccato il suolo della patria, addolora e frustra profondamente Hitler, quasi quanto il suo insuccesso di nove anni prima negli esami di ammissione all’Accademia di Belle Arti in Austria. Com’era fortemente convinto delle sue qualità artistiche, così ora è fermamente sicuro che i tedeschi non avrebbero potuto perdere contro i popoli inferiori che hanno affrontato senza il contributo determinante degli ebrei e dei socialdemocratici, purtroppo presenti anche in Germania, ed il suo odio contro di loro cresce a dismisura. Così decide di votarsi alla politica e di dedicare allo stremo ogni sua energia per lavare l’onta della sconfitta.. Quando rientra a Monaco, che nel frattempo ha visto duri scontri fa comunisti ed esercito, Hitler viene inviato dal comando militare a un corso educativo tenuto da professori dell’università fra i quali lo storico Muller, che scrive: “Trovai la strada bloccata da un gruppo di persone che si accalcava intorno a un uomo, il quale parlava loro con una strana voce gutturale, senza pause e con sempre maggior calore. Ebbi la strana sensazione che quell’uomo andasse nutrendosi dell’eccitazione che andava via via suscitando. Scorsi un volto pallido e magro sotto una selva di capelli cascanti alquanto indegna di un soldato, con dei corti baffetti e degli occhi azzurri straordinariamente 52 grandi, sfavillanti di un freddo fanatismo...”. Poco dopo le autorità militari lo incaricano di fare attività di informatore e di tenere discorsi di propaganda ai suoi colleghi reduci, fra i quali, nel 1919, quando ha 30 anni, inizia la sua carriera politica, che indirizza principalmente allo sparuto Partito Tedesco dei Lavoratori (DAP), al quale aderiscono disperati di estrema destra quali artigiani in miseria e intellettuali frustrati o sensibili alla mitologia ottocentesca dell’eroe. Presto Hitler si impone con il suo notevole talento d’oratore, di cui ha la definitiva conferma nell’ottobre del 1919 “parlai per trenta minuti, e ciò che avevo sempre sentito nel profondo del mio cuore, senza mai poterlo verificare, si dimostrava ora essere vero: sapevo parlare”, e diviene il capo del partito che nel 1920 ribattezza come Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP) rendendolo, in pochi anni, la più importante organizzazione di destra della Baviera dove convergono personalità notevoli come l’ex asso dell’aviazione Goring, l’architetto Rosemberg, il professore universitario di geopolitica Haushoher e Roehm ed Hess. Quando, nel 1923, la Repubblica di Weimar attraversa una grave crisi, Hitler, che ha 34 anni, progetta un colpo di Stato che viene subito represso dal fuoco della polizia. Il futuro Fuhrer viene arrestato e il tribunale speciale lo condanna per alto tradimento a cinque anni di fortezza. Ma Hitler utilizza le udienze come una tribuna e la stampa come cassa di risonanza delle sue idee politiche. Dopo appena un anno viene graziato. Il periodo di detenzione non è trascorso inutilmente per lui: l’ha utilizzato per scrivere il suo libro “Mein Kampf”. In esso preannuncia quella che sarà la sua battaglia in favore della grande nazione germanica. I principi, che enuncia, dettagliatamente e senza alcuna paura, costituiranno una specie di “Corano” per i suoi seguaci che diventeranno molto numerosi. Scrive, tra l’altro: “l’uomo è un animale battagliero e di conseguenza la nazione , essendo una comunità di guerrieri, è un’unità guerriera; l’organismo vivente che abbandoni la lotta per 53 l’esistenza è condannato a perire; il Paese o la razza che cessino di combattere sono destinati a estinguersi; la capacità di lotta di una razza dipende dalla sua purezza, quindi è necessario espellere le contaminazioni straniere; la razza ebraica, che è multinazionale, è necessariamente pacifista e internazionalista; il pacifismo è un peccato mortale perché porta alla rinuncia della razza alla lotta per l’esistenza; il primo dovere di ogni Paese è nazionalizzare le masse; individualmente l’intelligenza ha una relativa importanza, ciò che conta sono il volere e la forza di decisione; l’uomo adatto al comando ha un valore superiore a quello di migliaia di temperamenti subordinati; solo la forza bruta può assicurare il sopravvivere di una razza, sono quindi necessari i sistemi militari; se al momento giusto la razza germanica sarà unita il dominio del globo sarà suo; il nuovo Reich deve condurre all’ovile tutti gli elementi tedeschi sparsi in Europa; una razza che ha subito una sconfitta può essere salvata se le si restituisce la fiducia in se stessa; bisogna insegnare all’esercito di aver fede nella propria invincibilità; per innalzare alla primitiva grandezza la nazione germanica il popolo deve essere convinto che si può recuperare la libertà usando le armi; l’idea aristocratica è corretta; l’intellettualismo è un elemento indesiderabile; estremo ideale dell’istruzione è produrre un tedesco che, con un minimo di allenamento, possa mutarsi in un soldato; senza la forza trascinatrice delle passioni fanatiche e isteriche, i più grandi movimenti della storia sarebbero inconcepibili; le virtù borghesi della pace e dell’ordine non possono dar vita a nulla; il mondo procede ora verso un sommovimento del genere e il nuovo Stato germanico deve preparare la razza alle estreme e più grandi decisioni che l’umanità possa prendere; non si debbono avere scrupoli in politica estera; la diplomazia non ha il compito di permettere alle nazioni un eroico collasso, ma deve provvedere alla loro prosperità e conservazione; per la Germania esistono solo due possibili alleati: l’Inghilterra e l’Italia; nessun Paese parteciperà ad un’alleanza con una nazione 54 vilmente pacifista governata da elementi democratici e marxisti; se la Germania non si difenderà da sola nessuno penserà a difenderla; le provincie perdute non possono essere riconquistate con grandi preghiere o speranze nella Società delle Nazioni, ma soltanto con la forza delle armi; la Germania non deve ripetere l’errore di combattere in una sola volta contro tutti i suoi nemici, ma deve isolare il più pericoloso e assalirlo con ogni energia; il mondo non sarà più antitedesco solo quando la Germania avrà recuperato la parità di diritti e ripreso il suo posto al sole; non debbono esserci sentimentalismi nella politica tedesca e attaccare la Francia per motivi solo ideali sarebbe assurdo; quello che occorre alla Germania è un ampliamento dei suoi territori in Europa; la politica coloniale d’anteguerra era sbagliata e bisognerà abbandonarla; la Germania deve tendere ad un’espansione verso la Russia e soprattutto verso gli Stati Baltici; non si può tollerare il concetto d’una alleanza russogermanica; entrare al fianco della Russia in una guerra contro l’Occidente sarebbe criminale perché lo scopo dei sovieti è il trionfo del giudaismo internazionale”. Ebbene un siffatto programma non turba minimamente gli esponenti della democrazia tedesca ed europea, forse perché si tratta, nel 1924, di un libro poco diffuso di un piccolo leader di un minuscolo partito. Uscito di prigione, il futuro dittatore si rafforza come capo del partito, sconfiggendo gli esponenti dell’ala sinistra guidata dai fratelli Strasser. Nel frattempo la tattica hitleriana per la conquista del potere è cambiata: non tenta più l’eliminazione della Repubblica o l’introduzione della dittatura, secondo il modello inaugurato in Italia da Mussolini, ma iniziative con una parvenza di legalità e secondo le regole del sistema, ossia attraverso elezioni ed incarichi governativi ufficiali che, però, tardano a venire, perché, alle elezioni del 1928, il partito di Hitler ottiene solo 810.000 voti. Ciò nonostante il futuro 55 dittatore tiene a freno le scalpitanti e ben organizzate Squadre d’Assalto. MUSSOLINI, dopo aver ottenuto il raddoppio, com’è ormai sua consuetudine, della tiratura del giornale che dirige a Milano e aver amoreggiato tumultuosamente, nonostante conviva con Rachele Guidi e la figlia Edda, con alcune sue collaboratrici come la Balabanoff, la Rafanelli e la Sarfatti, nella primavera del 1914 trionfa nel Congresso Socialista di Ancona dove chiede ed ottiene l’espulsione dei massoni dal partito. Quando nel giugno dello stesso anno la polizia uccide tre partecipanti a una dimostrazione antimilitarista, Mussolini scrive un articolo di fuoco contro il governo, eccitando le masse che scendono in piazza, disarmano le truppe e danno inizio ad una “settimana rossa” che il futuro Duce definisce: “la più grande rivolta popolare che abbia mai scosso l’Italia”. Il Paese cala in una grande paura predisponendosi ad un fascismo ante litteram che Mussolini ha lucidamente previsto. Non ha invece previsto la reazione di Turati (il suo grande avversario nel Partito) che riesce a far revocare lo sciopero, indebolendo la posizione mussoliniana. Proprio in quei giorni il principe ereditario dell’Impero Austriaco viene ucciso a Sarajevo e l’Austria, senza minimamente consultare l’Italia (sua alleata nella Triplice), ma in perfetto accordo con la Germania (terza nazione della Triplice), invia un ultimatum alla Serbia tanto severo e punitivo da condurre automaticamente alla Grande Guerra: in una settimana la Germania dichiara guerra alla Russia e alla Francia, mentre l’Inghilterra si schiera con il governo di Parigi. L’Italia dichiara la propria neutralità, fra la soddisfazione di tutte le forze politiche del Paese. I motivi sono diversi: i socialisti ed i cattolici perché contrari a qualsiasi guerra, i nazionalisti perché vengono liberati dall’incubo di dover combattere a fianco degli oppressori di Trento e di Trieste. 56 Però solo poco tempo dopo, gli irredentisti, appoggiati dai nazionalisti di Marinetti, incominciano a premere sul Governo affinché l’Italia entri nel Conflitto a fianco dell’Intesa. Fra i socialisti vi sono forti contrasti perché i sindacalisti si richiamano alle “società operaie” di Mazzini e sono giunti al socialismo per la via tracciata da Sorel che è l’apostolo della “violenza levatrice della storia”. Mussolini comprende a volo l’importanza storico-politica del momento e appoggia i dirigenti sindacali. Il Partito lo deplora e lui si dimette dalla direzione dell’Avanti per fondare “il Popolo d’Italia”, un nuovo giornale che diviene l’organo più attivo dell’irredentismo. I socialisti dicono che Mussolini è stato comprato dai Francesi, desiderosi di avere l’Italia come alleata. Non è vero: il futuro Duce viene finanziato da gruppi di industriali italiani interessati sia ad un incremento di produzione derivante dall’entrata in guerra, sia a fomentare contrasti fra i socialisti. Ma, in definitiva, ciò che davvero determina l’azione di Mussolini in questa circostanza è il suo violento temperamento, accompagnato dal suo accorto fiuto politico. Egli comprende che la guerra sta per liberare quelle forze rivoluzionarie che più sono congeniali a lui, e fonda, a 32 anni, un nuovo partito, “Fascio Autonomo di Azione Rivoluzionaria”, che propugna una specie di nazionalismo di sinistra. Il motto che lo contraddistingue è “Chi ha ferro ha pane”, mentre il Popolo d’Italia scrive: ”O guerra o rivoluzione”, ma, in realtà, lui vuole la prima, perché foriera della seconda. L’Italia entra in guerra nel 1915 e anche Mussolini è richiamato alle armi. Si comporta con coraggio, ma non guadagna alcuna decorazione, solo la promozione a sergente. Viene congedato nel 1917, quando viene accidentalmente ferito, e torna alla guida del proprio giornale dal quale assume le posizioni imperialistiche caratteristiche dei nazionalisti e teorizza il superamento del socialismo a mezzo di un produttivismo di tipo interclassista, che avrebbe dovuto far cessare i contrasti sociali nel superiore interesse della nazione. 57 L’Italia vince la guerra, ma deve contare 600.000 morti, un disavanzo salito da 600 milioni a ben 23 miliardi, e, ovviamente, un’inflazione galoppante. Come compenso ha ottenuto il confine del Brennero e Trieste, ma nessuna colonia tedesca, né la Dalmazia, né Fiume e quant’altro era stato promesso dagli Alleati. Col solito tempismo, è il marzo del 1919, Mussolini fonda un Movimento che due anni dopo diventerà il Partito Nazionale Fascista. Il suo programma raggruppa motivi nazionalistici, che sono particolarmente graditi agli ex combattenti fra i quali spiccano i coraggiosi e violenti “arditi”, anticlericali e repubblicani, conditi da estese socializzazioni. Presto, però, il Movimento sbandiera solo un acceso nazionalismo, esasperato dal mito della “vittoria mutilata”, che condanna duramente la politica governativa rinunciataria nei confronti degli Alleati e appoggia incondizionatamente Gabriele D’Annunzio, poeta di fama internazionale e mitico eroe di guerra, che s’impadronisce di Fiume con un pugno di “legionari”. Inoltre i seguaci di Mussolini, sostenuti dagli industriali e dagli agrari, incominciano a fare ricorso sistematico alla violenza contro gli altri partiti, le Camere del Lavoro e le cooperative contadine. Nel 1921, quando ha 38 anni, il futuro Duce viene eletto deputato con la lista “Blocco Nazionale”, formata da fascisti e liberali di destra. I partiti tradizionali sembrano paralizzati dall’abilità e dalla violenza mussoliniana e gli stessi organi dello Stato non riescono ad essere più attivi. Perfino il re rifiuta di firmare lo stato d’assedio quando i fascisti convergono da tutta l’Italia su Roma (è la cosiddetta “Marcia su Roma” che culmina il 28 ottobre 1922) e conferisce al futuro Duce l’incarico di formare il governo. Proprio in questa occasione Mussolini compie il suo capolavoro: include fra i ministri molti elementi non fascisti dando l’illusione di poter essere strumentalizzato e tenuto in un alveo costituzionale. In effetti è lui che utilizza come vuole tutti gli altri e, ottenuta non solo la 58 fiducia, ma addirittura i pieni poteri per la riforma della pubblica amministrazione, incomincia subito a “fascisteggiare” lo Stato istituendo il “Gran Consiglio del Fascismo” e una legge maggioritaria con la quale, nelle elezioni del 1924, assicura alla lista fascista il 64% dei voti. E’ quasi la dittatura, ma l’assassinio, che non è stato voluto da Mussolini, di un attivo oppositore, il deputato socialista Matteotti, rischia di travolgere il Fascismo. Però l’opposizione non sa approfittarne. Il re conferma la fiducia al futuro Duce che non frappone più indugi, dando una svolta decisamente totalitaria e dittatoriale al Movimento Fascista: gli altri partiti vengono soppressi unitamente alle organizzazioni sindacali e alle libertà di stampa e di riunione. Di conseguenza il Duce, nel 1926, a 43 anni, gode di un potere personale quasi assoluto. 59 | |
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| Titolo: Re: I CINQUE DUCI A CONFRONTO saggio di storia comparata Lun Ott 20, 2014 6:52 pm | |
| CAP. V QUATTRO DEI CINQUE PROTAGONISTI CONSOLIDANO O CONQUISTANO IL POTERE ROOSEVELT è governatore dello Stato di New York quando negli Stati Uniti un’orgia di speculazioni trova appoggio in uno straordinario ottimismo. Ma nel 1929, improvvisamente, si abbatte una violenta bufera sulla borsa di Wall Street e niente riesce a frenare le immense vendite causate dal panico. L’intera ricchezza in valuta cartacea, così rapidamente accumulata negli anni precedenti, scompare, come il grande sviluppo industriale basato su continue colossali vendite consumistiche a pagamento dilazionato. I poderosi impianti di produzione vengono sommersi dal disordine e dalla paralisi e il sistema bancario, così poco concentrato in America, sospende i pagamenti, investendo le case dei piccolo borghesi, degli operai e, in misura minore, anche dei ricchi. Quasi dieci milioni di cittadini rimangono senza lavoro. E’ proprio in questa perniciosa occasione che Roosevelt, come governatore del più popoloso Stato degli USA, dimostra il suo talento, fronteggiando la crisi efficacemente, nonostante l’opposizione della maggioranza repubblicana. Di conseguenza egli raggiunge una grande notorietà nazionale e, con essa, nel 1932, la designazione democratica a candidato presidenziale. La sua vittoria è inevitabile, perché anche favorita dall’impopolarità del presidente repubblicano Hoover, ritenuto responsabile della crisi. Roosevelt, quindi, diventa presidente con ben sette milioni di voti di vantaggio e raggiunge il potere (come è avvenuto o avverrà a tutti gli altri 4 protagonisti) quando il suo Paese si trova in gravi difficoltà. 60 Immediatamente dichiara: “La sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”. Poi forma un formidabile gruppo di consiglieri, che viene chiamato il “brain trust” ovvero il trust dei cervelli, e, insieme con loro, agisce con formidabile energia nell’ideazione e attuazione d’un illuminato programma di restaurazione economica e di avanzata legislazione sociale che garantisca un “New Deal”, ossia un nuovo metodo di vita e di governo. In cento giorni viene disposta ed attuata una rapida successione di misure legislative e di innovazioni amministrative che cambiano radicalmente la vita pubblica americana mediante l’attribuzione al Governo Federale di un potere mai visto prima in tempi di pace: insomma una vera e propria dittatura. CHURCHILL nel 1926 è Cancelliere dello Scacchiere e quando a Londra partecipa agli incontri italo-inglesi dichiara: “L’Italia possiede un governo che sotto la forte spinta del signor Mussolini non si ritrae dalle logiche conseguenze dei fatti economici e che ha il coraggio d’imporre i rimedi necessari (...) L’Italia aumenta sempre di più d’importanza sotto la direzione virile e illuminata del suo presente governo che le ha assicurato una magnifica posizione nell’Europa e nel mondo”. Mussolini, indirettamente, gli risponde definendo Churchill: “il cervello più potente d’Inghilterra, incarnante la coscienza imperiale del suo Paese” e inviando una sua fotografia con dedica alla moglie dell’uomo politico anglosassone. Ancora Churchill, nel 1927, appena giunto in Italia con la moglie e i due figli, manifesta il desiderio di incontrare il Duce. Viene accontentato e, nel pomeriggio del 15 gennaio, i due rimangono per oltre cento minuti impegnati in un colloquio a quattr’occhi. Il giorno dopo il “Popolo d’Italia” pubblica: “Il signor Churchill ha una preparazione in grande stile, una poderosa conoscenza dei problemi di Stato e una sicura ed agile visione di timoniere (...) Spirito 61 battagliero, egli assume posizioni di lotta contro il Socialismo la cui perniciosa influenza si è rivelata appieno nell’ultimo sciopero dei minatori britannici (...) Come Italiani notiamo con favore la buona amicizia che Churchill ha per il nostro Paese e la stima, che condivide con il signor Chamberlain, verso il nostro Primo Ministro”. Alla conferenza stampa Churchill dice: “Non potevo non rimanere affascinato, come tante altre persone, del suo (di Mussolini) cortese e semplice portamento e del suo contegno calmo e sereno malgrado tanti pesi e tanti pericoli. Secondariamente è facile accorgersi che l’unico suo pensiero è il benessere durevole del popolo italiano, così come lo si intuisce, e che qualunque altro interesse di minore portata non ha per lui la minima importanza”. Non più tardi di un mese dopo Churchill inizia una collaborazione al “Popolo d’Italia”, attraverso 14 articoli riguardanti la Prima Guerra Mondiale. Con le elezioni del 1929, quando ha 55 anni, Churchill perde ogni incarico governativo e prende posizione contro Baldwin che vuole un confronto “soft” con i laburisti. Il dissenso si acuisce sul problema dell’India e sulla libertà concessa a Gandhi. Ciò lo porta ad assumere una rigida e tenace posizione di estremismo imperialistico e di chiusura a ogni moderazione e concessione. Poi, nel 1932 a Londra, Churchill dichiara: “Il genio romano, impersonato da Mussolini, il più grande legislatore vivente, ha mostrato a molte nazioni come si deve resistere all’incalzare del socialismo e ha indicato la strada che una nazione può seguire quando sia coraggiosamente condotta. Col regime fascista Mussolini ha stabilito un centro d’orientamento dal quale i Paesi che sono impegnati nella lotta corpo a corpo col socialismo non possono esitare a farsi guidare”. Sempre 1932, nel mese di maggio, quando tutti i partiti innalzano alle stelle le virtù del disarmo, dichiara: “Mi dorrei profondamente se dovessi vedere crearsi un’equiparazione tra il potenziale bellico della Germania e quello della Francia. Coloro che ne parlano, quasi fosse 62 questione di giustizia o persino di leale procedere, sottovalutano completamente la gravità della situazione in Europa. A coloro che dicono di desiderare che la Francia e la Germania siano poste alla pari sul terreno degli armamenti, io chiedo: volete dunque un’altra guerra? Da parte mia spero sinceramente di non vedersi avverare una simile parità, né durante la mia vita né durante quella dei miei figli. Questo non vuole menomamente implicare una mancanza di riguardo o di ammirazione per le grandi virtù del popolo tedesco, ma sono certo che la tesi dell’eguaglianza degli armamenti fra Germania e Francia è tale da condurci, nel più breve tempo - e qualora dovesse mai attuarsi - alle soglie di una catastrofe quasi smisurata”. E qualche mese dopo: “Mi è spiaciuto apprendere dal Sottosegretario che noi siamo la quinta potenza aeronautica e che il programma decennale è stato rimandato di un altro anno. Più ancora mi sono rammaricato nel sentirlo menar vanto del fatto che il Ministero dell’Aeronautica non ha formato nel corso di questo anno una sola nuova squadriglia. Tutte queste idee si rivelano sempre più insensate con il progredire degli eventi e sarebbe saggio da parte nostra concentrarci con uno sforzo sempre più grande sul problema dello sviluppo della nostra difesa aerea”. Churchill ha pienamente ragione perché la Germania, dopo i travagliati anni della vertiginosa inflazione dovuta agli immensi danni di guerra da pagare, si sta riarmando (contrariamente a quanto stabilito dal trattato di pace) a cura del generale von Seeckt, che è occupato da anni a tracciare, in segreto, i piani di un esercito tedesco di grandi dimensioni. D’altra parte già dall’immediato dopoguerra, dietro l’impalcatura dei governi repubblicani, lo Stato Maggiore della Reichswehr è il vero potere politico e l’ossatura reale della nazione. Ha fatto e disfatto presidenti e governi, e nel maresciallo Hindemburg ha trovato un rassicurante simbolo del potere e un agente della sua volontà. Sotto tale copertura le alte sfere militari fingono di formare ministeri della ricostruzione, delle ricerche e della cultura e riuniscono 63 a Berlino diverse migliaia di ufficiali in abiti civili, ma con la mente fissa solo al passato e al futuro bellico della Nazione. Essi sanno che una vera ed efficiente struttura di comando militare si forma solo con il contributo di più generazioni e con metodo rigoroso. Di conseguenza vengono introdotte su larga scala esercitazioni pratiche e manovre di guerra segrete, per creare una classe di ufficiali superiori dove si integrino elementi sopravvissuti alla Grande Guerra con altri più giovani provenienti dai livelli inferiori. Sotto la guida di von Seeckt, tutti gli insegnamenti ricavabili dal Grande Conflitto vengono accuratamente studiati, nuove tecniche vengono introdotte, manuali militari vengono riscritti per un possente esercito. Ma, per eludere il controllo degli Alleati, intere parti dei manuali vengono stampate con testo falso e rese di dominio pubblico, mentre le nozioni essenziali (anch’esse stampate) giungono nelle mani solo dei diretti interessati e insegnano che esercito, aviazione e marina debbono strettamente cooperare fra di loro, se non addirittura fondersi. Come se non bastasse, Hitler avanza: dai 12 seggi in parlamento del 1928, è passato ai 107 del 1930, e ai 230 del 1932! Proprio nel 1932 Churchill, durante una visita privata in Germania, è ad un passo dall’incontrare Hitler, ma, per un disguido, i due non s’incontrano in quella occasione né lo faranno mai più. HITLER, nonostante operi in un Paese che per sua natura tende all’espansionismo nazionalistico, non riesce a raggiungere il potere con la rapidità di Mussolini al quale s’ispira. Il suo progresso, fino alla crisi economica del 1929, è estremamente lento e, manovrando il suo partito, non è riuscito ad altro che allearsi con la Destra e a guadagnarvi un po’ di spazio. Ma quando sostiene a spada tratta l’opportunità di un plebiscito popolare per respingere il Piano Yung, concernente le riparazioni di guerra dovute dalla Germania agli Alleati, incomincia a ricevere da alcuni industriali più consistenti finanziamenti, che gli permettono di dare al suo NSDAP la struttura di 64 partito di massa e, di conseguenza, di raccogliere il 18% dei voti, che significa essere la seconda forza politica del Paese. Nel frattempo Hindenburg ha raggiunto la veneranda età di 83 anni e bisogna trovargli un valido successore. Lo Stato Maggiore incomincia ad adoprarsi esaminando attentamente, uno per uno, i propri membri, ma, parallelamente, non può ignorare l’esistenza di formazioni paramilitari nell’ambito del Partito Nazista, né il suo sviluppo divenuto fremente e consistente. Non sono tanto le Squadre d’Assalto (SA) che impressionano gli alti ufficiali, ma le molto più organizzate Staffette di Protezione (SS). Entrambe hanno assorbito gran parte dei nazionalisti tedeschi e hanno scopi analoghi a quelli dei militari di carriera: risollevare la Germania dall’abisso, vendicandone la sconfitta. La conclusione è fin troppo ovvia: solo Hitler può essere il successore di Hindenburg. A sua volta il futuro Führer è convinto che, per mettere in atto il suo programma sulla rinascita germanica, è indispensabile concludere un’alleanza con le alte sfere della Reichweher. Il patto viene concluso e Hitler, nel gennaio del 1933, a 44 anni, diviene Cancelliere del Reich. Poi, con grande prontezza, travolge amici e nemici, disponendo una serie di provvedimenti di emergenza, giustificati da un misterioso e opportuno incendio del palazzo del Reichstag, che sovvertono i principi giuridici e gli permettono di far trarre in arresto i maggiori esponenti del Partito Comunista Tedesco (KDP) e molti socialdemocratici. Appena un mese dopo i nazisti ottengono alle elezioni ben il 44% dei voti , e Hitler fa approvare la “Legge sui Pieni Poteri”, con la quale il Parlamento gli trasferisce la sua competenza legislativa. Nell’agosto del 1934, morto Hindemburg, Hitler diviene “Fuhrer e Cancelliere del Reich” accorpando i poteri di capo dell’esecutivo e di comandante delle forze armate tedesche. Poi, sempre più rapido ed implacabile, elimina le SA e numerosi Conservatori in una purga crudele e sanguinosa. 65 A 45 anni il potere del dittatore tedesco è assoluto e il suo modo di governare genera dolore e sangue come quello di Stalin. Al confronto di questi due “colleghi”, Mussolini sembra un modello di umanità e moderazione. Ciò nonostante in Germania, dove la democrazia è ormai del tutto assente e gli strumenti di repressione (la Gestapo, ossia la polizia segreta, e i tribunali speciali) sono severissimi, le masse plaudono al Regime perché, parallelamente, vengono prese efficaci iniziative per migliorare le possibilità di spesa delle famiglie, per far diminuire la disoccupazione, per migliorare l’assistenza sociale e per dare l’avvio a grandi lavori pubblici come, fra l’altro, la costruzione di una modernissima rete autostradale. Ora il riarmo avviene senza grandi mascheramenti e, nel 1935, Hitler da una parte reintroduce il servizio militare obbligatorio, e, dall’altra, dichiara di voler riparare alle ingiustizie del Trattato di Pace solo per vie pacifiche. MUSSOLINI, intanto, incomincia a favorire l’esaltazione della sua personalità presentata come quella di un uomo provvidenziale, non fallibile, che può risolvere tutti i problemi del Paese. Ne dà ulteriore prova quando, nel 1929, risolve con il Concordato l’annosa pendenza politico-amministrativa con la Chiesa Cattolica e dà vita alla Stato indipendente della Città del Vaticano. Anche in campo economico il Duce non si mostra da meno affrontando con adeguati provvedimenti la grave crisi del 1929. Infatti crea l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano) cui viene affidato il compito di accordare prestiti ad imprese private o di assumervi partecipazioni azionarie, poi fa nascere l’IRI con lo scopo di porre riparo alle sofferenze economiche delle aziende più deboli. Superata l’emergenza, Mussolini vara un’altra serie di provvedimenti: riduzione dell’inflazione, e la lira si rivaluta sulla sterlina che passa dal valore di 154 a 92, alleggerimento del carico fiscale e dei canoni d’affitto degli immobili, ma anche degli stipendi e 66 del caro viveri, rigorosa limitazione dei prezzi massimi dei generi di largo consumo, soppressione degli esoneri doganali con conseguente protezione dei prodotti nazionali, incremento dell’industria, dell’agricoltura, con la famosa battaglia del grano, e dell’energia idroelettrica, che aumenta di ben il 1.300%, e della resa della mano d’opera. Parallelamente a questa gran massa di iniziative, il Duce promuove una colossale propaganda di incremento demografico, condotta all’insegna de “il numero è potenza”, di una tassa sugli adulti non sposati, di esenzioni fiscali e premi alla famiglie numerose e crea un’efficiente Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia. Nel Paese, in forte evoluzione, viene anche varato un vasto programma di opere pubbliche: la rete ferroviaria passa da 2.100 a 3.700 chilometri di cui molti elettrificati e i treni sono più veloci e molto precisi. Nasce l’ANAS, con il compito di costruire migliaia di chilometri di nuove strade e qualche moderna autostrada. Si inaugurano 400 nuovi ponti, viene ampliata e migliorata la rete telefonica, si inizia una grande bonifica delle paludi fra le quali spicca quella Pontina a sud di Roma, con la creazione di una nuova città (Littoria) che diviene capoluogo di provincia. Infine il Duce dà ordine di combattere, con inflessibile severità, la Mafia siciliana, che viene rapidamente sconfitta, e fa varare la Carta del Lavoro, che dà sicurezza agli operai e agli impiegati. Nel 1932 l’infaticabile Mussolini, che ha raggiunto l’età di 49 anni, vuole festeggiare il decennale della Marcia su Roma e dice alle folle osannanti: “Il secolo Ventesimo sarà il secolo del fascismo, sarà il secolo della potenza italiana, sarà il secolo durante il quale l’Italia tornerà per la terza volta ad essere la direttrice della civiltà umana, perché fuori dei nostri principi non c’è salvezza né per gli individui né tanto meno per i popoli. Tra un decennio l’Europa sarà fascista o 67 fascistizzata. L’antitesi in cui si divincola la civiltà contemporanea non si supera che in un modo, con la dottrina e la saggezza di Roma”. L’Italia sembra davvero volare con una serie di successi e di realizzazioni: costruzione di numerosi transatlantici, fra i quali il Rex, che batte il record di velocità nella traversata atlantica, trasvolate del Ministro dell’Aeronautica Italo Balbo con una squadra di 12 idrovolanti, progettati e costruiti in Italia, da Pisa all’America Meridionale e, questa volta con ben 22 idrovolanti, da Orbetello a Chicago, entrata in funzione dell’autostrada Milano-Torino. Quasi a celebrare questo magico periodo, un’immensa e spettacolare parata militare percorre la nuova e maestosa via dei Trionfi a Roma, e Mussolini dichiara: “L’Italia fascista deve tendere al primato sulla terra, sul mare, nei cieli, nella materia e negli spiriti”. Il dittatore, come un attore di grande successo, cura attentamente la sua immagine e lo scenario nel quale vive ed opera. Abita con la famiglia nella splendida Villa Torlonia munita di 14 ettari di parco, 40 stanze, tennis e galoppatoio, mentre ha posto il suo studio al piano nobile del merlato Palazzo Venezia in un vano vastissimo e spoglio, il Salone del Mappamondo, dove lo scrittoio è sistemato nell’angolo opposto all’ingresso, con tre telefoni e una tastiera che consente al Duce di graduare l’intensità delle luci a seconda dell’importanza del visitatore che è costretto a sostare in piedi davanti a lui. Solo in casi particolari può sedere su di una poltrona che viene accostata allo scrittoio, ma a tutti, e senza eccezioni, viene vietato di fumare. Dallo stesso salone si accede sul balcone principale del palazzo dal quale Mussolini arringa la folla convogliata in Piazza Venezia. Sempre, anche di notte, una lampada sullo scrittoio rimane accesa a rassicurare il cittadino sull’operosità e la solerzia del dittatore. In politica estera il Duce, pur affermando in continuazione la volontà guerriera del fascismo e le sue tendenze revisioniste nei confronti dell’assetto politico e territoriale stabilito dai trattati di pace, 68 mantiene un atteggiamento di cautela verso la Francia e l’Inghilterra e, nel 1933, propone un patto a quattro fra Italia, Francia, Inghilterra e Germania per assicurare la pace in Europa. Poi, nel 1934, quando il Duce ha 51 anni, si oppone decisamente, causandone il fallimento, al tentativo della Germania nazista di annettersi l’Austria. Da quando Mussolini ha conquistato il potere, fra lui ed Hitler esiste un amore a senso unico. Infatti, mentre l’italiano non dà al tedesco soverchia importanza e definisce Mein Kampf illeggibile, l’altro nutre per il Duce un’ammirazione sconfinata: lo considera un grande uomo, un maestro formidabile che potrebbe ascendere a qualsiasi vetta se a collaborare con lui e ad eseguire i suoi ordini illuminati e geniali vi fosse un materiale umano superiore a quello di cui l’Italia dispone. Hitler non osa rivolgersi direttamente a Mussolini, ma lo fa a mezzo di intermediari, come il maggiore Renzetti, capo della camera di commercio italiana a Berlino, dal quale, nel 1927, manda a chiedere al Duce una fotografia con dedica senza essere accontentato. Torna alla carica tre anni dopo, quando il suo partito ha ottenuto il secondo posto in Germania ed i contatti fra i movimenti fascista e nazista sono più frequenti. Questa volta usa come portavoce Goring, al quale affida la pressante richiesta di essere ricevuto in udienza, anche privata, dal Duce. Ma questi non lo degna di alcuna risposta e continua a farlo anche quando, nel 1931, Renzetti gli riferisce che Hitler ha esternato, più volte e in manifestazioni ufficiali, grande ammirazione per il fondatore del fascismo, che si limita a concedere al tedesco la fotografia richiestagli ben quattro anni prima. Ciò nonostante Hitler continua ad ammirare follemente Mussolini e chiunque entri nel suo studio, anche nel 1933, quando è divenuto Cancelliere del Reich, può osservare un gran busto marmoreo del Duce e poco più in là un ritratto di Federico II. Allora il Führer convoca Renzetti e gli dice.: “Dal mio posto seguirò con tutte le mie forze quella politica di amicizia verso l’Italia che ho finora 69 costantemente caldeggiato. Ora posso andare dove voglio. Eventualmente potrei recarmi in aeroplano a Roma, se occorre anche in via privata. Sono arrivato a questo punto per il fascismo”. Ma ancora non ottiene il sospirato incontro, eppure insiste con ogni mezzo, come quello di trascurare, in un solenne ricevimento ufficiale a Berlino, ogni diritto di precedenza per offrire vistosamente il braccio alla moglie dell’ambasciatore italiano dicendole: “Avevo troppo rispetto verso quel grand’uomo per disturbarlo prima di aver raggiunto risultati positivi, ma ora le cose sono cambiate e sono ansioso di conoscerlo. Sarà il giorno più bello della mia vita”. Nemmeno questa volta Mussolini si lascia commuovere, mentre Hitler, durante il 1933, completa la conquista del potere fino a divenire dittatore assoluto. Ci sono però motivi per gli ultimi rifiuti del Duce: egli caldeggia un patto a quattro per stabilire una sorta di Direttorio europeo, vuole un riarmo tedesco controllato non quella burla di disarmo fittizio. Il Primo Ministro inglese, il laburista Mac Donald, dice ad amici francesi: “Noi siamo vecchi, una nuova forza si è impadronita del mondo, il fascismo. Adesso ha conquistato la Germania. Temo per voi e per noi che ci batterà”. Poi, durante una visita a Roma, dichiara: “L’Europa intera deve essere grata al Capo del Governo Italiano per l’opera svolta in queste settimane difficili”. L’inglese si riferisce alle mire germaniche sull’Austria il cui Cancelliere è divenuto una specie di protetto di Mussolini. Ed è proprio in questa atmosfera che il Duce accetta finalmente di ricevere Hitler. Siamo nel giugno del 1934 quando, mentre Hitler, che giunge in visita privata come ha imposto Mussolini, appare dal portello dell’aereo a Venezia, il Duce sussurra a Ciano, che è suo genero e capo dell’ufficio stampa: “Non mi piace”. Poi il dittatore italiano, imponente e pomposo in una sgargiante uniforme, assume un atteggiamento protettivo e batte familiarmente la mano sulle spalle del tedesco, che appare tanto inferiore e sottomesso nel suo abituccio 70 borghese al punto da ispirare a un giornalista francese come titolo del suo articolo “Adolfo davanti a Cesare”. Ma Adolfo non è così mite come sembra in quell’occasione: contrasti violenti scoppiano fra i due dittatori per l’Austria, ciò nonostante “Cesare” prevale e Hitler si dichiara disposto a rinunciare all’Anschluss. Mussolini dichiara: “Hitler ed io ci siamo incontrati non già per rifare la carta politica dell’Europa e del mondo, ma per tentare di disperdere le nuvole che offuscano l’orizzonte”. Poi, quando l’aereo decolla, si lascia andare e sussurra a qualche collaboratore: “E’ una scimmietta chiacchierona, merita una lezione, non è altro che un fonografo a sette voci”. Invece il Führer dice a Renzetti: “Sono felice che l’incontro mi abbia dato la possibilità non solo di confermare la mia opinione, ma altresì di ampliarla: uomini come Mussolini nascono una volta ogni mille anni e la Germania può essere lieta che egli sia italiano e non francese. Io, ed è naturale, mi sono trovato alquanto impacciato con il Duce, ma sono felice di aver potuto parlare lungamente con lui”. Quest’uomo tanto umile con Mussolini, dopo appena due settimane dà vita alla famosa “notte dei lunghi coltelli” e fa uccidere un migliaio di persone, fra cui il capo delle SA, Rohm, e il generale Schleincher. Il 1929 è l’anno della svolta decisiva nella politica di STALIN. Liquida il NEP e avvia l’industrializzazione rapida del Paese e la collettivizzazione forzata nelle campagne. L’ormai dittatore ha appena definitivamente sconfitto i suoi avversari della sinistra del Partito capitanati da Trotzkij, e, senza alcuna soluzione di continuità, attacca Bucharin, che ha osato opporsi alla sua azione nelle campagne. Stalin, come al solito, non ha esitazioni né debolezze e costringe l’avversario a rinnegare quanto sosteneva prima e ad accettare passivamente di essere rimosso dalla carica occupata. Eppure, nel 1930, il cinquantunenne Stalin, pur essendo il padrone assoluto dell’URSS, non ha alcuna carica ufficiale nel Governo, ma la sua autorità non è mai minimamente scalfita, nemmeno dai costi 71 terribili che la sua politica impone al Paese. Infatti la collettivizzazione forzata, che tende a trasformare ben 25 milioni di piccole aziende familiari in appena 250mila fattorie collettive, fa precipitare in una crisi senza precedenti l’agricoltura dell’intera URSS per tutta una generazione. Un milione di contadini ricchi, i cosiddetti kulachi, che si oppongono ai progetti staliniani, muoiono probabilmente uccisi dai sicari del Partito. Come se non bastasse, nel 1932 e 1933, la carestia causa la morte di oltre 5 milioni di contadini consunti dalla fame e dagli stenti, proprio quando il Paese esporta quasi due milioni di tonnellate di quel frumento che, forse, avrebbero potuto salvarli. Ma l’URSS diviene una potenza industriale e Stalin ne è l’incontrollato deus ex machina in politica culturale, interna ed estera. Il culto della sua personalità raggiunge livelli ben maggiori a quelli riservati alla memoria di Lenin. 72 CAP. VI LE AMBIZIONI DI HITLER SULL’AUSTRIA E LA GUERRA DI MUSSOLINI IN ETIOPIA COINVOLGONO PARZIALMENTE GLI ALTRI PROTAGONISTI Negli anni 1934 e 1935 ROOSEVELT poco s’interessa alla politica estera: si limita ad esercitare una forma di protettorato sull’America Centrale e Meridionale, mentre trascura una vera e decisa opposizione all’espansionismo giapponese in Cina. In fondo il Presidente Americano è coerente alla politica isolazionista del suo Paese, che non fa nemmeno parte della Società delle Nazioni dalla quale si ritira anche la possente nazione nipponica. A maggior ragione Roosevelt non si sente coinvolto dalle crisi italo-etiopica e italoinglese e si limita ad esortare Mussolini (agosto 1935) a scongiurare la guerra “perché sarebbe una calamità mondiale, le cui conseguenze influirebbero negativamente sugli interessi di tutte le nazioni”. Ne ricava solo un deciso rifiuto. E’ invece impegnatissimo nella politica interna, dove molti sono i tentativi messi in essere per contrastarlo. L’attacco più forte gli giunge dalla Corte Suprema che annulla la NRA, la legge da lui varata per la rinascita industriale e per una serie di fondamentali lavori pubblici conditi da avanzatissime norme sociali. Franklin non si scoraggia, ma reagisce con un “paniere” di provvedimenti, che costituiscono una specie di secondo New Deal e per i quali costringe il Congresso, completamente in suo potere, a una lunga sessione ente straordinaria. Vengono disposti provvedimenti come: il Social Security Act, che assicura la pensione ai lavoratori e aiuta gli handicappati di ogni genere, il Work Progress Administration, un diretto da Hopkins che gestisce grandi fondi per i lavori pubblici, e 73 l’enorme aggravio di tasse a carico delle società e dei grandi patrimoni. A chi gli si oppone o protesta Roosevelt dichiara: “Sto combattendo il comunismo, voglio salvare il nostro sistema capitalista, ma per salvarlo occorre prestare attenzione al pensiero contemporaneo e livellare la distribuzione della ricchezza(...) Per combattere il comunismo è necessario sacrificare quelle 46 persone che hanno un reddito annuo superiore ad un milione di dollari: questo si può fare con le tasse. Non voglio il comunismo nel nostro paese e questo è il solo modo per combatterlo”. Anche STALIN è più dedito alle colossali epurazioni e trasformazioni interne che alla politica estera. Ciò nonostante dal 1935 attua una politica di avvicinamento all’Occidente, per tentare di fermare la crescente minaccia di Hitler e del Giappone. Parallelamente rafforza l’organizzazione dell’Internazionale Comunista, attraverso la quale dà ordine a tutti i partiti comunisti europei di ribaltare l’impostazione canonica della “classe contro la classe”, che equipara socialdemocrazia a fascismo, per avviare la nuova politica attraverso “Fronti Popolari” nei quali forze socialiste, comuniste e democratiche si alleano contro il nazifascismo. Invece MUSSOLINI, dopo l’incontro di giugno 1934 con Hitler, viene sempre più coinvolto dalla politica estera. Nel luglio dello stesso anno un suo protetto, il Cancelliere austriaco Dollfuss, viene ucciso durante un fallito colpo di stato a Vienna e gli affida la moglie e i figli che sono ospiti della famiglia Mussolini a Riccione. Il Duce non ha esitazioni e dà ordine a quattro divisioni di portarsi, pronte all’azione, sulla frontiera del Brennero determinando l’inattività dei nazisti e la pubblica sconfessione di Hitler. Francia ed Inghilterra plaudono e danno merito a Mussolini di aver evitato un’altra Sarajevo. Parallelamente sul “Popolo d’Italia” viene pubblicato un articolo, scritto o ispirato dal dittatore italiano, che dice: “Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di 74 oltralpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura, con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto”. Dalla Germania nessuna reazione, solo una larvata protesta dell’Ambasciatore tedesco a Roma per i violenti attacchi della stampa italiana. In realtà i veri rapporti fra i partiti fascista e nazista sono più distesi di quanto sembri, né Mussolini, per quanto irritato per la morte di Dollfuss, ha mai davvero pensato di muovere guerra alla Germania come traspare da quanto confida allo stretto collaboratore Dino Grandi: “Se fossimo arrivati al dunque con la Germania per l’Austria, la Francia e l’Inghilterra non avrebbero mandato ad aiutarci nemmeno una divisione. Avremo la disgrazia della Germania al Brennero, la sola alternativa che ci rimane è l’Africa”. In fondo in questa sua realistica e lucida visione il Duce traccia la sua politica estera, che tende ad accattivarsi Francia ed Inghilterra affinché non si oppongano al suo grande progetto d’invadere l’Etiopia, dove lo spingono quattro fondamentali motivi: vendicare la sconfitta di Adua (1896), dare con la guerra lavoro alle fabbriche, una sistemazione, attraverso l’aumento degli effettivi nell’esercito, a numerosi disoccupati, sfogo al voluto incremento demografico, nuova gloria alla sua immagine di condottiero. Non c’è improvvisazione nell’azione mussoliniana che procede con adeguata e attenta preparazione militare e politica. Viene rispolverato un vecchio trattato del 1906 nel quale Italia Francia e Inghilterra s’erano progettualmente spartite l’Etiopia dell’allora imperatore Menelik: i britannici s’erano riservati le fonti del Nilo, i francesi la ferrovia Gibuti-Addis Abeba con una striscia di territorio intorno ad essa, gli italiani, che avrebbero dovuto sconfiggere militarmente gli etiopici, tutto il resto del Paese. Quindi l’unica richiesta del Duce è che sia considerato ancora valido quel trattato al quale, da una parte, si oppone l’attuale appartenenza dell’Etiopia alla 75 Società delle Nazioni, e, dall’altra, c’è come elemento favorevole l’abolizione della schiavitù ancora in uso nella nazione africana. Con la Francia, e col suo Primo Ministro, il vecchio amico socialista Laval, Mussolini non trova grossi ostacoli. I Francesi, preoccupati dalla potente avanzata della nuova Germania e da vecchie pretese italiane nell’area mediterranea, vogliono rafforzare i legami italo-francesi e concedono centoventimila chilometri quadrati di deserto ai confini Libia-Tunisia, un tratto di costa (all’incirca ventimila chilometri quadrati) della Somalia francese, lo stretto di Bab el Mandeb, uno statuto speciale in favore dei cittadini italiani in Tunisia, e, in segreto, mano libera sull’Etiopia. Con l’Inghilterra non è altrettanto semplice, perché il Primo ministro Mc Donald, pur riconoscendo i buoni rapporti italo-inglesi, i meriti italiani nella vicenda austriaca e la necessità di fare fronte unico contro le decisioni hitleriane di ripristinare il servizio militare obbligatorio e di stabilire in 36 divisioni la forza dell’esercito tedesco, rimane particolarmente sensibile all’opinione pubblica del suo Paese, che non vede di buon occhio un’azione espansionistica italiana di tale portata da impadronirsi d’oltre un milione di chilometri quadrati in Africa. Nel frattempo, esattamente nel dicembre 1934, un “casus belli” è scoppiato a Ual-Ual alla frontiera fra Etiopia e Somalia Italiana e il nuovo imperatore etiopico, Hailé Selassié, si rivolge alla Società delle Nazioni e chiede l’applicazione dell’articolo 11 che recita: “Ogni guerra o minaccia di guerra sarà considerata come interessante l’intera Società delle Nazioni e questa prenderà ogni iniziativa che possa risultare opportuna ed efficace”. Incomincia, di conseguenza, una lunga vertenza che sembra, nella sostanza, superata quando nell’aprile del 1935 Francia, Inghilterra e Italia s’incontrano a Stresa per discutere sulla potenziale minaccia tedesca. Pur non affrontando ufficialmente la questione etiopica, Mussolini pretende ed ottiene di modificare il comunicato finale che 76 da: “...sono d’accordo di opporsi con tutti i mezzi possibili a qualsiasi ripudio unilaterale dei trattati che possa mettere in pericolo la pace ed agiranno...” inserisce, dopo ”pace”, “dell’Europa” che dà a tutti la sensazione di essere una tacita accettazione inglese dell’azione italiana nel Paese africano. Ma non è così, perché le masse laburiste si sono più volte mostrate contrarie al fascismo e Mc Donald si troverebbe in grave difficoltà a non opporsi a una tanto vasta penetrazione italiana in Africa. Nemmeno quando Baldwin sostituisce Mc Donald e il nuovo Ministro degli Esteri è Hoare, che aveva conosciuto Mussolini nella Grande Guerra, il problema viene risolto. Anzi il Duce, ormai deluso ed irritato, respinge seccamente ogni richiamo ai rapporti personali. Addirittura, nel giugno 1935, la contesa italo-etiopica assume l’aspetto di una ben più grave disputa italo-britannica, né la visita in Italia del vice ministro Eden, latore di un’offerta inglese per quietare l’Italia, migliora le cose, tutt’altro. Infatti la proposta, che comporta la cessione all’Italia della provincia etiopica semidesertica dell’Ogaden, viene ritenuta offensiva dal Duce che formula una controproposta aggiungendo che, in caso di rifiuto, cancellerà la nazione africana dalla carta geografica. Al misurato diniego di Eden, Mussolini vuole rendere visibile a tutto il mondo la sua antipatia per l’altissimo ed elegantissimo “gelido figurino” che rappresenta l’Inghilterra, e, in occasione del ricevimento in onore dell’ospite all’hotel Excelsior, si presenta in pantaloncini bianchi, giacca con rinforzi ai gomiti, camicia con colletto aperto e non gli rivolge la parola. In un sussurro Eden dice ad un collaboratore: “Non è un gentleman”. Ma il Duce fa ancora una scortesia al politico inglese: gli fa dire che non può partecipare ad una colazione a Castelfusano, il cui ospite d’onore è Eden, per impegni improrogabili, poi, mentre l’inglese è a tavola, si fa vedere sulla prua di un motoscafo che costeggia lentamente la zona. A metà agosto, mentre 280.000 soldati italiani sono ormai pronti in Africa Orientale, Eden e Laval fanno alla diplomazia italiana 77 un’ultima proposta: affidare all’Italia, in rappresentanza della Società delle Nazioni, una soprintendenza amministrativa ed economica dell’Etiopia, ampia al punto da permetterle sostanziali modifiche di frontiera in favore della Somalia e dell’Eritrea. Ma ormai è tardi e Mussolini, che ha già fatto spendere all’erario più di due miliardi di lire, non accetta. Come se non bastasse, ad aggravare ancor più la situazione, giunge il verdetto della commissione di arbitrato per l’incidente di Ual-Ual che ne attribuisce la responsabilità ad entrambe le parti in causa, dando così la possibilità (e l’obbligo) alla Società delle Nazioni di decretare, in caso di aggressione italiana, gravi sanzioni. In tal caso la Francia non potrebbe dissociarsi dall’Inghilterra, il cui governo sicuramente si allineerebbe al voto che gli iscritti alle Trade Unions hanno già espresso in favore delle sanzioni, con il risultato di 3 milioni di sì contro 200mila no. D’altra parte Mussolini ormai sembra del tutto indifferente a quanto avviene nella Società delle Nazioni, dove il caso viene portato in discussione all’assemblea generale, mentre Laval cerca di convincere Hoare che si deve cercare “se possibile, di evitare di provocare Mussolini e non prevedere assolutamente la chiusura del Canale di Suez. In sostanza escludere tutto quello che possa portare alla guerra”. Ma imprevedibilmente il Ministro degli Esteri inglese dichiara in Assemblea: “La Società delle Nazioni è l’alfiere, e il mio Paese lo è con essa, del mantenimento collettivo del patto nella sua interezza e in particolare della resistenza tenace e collettiva a tutti gli atti di aggressione non provocata”. Ottiene un grande successo e, pochi giorni dopo, l’Ammiragliato britannico trasferisce nel Mediterraneo molte navi della Home Fleet, che si vanno a sommare alla flotta inglese del Mediterraneo per un totale di 144 unità e ben 800.000 tonnellate di stazza. Il Duce, a sua volta, dispone l’invio di due divisioni in Libia dando la sensazione di voler invadere l’Egitto. 78 Sembra davvero che fra i due Paesi debba scoppiare una gravissima guerra, ma i governanti continuano a comunicare fra di loro. In particolare Hoare scrive personalmente a Mussolini per assicurarlo che le uniche sanzioni contro l’Italia sarebbero state di natura economica. Ma Hoare ha più volte cambiato idea. La Società delle Nazioni fa nuove offerte all’Italia che risponde di no, mentre le richieste di aiuto del Negus s’intensificano nonostante una moltitudine di suoi soldati sfili nella capitale dicendosi sicura di battere rapidamente l’Italia. L’Imperatore etiopico finisce, il 28 settembre, per firmare l’ordine di mobilitazione che, a parere italiano, rappresenta una chiara provocazione e rende superflua una dichiarazione di guerra. Il duce telegrafa a De Bono, comandante in capo italiano in Africa Orientale, dandogli ordine di avere “decisione inesorabile contro gli armati, rispetto e umanità per le popolazioni inermi”. Poi si reca dal re che gli dice: “Duce vada avanti. Sono io alle sue spalle. Avanti le dico”. Nel pomeriggio Mussolini si affaccia al balcone di Palazzo Venezia su una piazza colma di popolo, mentre altoparlanti sono stati istallati in tutte le maggiori città italiane a loro volta nereggianti di folla. Il tono della voce e gli atteggiamenti del Duce fanno impazzire di entusiasmo gli italiani specialmente quando dice che le altre grandi nazioni negano all’Italia un posto al sole e che il Trattato di Pace della Grande Guerra non le ha dato nulla del grande bottino coloniale: “Abbiamo pazientato tredici anni durante i quali si è ancora più stretto il cerchio degli egoismi che soffocano la nostra vitalità. Ora basta! Alle sanzioni economiche opporremo la nostra disciplina, la nostra sobrietà, il nostro spirito di sacrificio, e alle sanzioni militari risponderemo con misure militari, ad atti di guerra, risponderemo con atti di guerra. Ma noi faremo tutto il possibile perché questo conflitto di carattere coloniale non assuma il carattere e la portata di un conflitto europeo” 79 Il 3 ottobre 1935 le truppe italiane entrano in territorio etiopico nei pressi di Adua. CHURCHILL dal 1929 non ha più incarichi di governo, ma continua ad occuparsi, con il solito accanito interesse ed impegno, dei problemi politici mondiali, del disarmo e del riarmo. Nel 1935 i suoi discorsi, i suoi articoli su giornali di sedici Paesi europei e i suoi libri diventano ancor più numerosi. Quando le mire di Mussolini sull’Etiopia diventano più evidenti, l’uomo politico inglese (che solo fino a pochi anni prima aveva tenacemente caldeggiato il mantenimento di un pieno e autoritario potere britannico in India e in Africa) li giudica non consoni all’etica del XX secolo, anche se comprende come l’Italia voglia vendicare la sanguinosa sconfitta di Adua costata migliaia di morti e di prigionieri che successivamente erano stati oscenamente mutilati. In fondo anche la Gran Bretagna aveva vendicato le sconfitte di Cartum e Majuba, ma ormai l’Etiopia fa parte della Società delle Nazioni, dove è stata ammessa proprio per le pressanti richieste italiane del 1923. Nella realtà a Churchill, nonostante la sua ammirazione per Mussolini, poco importa dell’Etiopia e dell’Italia. La sua valutazione della loro vertenza riguarda esclusivamente il danno o il vantaggio che l’Inghilterra può ricavarne. In tale ottica s’immerge, quindi, in approfonditi ed utilitaristici calcoli e ne trae queste conclusioni: un’Italia molto più forte e autorevole in Africa non fa comodo ai britannici, cui invece è utile il contenimento che la nazione mediterranea già esercita su Hitler e le sue mire di annessione dell’Austria. Ma, tutto sommato, la riaffermata maestà della Società delle Nazioni contro l’Italia può ottenere per la futura pace in Europa un apporto di energie ben superiore a quello che il Paese di Mussolini possa mai dare, rifiutare o trasferire. Se dunque l’organismo internazionale è disposto e preparato ad usare la forza di tutti i suoi componenti per frustrare le mire del Duce, all’Inghilterra conviene condividerne il peso dell’azione, a patto che non si esponga in prima 80 persona perché, forse, in questo momento essa è più debole militarmente di un’Italia decisa e ben armata. Churchill è tutt’altro che un ingenuo e, prima di appoggiare senza più dubbi sanzioni di ogni genere contro l’Italia, non si nasconde il consistente pericolo che Mussolini passi, armi e bagagli, dalla parte germanica, facendo quindi pendere la bilancia della sicurezza collettiva (rispetto a quello della Grande Guerra) in favore della nazione tedesca. Ma ciò che offende il politico inglese e, forse, gli fa perdere lucidità, è la convinzione che il Duce (confortato dalla risoluzione Joad del 1933 degli studenti di Oxford che si rifiutavano di combattere per il re e per la nazione) ritenga la Gran Bretagna “una vecchierella spaventata e indebolita che, nella peggiore delle ipotesi per lui, avrebbe emesso qualche urlo, ma non sarebbe stata mai in grado di fare la guerra”. Nella contraddittorietà dei suoi ragionamenti e delle sue conclusioni Churchill sembra ritrovare la via giusta e l’11 luglio 1935 tiene un discorso in Parlamento: “Sembrava che noi avessimo dato l’impressione di assumere una specie di guida dell’opinione pubblica europea contro i progetti italiani sull’Etiopia. Si parlò persino di una nostra azione separata e indipendente; sono lieto di apprendere dal Ministro degli Affari Esteri che non esiste alcuna base a tale ipotesi. Dobbiamo compiere il nostro dovere soltanto in unione con gli altri Paesi e in ottemperanza a quegli obblighi che gli altri al pari di noi riconoscono. Non siamo abbastanza forti per divenire gli amministratori delle leggi e gli avvocati del mondo. Faremo la nostra parte, ma non ci si può chiedere di andare oltre. Senza dubbio oggi, allo stato attuale delle cose, una nube si è stesa sulla vecchia amicizia fra Inghilterra e Italia, una nube che, a quanto sembra, potrebbe non dileguare facilmente, ad onta del desiderio di tutti. Si tratta di un’antica amicizia e non dobbiamo dimenticare, anche se il precedente è poco noto, che l’Italia, quando nel secolo scorso entrò a far parte della Triplice Intesa, richiese una particolare convenzione 81 con la quale si riconoscesse che in nessun caso gli obblighi dell’alleanza avrebbero potuto indurla ad un conflitto armato con la Gran Bretagna“. Appena un mese dopo la crisi con l’Italia è ancora peggiorata, e Churchill, consultato dal Ministero degli Esteri inglese, dice a Eden, che gli compare davanti sorridente e d’ottimo umore: “E’ giustificata da parte del Foreign Office un’azione contro l’Italia estesa fino al limite cui fosse possibile condurre anche la Francia, però non bisogna dimenticare l’accodo militare franco-italiano che le permette di mantenere il Fronte Sud sguarnito di divisioni, né bisogna dimenticare le divisioni che Mussolini ha fatto schierare al Brennero contro la Germania il cui riarmo fa paura alla Francia, quindi non c’è d’attendersi molto da essa”. Intanto grandi convogli italiani continuano a passare per il Canale di Suez carichi d’armi e di soldati senza alcun ostacolo, poi, improvvisamente il 24 agosto 1935, il governo inglese dichiara che la Gran Bretagna avrebbe tenuto fede agli obblighi derivanti dai trattati e dalle decisioni della Società delle Nazioni, e la situazione precipita. Immediatamente Churchill scrive al Ministro degli Esteri: “Sono certo che starete in guardia contro l’errore enorme di lasciare prendere alla diplomazia la precedenza nei confronti della preparazione navale. Nel 1914 usammo grande cautela a riguardo. Dove sono le nostre squadre navali? Si trovano in buono stato? Sono adeguate al compito? Possono concentrarsi con rapidità? Ricordatevi che state esercitando un’estrema pressione su un dittatore che potrebbe trovarsi in difficoltà disperate. Può darsi che egli ci misuri col suo metro; può darsi che in un momento qualsiasi della prossima quindicina vi attribuisca progetti assai più avanzati di quelli che il Gabinetto sta studiando. Mentre voi parlate con garbo, secondo formule ben misurate, può darsi che egli agisca con la violenza. E’ molto meglio non offrirgli tentazioni di questo genere. Leggo sui giornali che la flotta del Mediterraneo lascia Malta per il Levante. E’ 82 un passo ispirato a saggezza quello di abbandonare Malta dove, come ho appreso, non esiste alcuna installazione di difesa antiaerea. Secondo quanto documentato, e noi non siamo autorizzati a guardare più in là, la flotta del Mediterraneo di base ad Alessandria è assai inferiore alla marina italiana. Oggi ho impiegato qualche tempo ad osservare le costruzioni di incrociatori e di naviglio leggero che le due nazioni hanno eseguito dopo la guerra. Mi pare che voi non abbiate metà della forza dell’Italia per quanto riguarda gli incrociatori e i cacciatorpediniere, e che siete ancora inferiori a questo limite in fatto di sommergibili. Ritengo quindi che si dovrebbero indirizzare subito all’Ammiragliato domande precise sulla situazione in questa flotta britannica nel Levante. E’ sufficiente per procurarci perdite dolorose, ma è del pari sufficiente a difendersi? Essa si trova a più di tremila miglia dai rinforzi della flotta atlantica e dalla Home Fleet. Molte cose potrebbero avvenire prima che queste riuscissero a effettuare una congiunzione. Non oso dubitare che l’Ammiragliato abbia impartito i suoi ordini con circospezione. Spero potrete accertarvi che le risposte a queste domande siano soddisfacenti Qualche tempo fa ho sentito parlare di un piano per evacuare il Mediterraneo nel caso di una guerra con l’Italia conservando soltanto lo stretto di Gibilterra e il Mar Rosso. Lo spostamento della flotta del Mediterraneo a Levante dà l’impressione di far parte di questa linea di condotta. In tal caso voglio sperare che essa sia frutto di riflessione. Se abbandonassimo il Mediterraneo mentre quasi ci troviamo in stato di guerra con l’Italia, soltanto la Francia potrebbe impedire a Mussolini di sbarcare di viva forza in Egitto impossessandosi del Canale. L’Ammiragliato è sicuro del contegno che la Francia assumerebbe in un simile frangente? Lord Lloyd, che mi è vicino, ritiene che io debba mandarvi questa lettera in vista degli incerti della situazione. Non vi domando una risposta particolareggiata, ma gradirei ricevere un’assicurazione che le disposizioni prese dall’Ammiragliato vengano da voi approvate”. 83 Due giorni dopo il Ministro risponde a Churchill: “Potete essere certo che tutti i punti da voi menzionati sono stati e sono ancora adesso oggetto di attive discussioni. Sono conscio dei rischi cui voi avete accennato e farò del mio meglio affinché altri non abbiano ad ignorarli. Vi prego di non esitare a farmi pervenire qualsiasi suggerimento o avviso che vi sembri necessario. Voi conoscete perfettamente i pericoli dell’attuale situazione e conoscete del pari lo stato in cui si trovano ora le forze armate imperiali” L’11 settembre il Ministro degli Esteri inglese, sotto la fervida spinta del suo principale collaboratore Eden, che sembra avercela a morte contro l’Italia, tiene un discorso alla Società delle Nazioni dichiarando la ferma intenzione del suo Paese di intervenire contro l’aggressione italiana. Il cuore di Churchill batte all’impazzata di commozione e di orgoglio, anche se la sua testa pensa che, in fondo, l’Italia non ha altra intenzione che ricalcare ciò che in passato hanno fatto tutte le grandi nazioni in Africa, in Asia e in America. Dalle parole, Hoare sembra passare ai fatti, quando il 12 settembre due grandi incrociatori da battaglia e una nutrita flottiglia di cacciatorpediniere giungono a Gibilterra, facendo vibrare d’entusiasmo l’intera nazione britannica. Alcuni giorni dopo Churchill tiene un discorso nel quale si rivolge a Mussolini in questi termini: “Gettare un esercito di quasi un quarto di milione di uomini, scelti fra il fiore della gioventù italiana, sull’arida sponda a duemila miglia dalla patria, contro la volontà del mondo intero e senza possedere la padronanza dei mari, ed imbarcarsi poi in quella che può divenire una sequela di campagne contro un popolo e un Paese che durante quattromila anni nessun conquistatore ha pensato valesse la pena di soggiogare, significa lanciare alla fortuna una sfida senza precedenti nella storia”. E Chamberlain, vecchio estimatore di Mussolini ed eminente ex Primo Ministro inglese, scrive a Churchill per dirgli che approva in pieno il suo discorso, provocandone l’immediata risposta: “Sono lieto che approviate la mia linea di condotta nei riguardi della 84 questione abissina, ma sono anche molto addolorato. Rovinare l’Italia sarebbe un gesto terribile e ci costerebbe molto caro. E’ strano che dopo aver pregato la Francia durante tutti questi anni affinché si riconciliasse con l’Italia, proprio noi si debba ora costringerla a scegliere fra Italia e Gran Bretagna. Non avremmo dovuto intraprendere un’azione così decisa e violenta. Se avessimo avuto opinioni tanto forti al riguardo, sarebbe stato nostro dovere informarne Mussolini due mesi prima. Sarebbe stato più intelligente rinforzare per gradi la nostra flotta nel Mediterraneo al principio dell’estate, facendogli così comprendere quanto fosse grave la situazione. Che possiamo fare ora? Mi aspetto un serio rialzo di temperatura quando incomincino in Etiopia le operazioni”. Nonostante tutto il Duce non sembra minimamente impressionato e dà ordine di invadere l’Etiopia. Sette giorni dopo, con una votazione di 50 contro 1, la Società delle Nazioni decide di prendere provvedimenti contro l’Italia, ma prima nomina una commissione per tentare ancora una pacifica composizione della vertenza. Il dittatore italiano mostra, ancora una volta, lucidità e astuzia dichiarando: “L’Italia risponderà con la disciplina, la frugalità, il sacrificio”, aggiungendo poi, in seconda battuta, che non avrebbe tollerato sanzioni che ostacolassero l’invasione dell’Etiopia, avrebbe quindi dichiarato guerra a chiunque avesse sbarrato il suo cammino, e conclude: “Cinquanta nazioni!, cinquanta nazioni al seguito di una sola!”. In Inghilterra siamo alla vigilia di nuove elezioni e l’azione italiana crea agitazioni in seno al partito laburista. I membri dei sindacati, con Bevan in testa, hanno un fortissimo desiderio di combattere il dittatore italiano, imponendogli spietate sanzioni e impiegando la flotta per bloccare il Canale di Suez. Una serie di infiammate riunioni porta alle dimissioni del capo del partito laburista e alla nomina del maggiore Attlee, che ha al suo attivo un passato di coraggioso combattente. Ma tutto il risveglio nazionalistico inglese non 85 corrisponde alle reali intenzioni del Primo Ministro Baldwin che aveva, è vero, affermato: “sanzioni uguale guerra”. In effetti, in pieno accordo con Laval, decide di scartare tutto quello che avrebbe potuto provocare un conflitto armato. Insomma le sanzioni diventano una specie di burla per il popolo inglese, perché si permette la libera entrata in Italia del petrolio (del quale ha tanto bisogno), si proibisce invece, con gran rigore, l’importazione di alluminio che l’Italia già produce al di là del fabbisogno. In sostanza non si deve ostacolare l’esercito italiano nella sua invasione dell’Etiopia, né si vuole impiegare in modo aggressivo la flotta, ma ciò viene tenuto nascosto agli elettori inglesi ai quali si fa trapelare solo la preoccupante notizia che vi sono tante squadriglie suicide di bombardieri italiani pronti a schiantarsi sui ponti delle navi inglesi, prive di adeguata difesa antiaerea e non in grado di affrontare vittoriosamente la flotta di Mussolini. Churchill sa bene, ora che è giunta nel Mediterraneo la Home Fleet, che non è così e si lamenta per l’insipienza del Governo che costringe la sua patria a fare una misera figura estremamente dannosa non solo con l’Italia, ma anche con la Germania e il Giappone, che osservano attentamente gli avvenimenti. Poi, al Congresso del Partito Conservatore, Churchill appoggia una proposta articolata nei seguenti punti: “1)Riparare alle serie deficienze delle forze militari e organizzare le nostre industrie per una rapida eventuale conversione a scopi di guerra. 2)Compiere uno sforzo per la parità aerea con le più potenti aeronautiche dei Paesi vicini. 3) Ricostruire la flotta e rafforzare la marina per salvaguardare i rifornimenti e garantire l’unione delle varie parti dell’impero”. I conservatori vincono le elezioni e Churchill viene rieletto, ma non ottiene l’Ammiragliato cui tiene moltissimo: non bisogna turbare, con la presenza di un così coriaceo personaggio, la resa dinanzi alla sfida italiana. Lui brontola che l’Inghilterra attuale, priva di decisione e coraggio, avrebbe dovuto comportarsi come gli Stati Uniti, che si sono tenuti del tutto estranei alla questione. Per Churchill il fondo 86 della vergogna viene toccato quando, nel dicembre 1935, Hoare e Laval presentano un progetto di spartizione dell’Etiopia fra l’Italia e l’imperatore Selassié, ma il Gabinetto lo respinge, costringendo Hoare a dimettersi e Baldwin a dichiarare nel dibattito alla Camera: “Sentivo che queste proposte erano troppo arrischiate, e non sono stato sorpreso della reazione che hanno provocato. Non mi aspettavo però quella reazione più profonda del Paese che si è manifestata in nome di quello che io chiamo coscienza e onore. Nel momento in cui mi trovo di fronte a essa, so che qualcosa ha fatto appello ai sentimenti più profondi dei nostri connazionali, so che una corda ha vibrato domandando risposta al loro intimo convincimento. Ho riesaminato le mie azioni e ho sentito che il Paese non potrebbe approvare quelle proposte...” La Camera accetta le scuse, l’azione inglese non cambia e Churchill, più che mai deluso, va in viaggio all’estero a “imbrattar tele”. Nel frattempo le truppe italiane, dopo aver iniziato le operazioni di guerra il 3 ottobre 1935 e conquistato il 5 Adigrat, il 6 Adua, il 15 la città santa di Axum, l’8 novembre Macallé, hanno un periodo di relativa sosta che termina il 20 gennaio 1936 quando, sotto il comando di Badoglio che ha sostituito De Bono, entrano a Neghelli. Affrontano poi la prima dura battaglia detta del Tembien, nella quale muoiono diecimila etiopici e mille fra italiani e truppe eritree. Fanno seguito altre durissime battaglie come quella dell’Endertà e la Tembien 2° che conducono alla conquista (28 febbraio) del massiccio dell’Amba Alagi, con gravissime perdite etiopiche. La battaglia dello Sciré spalanca le porte al definitivo successo, al quale contribuisce anche il generale Graziani che attacca e avanza dalla Somalia. Con la battaglia del lago Aschianghi e l’offensiva dell’Ogaden (15 aprile), il Negus fugge e gli italiani entrano in Addis Abeba il 5 maggio 1936. Mussolini, al colmo della felicità, proclama l’Impero avendo conquistato, a 53 anni, un Paese di quasi un milione di chilometri quadrati con una popolazione di diecine di milioni di abitanti. E 87 Churchill annota che l’annessione all’Italia dell’intera Etiopia produce in tutto il mondo (ed in particolare in Germania) grande ammirazione per il Duce e disprezzo per il Governo inglese e l’Inghilterra tutta, che subisce una notevole diminuzione di prestigio e la perdita d’una forte alleata contro la quale ha voluto provare a fare, perdendolo, un braccio di ferro durato ben una diecina di mesi. Nel mese di luglio la Home Fleet viene ritirata dal Mediterraneo e le sanzioni vengono abolite. HITLER, nonostante la sudditanza psicologica nei confronti di Mussolini, gioca abilmente le sue carte per attrarlo dalla sua parte durante la crisi etiopica. Da un lato si dichiara pronto a fornirgli le materie prime che eventualmente dovessero mancare all’Italia per effetto delle sanzioni, dall’altro, in tutto segreto e fino all’inizio delle ostilità, ha fornito armi al Negus con lo scopo di far durare la campagna etiopica il più a lungo possibile, in modo da poter avere mano libera sull’Austria e far ulteriormente peggiorare i rapporti italoinglesi. Ma la rapida e brillante vittoria italiana in un Paese tanto vasto ed impervio frustra in parte i suoi progetti, lo accende di ancor più viva ammirazione per il Duce e gli conferisce maggiore sicurezza per i suoi programmi di espansione europea ai danni degli alleati della Francia e dell’Inghilterra. Non a caso in Germania fioccano articoli come questo della Munchener Zeitung pubblicato il 16 maggio 1936 che dice: “...Una politica che tenta di raggiungere il successo posponendo le decisioni, può difficilmente sperare di resistere al turbine che scuote l’Europa e il mondo. Sono pochi gli uomini i quali, su basi nazionali e non su presupposti di partito, combattono contro l’imbelle e ambiguo atteggiamento del Governo, facendolo responsabile di pericoli verso cui viene trascinato l’Impero (inglese) ancora inconscio. Le masse sembrano d’accordo con il Governo nello sperare che esso migliori tutte le situazioni, e che mercé lievi rettifiche e manovre ben studiate l’equilibrio possa di nuovo venire raggiunto. Oggi l’Abissinia è irrevocabilmente e completamente italiana. Di conseguenza, né Ginevra né Londra possono nutrire dubbi sul fatto 88 che soltanto l’impiego di una forza straordinaria riuscirà ad espellere gli italiani dall’Etiopia. Ma non si trovano a portata di mano né la forza né l’ardire necessario per usarla”. 89 | |
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| Titolo: Re: I CINQUE DUCI A CONFRONTO saggio di storia comparata Lun Ott 20, 2014 7:04 pm | |
| CAP. VII RENANIA E SPAGNA COINVOLGONO QUATTRO DEI CINQUE PROTAGONISTI HITLER, galvanizzato dai successi che le truppe di Mussolini stanno cogliendo in Etiopia e dalla conseguente mortificazione della Società delle Nazioni e della Gran Bretagna, fa convocare, il 7 marzo 1936, dal suo Ministro degli Esteri gli ambasciatori di Inghilterra, Francia, Italia e Belgio per proporre un patto venticinquennale che comporta: smilitarizzazione della frontiera del Reno, limitazione delle forze aeree, trattato di non aggressione con i confinanti dell’Ovest e dell’Est. Però, appena due ore dopo, il Führer annuncia che intende rioccupare militarmente la Renania. Subito 35mila soldati tedeschi invadono l’intera regione che il Trattato di Pace e quello di Locarno hanno vietato alle truppe tedesche, pena l’immediata reazione, anche armata, delle nazioni firmatarie. Ma la beffa non finisce qui: Hitler dichiara che l’occupazione è puramente simbolica, mentre il suo ambasciatore a Londra presenta a Eden, divenuto Ministro degli Esteri inglese, proposte simili a quelle formulate poche ore prima a Berlino ai diplomatici delle quattro nazioni europee. Solo in Francia si scatena un’ira violenta, ma del tutto improduttiva di risultati pratici, perché il Primo Ministro Serraut e il Ministro degli Esteri Flandin, nonostante siano alla guida di un Paese che vanta l’esercito e l’aviazione più potenti d’Europa e una leaderschip su Cecoslovacchia, Iugoslavia, Romania e Polonia, si limitano a concitate consultazioni con il governo inglese che invita alla calma e ad appellarsi alla stessa Società delle Nazioni appena svergognata 90 dall’Italia di Mussolini. Ciò consente ad Hitler di rinfacciare, ai generali tedeschi, che gli avevano sconsigliato l’azione, l’infondatezza dei loro timori, e di dare ordine di procedere, in tempi rapidi, alla costruzione di possenti fortificazioni ai confini occidentali della Renania, che gli avrebbero concesso di poter liberamente disporre di grandissima parte dell’esercito per eventuali imprese aggressive ad est e a sud. Poi, con volto impassibile, il dittatore tedesco dichiara al mondo: “Adesso tutte le ambizioni territoriali della Germania sono soddisfatte”. Nel frattempo il capo dei nazionalisti spagnoli, il generale Franco, che si sta battendo contro le forze governative della sinistra, manda (nel luglio 1936) a Bayreuth da Hitler suoi emissari per chiedere aiuti militari per la Guerra Civile nella quale sono già intervenute, con consistenti forniture belliche, la Francia e principalmente l’URSS. Dalla Germania partono, con destinazione Spagna, 30 aerei da trasporto Junkers 32, 6 caccia Heinkel, e ancora 80 aeroplani, 60 carri armati, 166 cannoni e 300 mitragliatrici. Per ora il Führer non vuole inviare altro per rispetto a Mussolini del quale, per un tacito accordo, riconosce l’assoluta preminenza nell’Europa meridionale. In effetti la politica del dittatore tedesco, che tenta una sempre più stretta collaborazione con l’Italia fascista, sembra avere il pieno successo: le due nazioni sono affiancate contro l’URSS quando, nel settembre del 1936, si svolge a Londra la prima riunione del Comitato di Non Intervento in Spagna. Inoltre Hitler raccoglie altri autorevoli consensi durante le grandiose Olimpiadi organizzate, nello stesso anno a Berlino, dove Lloyd George riconosce in lui l’uomo che, dopo la sconfitta tedesca, ha unito mirabilmente il suo popolo e gli ha permesso di riprendersi. Ma il Führer è pronto, formalmente, ad assumere una posizione di secondo piano in favore di Mussolini e immediatamente dice al diplomatico italiano Anfuso che: “Il Duce è il primo europeo che ha disfatto i marxisti, e l’Italia e la Germania debbono camminare affiancate perché sono alleate naturali per la 91 grandezza dei loro capi, per le diverse sfere d’influenza e per il comune destino di grandezza”. Dopo aver riconosciuto l’Impero Italiano nel 1936 e offerto all’Ungheria futuri compensi territoriali (su ipotetiche avanzate tedesche) a spese della Cecoslovacchia, nel 1937 il dittatore tedesco raggiunge la grande soddisfazione di far aderire Mussolini all’idea di un reale Asse Berlino-Roma, di fargli tacitamente accettare una futura Austria nazisteggiata e, dulcis in fundo, di convincerlo a recarsi in visita ufficiale in Germania. Tutto è organizzato in modo perfetto: grandi decorazioni floreali, entusiastici applausi, e stampe raffiguranti Predappio (paese natale del Duce) collocate negli appartamenti che ospitano la delegazione italiana. Ma Mussolini inizialmente si mostra freddo e distaccato fino alla fantasmagorica parata militare nel Macklenburg dove incomincia a sorridere e a dare qualche tangibile manifestazione di amicizia e di ammirazione, nonostante Ciano e Badoglio (che l’accompagnano) sembrino ben poco coinvolti. Infine a Berlino, dopo che i treni speciali dei due dittatori si sono affiancati e gli osanna e i consensi della folla si dilatano per le imbandierate strade della città e principalmente al Campo di Maggio, Mussolini tiene un acceso discorso, nel quale dice: “Oggi sono qui, sono voluto venire qui e domani non andrò altrove. Se si è amici si marcia insieme fino in fondo. I nostri due popoli con i loro 115 milioni di anime debbono essere uniti in una sola incrollabile decisione!” CHURCHILL già dal febbraio del 1936 avverte un’atmosfera diversa in Inghilterra, in gran parte causata dall’azione italiana in Etiopia e dai vergognosi accordi Hoare-Laval. In generale l’opinione pubblica sarebbe favorevole a un’eventuale guerra contro il fascismo che sta ricevendo continui attestati di solidarietà dal nazismo. Però in Parlamento si continuano ad ostacolare misure di riarmo e il Governo, dopo la primitiva impennata di Hoare, insiste nella politica di moderazione ispirata da un Baldwin che appare, ogni giorno che 92 passa, sempre più vecchio. In Francia la situazione è, più o meno, analoga anche se viene firmato un patto franco-sovietico in funzione antitedesca. Quando Hitler invade la Renania, Wigram, uno stretto collaboratore di Eden, e il Ministro degli Esteri francese Flandin si recano in visita privata da Churchill e gli dicono di essere pronti a far varare la mobilitazione delle Forze Armate, avendo anche avuto ampie assicurazioni, sia dai Paesi della “Piccola Intesa” che da altre Potenze, di analoghe decisioni. Ma appena pochi giorni dopo il Cancelliere dello Scacchiere inglese, Chamberlain, getta acqua sul fuoco dicendo a Flandin: “La pubblica opinione non ci approverebbe qualora volessimo imporre sanzioni di qualsiasi genere. Anche se voi pensate che la Germania, trovandosi davanti a un fronte compatto, verrebbe a più miti consigli senza bisogno di una guerra, noi non possiamo accettare questa opinione come un giudizio attendibile a proposito delle possibili reazioni di un dittatore pazzo”. Poi suggerisce di condurre negoziati con la Germania, ma su base internazionale e offrendole, in cambio del ritiro delle truppe dalla Renania, la cessione di una colonia africana. Anche i grandi quotidiani inglesi appoggiano e, in qualche caso, ispirano, ammaestrati dai miseri e mortificanti risultati conseguiti dalla campagna contro Mussolini, la politica pacifista del Governo e scrivono di credere alla sincerità della proposta di Hitler sul patto di non aggressione. Ciò nonostante Flandin, appoggiato da Churchill, dice agli inglesi: “Il mondo intero, e in particolare le piccole nazioni, volge oggi lo sguardo alla Gran Bretagna. Se l’Inghilterra agisse, si troverebbe alla testa dell’Europa; la sua linea di condotta sarebbe seguita da tutto il mondo e in tal modo si eviterebbe una guerra. E’ la vostra ultima possibilità. Se non fermate la Germania oggi, tutto è finito. La Francia non può garantire la Cecoslovacchia perché questo è geograficamente impossibile. Se non provvedete a mantenere in 93 vigore il Trattato di Locarno, non vi rimarrà altro che aspettare di veder completato il riarmo germanico contro il quale la Francia è impossibilitata ad agire. Se voi non frenate oggi la Germania, la guerra scoppierà inevitabile a onta di qualsiasi temporanea amicizia che vi riesca di concludere con quello Stato. Una vera amicizia tra Inghilterra e Germania è impossibile secondo il mio parere e i rapporti tra i due Stati saranno sempre tesi. Nondimeno, nel caso voi abbandoniate Locarno, io muterò la mia linea di condotta poiché non mi rimarrà altro da fare”. Per tutta risposta l’inglese Lord Lothian si limita a dire: “Dopo tutto i tedeschi sono entrati soltanto in casa propria!”. A questo punto Churchill suggerisce a Flandin di rivolgersi nuovamente a Baldwin a cui, in fondo, spetta di decidere l’atteggiamento globale del Governo, ma nulla cambia: il Primo Ministro risponde al francese che il Paese non è disposto a correre il rischio di una guerra anche perché, per ora, la Gran Bretagna non è in grado di farla. Quando la delegazione francese riparte per Parigi, Wigram dice alla moglie (che riferisce per iscritto a Churchill): “Ora la guerra è inevitabile, e sarà la guerra più orrenda che sia mai avvenuta. Non credo che vivrò tanto da vederla, ma tu la vedrai, cadranno le bombe sulla nostra casetta. Tutto il mio lavoro di questi anni è stato inutile. Sono un fallito. Non sono riuscito a far sì che la gente comprendesse il pericolo. Suppongo di non avere energie sufficienti. Non sono stato capace di fare gli altri partecipi delle mie convinzioni. Winston (Churchill) ha sempre, sempre capito, è forte e andrà avanti sino alla fine”. Wigram muore appena qualche mese dopo. In questo periodo agitato, il governo inglese decide di creare un nuovo ministero di Coordinamento della Difesa e Chamberlain propone che venga affidato a Churchill, ma Neville (che è sicuro di sostituire Baldwin entro breve tempo) dice: “Se il nuovo ministero andasse a Churchill, quegli elementi liberali e il Centro che hanno considerato l’esclusione di Hoare una garanzia contro il militarismo 94 ne sarebbero allarmati, si prenderebbe una decisione contraria al parere degli esponenti della volontà generale del partito e si correrebbe il rischio di suscitare alla scomparsa di Baldwin una disputa per la successione”. Il nuovo ministero viene così affidato all’abile avvocato Inskip che, non avendo nessuna conoscenza di cose militari ed essendo del tutto sconosciuto, non può, al contrario di Churchill, risultare sgradito a Hitler. Proprio Churchill, quando il 6 aprile 1936 il Governo chiede un voto di fiducia sulla politica estera, dice in Parlamento: “Hitler ha lacerato i trattati e guarnito di presidi la Renania. Le sue truppe ne hanno preso possesso e vi rimarranno. Tutto ciò significa che il regime hitleriano ha guadagnato nuovo prestigio in Germania e nei Paesi vicini. Ma il fatto più importante è che la Germania sta fortificando. In primo luogo vengono costruiti soltanto trinceramenti campali, ma chi conosce quale perfezione i tedeschi possono raggiungere nell’apprestare fortificazioni quali la linea Hindeburg, con tutte le armature e l’assieme dei corridoi ivi inclusi, capirà come i trinceramenti differiscano solo sino a un certo punto dalle fortificazioni permanenti e come dal primo squarcio inflitto al terreno, essi possano rapidamente svilupparsi sino ad assumere la loro forma finale perfetta. Quali saranno le conseguenze diplomatiche e strategiche? Mettere la Germania in grado di economizzare truppe sul suo fronte, e darà modo alle forze più importanti di compiere una manovra di avvolgimento attraverso il Belgio e l’Olanda. E sul fronte Orientale gli Stati Baltici, la Polonia e la Cecoslovacchia, cui dobbiamo unire Jugoslavia, Romania, Austria e alcuni altri Paesi, subiranno tutti una nuova e decisiva influenza”. Tre mesi dopo, nell’agosto 1936, scoppia una nuova crisi. In Spagna s’instaura un regime di tipo comunista nel quale è evidente la matrice staliniana che si sta efficacemente estendendo anche in campo internazionale. Immediatamente si oppone il generale nazionalista e filo fascista, Francisco Franco, e si sviluppa una violenta, sanguinosa 95 e crudele guerra civile. Personalmente Churchill si mantiene neutrale e, per una volta, appoggia il governo inglese che vuole mantenersi equidistante dalle due parti in lotta. La Francia propone un piano di non intervento secondo cui i contendenti debbono essere lasciati liberi di combattersi senza alcuna intromissione straniera. Vi aderiscono tutte le grandi Potenze (con l’ormai abituale assenza degli Stati Uniti), ma per alcune l’adesione è solo formale. Infatti, mentre la Gran Bretagna si attiene rigidamente a quanto stabilito, l’URSS (per i governativi) seguita da Italia e Germania (per il generale Franco) e, infine, dalla Francia (che cede alle pressioni dei comunisti locali in favore dei governativi) inviano aeroplani ed armamenti vari. Churchill ne è profondamente turbato e scrive all’ambasciatore francese a Londra: “Una delle mie più grandi difficoltà nel mantenere le vecchie posizioni è l’affermazione tedesca che tutti i Paesi anticomunisti dovrebbero schierarsi insieme. Sono certo che, se la Francia mandasse aeroplani ed altro all’attuale Governo di Madrid e gli italiani e i tedeschi facessero pressione dalla parte opposta, le forze qui dominanti proverebbero simpatia per il comportamento della Germania e dell’Italia, allontanandosi di conseguenza dalla Francia. Spero che non vi offenderete per quanto scrivo, dato naturalmente che espongo soltanto il mio punto di vista personale. Non mi piace sentir parlare di azione congiunta di Inghilterra, Germania e Italia contro il comunismo. E’ troppo facile per dare buoni risultati. Sono certo che la rigida neutralità accompagnata dalle più nutrite proteste per qualsiasi eventuale infrazione sia l’unica linea di condotta corretta e savia da seguire in questo momento. Può darsi che un giorno, venendosi le due forze a trovare in situazioni del pari insostenibili, la Lega delle Nazioni possa intervenire. Ma anche questa eventualità è molto dubbia” Vedere l’Italia e la Germania (il cui potenziale bellico aumenta continuamente) procedere d’amore e d’accordo e cogliere successi in terra spagnola, finalmente inducono l’intera nazione inglese in 96 un’ansia costruttiva per un efficace riarmo specialmente dell’aeronautica, e, puntuale, Churchill il 12 novembre 1936 dice in Parlamento: “Qualsiasi Governo di questa nazione e soprattutto un governo nazionale, farà in modo che per quanto concerne la potenza aeronautica e la sua forza essa non venga a trovarsi in condizioni d’inferiorità nei rapporti con qualsiasi Stato vicino. I membri del Governo non riescono a decidersi, oppure non riescono a far decidere il Primo Ministro, e persistono così in una situazione stranamente paradossale, risoluti soltanto di essere irresoluti, adamantini nell’abbandono, solidi nell’elasticità, onnipotenti nell’impotenza. Così dunque noi insistiamo a perdere altri mesi e anni preziosi, forse vitali per la grandezza della Gran Bretagna, affinché siano divorati dalla locusta”. Gli risponde Baldwin con la stupefacente confessione di non aver compiuto il proprio dovere nei riguardi della sicurezza nazionale, perché aveva temuto di perdere le elezioni a insistere sul riarmo. L’intera Camera rimane talmente scioccata e penosamente impressionata che avrebbe sicuramente chiesto le dimissioni di Balwin se non fosse intervenuto, del tutto imprevisto, il problema del re che vuole assolutamente sposare la più volte divorziata signora Simpson. Mentre Baldwin pilota con grande abilità la vicenda, Churchill, in preda alla solita foga, si schiera contro l’abdicazione del re, rimanendo del tutto isolato e con la carriera politica finita. Per lunghi mesi in Inghilterra non si pensa ad altro che alla famiglia reale e al passaggio da un re (che abdica) ad un altro (che assume la corona). Affari esteri e difesa militare non hanno più importanza. Solo a nuova incoronazione avvenuta (maggio 1937), Baldwin si dimette e viene sostituito da Chamberlain, che non ha più voglia di lavorare con Churchill: Eppure l’anziano e coriaceo uomo politico inglese viene considerato all’estero ancora molto importante e i suoi articoli vengono attentamente letti. Così nel 1937 l’ambasciatore tedesco a Londra, von Ribbentrop (che presto diventerà Ministro degli Esteri), 97 invita a colloquio Churchill e gli dice di essere nella capitale britannica per ottenere un’alleanza anglo-germanica nella quale i tedeschi avrebbero montato la guardia all’Impero inglese perché essi non pretendono la restituzione delle loro ex colonie, ma mano libera nell’Est europeo. La Germania, prosegue von Ribbentrop, deve raggiungere lo spazio vitale per la popolazione in continuo aumento, quindi la Polonia e il corridoio di Danzica debbono venire assorbiti, e la Russia bianca e l’Ucraina sono indispensabili al futuro della Germania; nessuna annessione minore può essere ritenuta sufficiente, mentre la Francia può ritenersi al sicuro. Prontamente Churchill gli risponde che, nonostante i cattivi rapporti con l’URSS e l’odio per il comunismo, la Gran Bretagna non si sarebbe mai disinteressata, come la sua storia ampiamente dimostra, al Continente al punto da permettere alla Germania il dominio dell’Europa Centrale e Orientale. E Ribbentrop di rimando: “In tal caso la guerra è inevitabile. Non esiste altra via d’uscita. Il Fuhrer è deciso. Nulla potrà fermarlo, nulla potrà fermarci”. Al che Churchill risponde: “Quando parlate di una guerra che senza dubbio sarebbe mondiale, non dovete sottovalutare la Gran Bretagna. E’ una singolare nazione, e pochi stranieri possono comprendere la sua mentalità. Non giudicatela in base al comportamento dell’attuale governo. Quando una grande causa venisse presentata al popolo, questo stesso governo e la nazione britannica potrebbero dimostrarsi capaci dei gesti più inattesi. Non stimate l’Inghilterra al di sotto del suo valore. E’ molto abile e, se voi ci getterete tutti in un’altra grande guerra, la Gran Bretagna porterà contro di voi tutto il mondo, come avvenne l’altra volta”. L’ambasciatore replica immediatamente: “Può darsi che l’Inghilterra sia molto abile, ma stavolta non condurrà tutto il mondo contro la Germania”. Quando Hitler manda i soldati in Renania, MUSSOLINI è in tutt’altre faccende affaccendato: bisogna ancora raggiungere la vittoria completa in Etiopia. Poi, occupata Addis Abeba, proclama, dal 98 fatidico balcone, che: “L’Impero è riapparso sui colli fatali di Roma” e respingere le fervide iniziative del re che vuole assolutamente nominarlo Principe con questa motivazione: “Ministro delle Forze Armate, preparò, condusse e vinse la più grande guerra coloniale che la storia ricordi, guerra che egli, Capo del Governo del Re, intuì e volle per il prestigio, la vita e la grandezza della patria fascista”. Indubbiamente questo è per Mussolini un periodo esaltante, egli raccoglie dovunque (all’interno e all’estero) grandi consensi e molti si convertono al fascismo. Ma l’Italia, ora, ha bisogno di un lungo periodo di pace, sia per proseguire e concludere la normalizzazione dei rapporti con le nazioni che avevano votato e applicato le sanzioni, sia per riassestare le finanze, le attrezzature e gli armamenti seriamente intaccati dallo sforzo della guerra. Invece sopravviene la crisi spagnola, dove si affaccia prepotente nel Mediterraneo il comunismo e, parallelamente, sempre più pressanti giungono le richieste di aiuto dalla parte nazionalista e filo fascista. Inizialmente il Duce non si fa coinvolgere più di tanto e, dalla primitiva risposta negativa, solo in parte pungolato dagli invii staliniani in Spagna di elementi del Comintern e di aiuti militari russi, francesi e tedeschi, decide di concedere a Franco 12 bombardieri S 81 e altro materiale bellico, previo pagamento di un milione di sterline. Poi la Guerra Civile Spagnola diviene una questione di prestigio, d’influenza politica e di lotta al comunismo: l’Italia ed il fascismo, freschi di gloria e di reputazione guadagnata a spese della Società delle Nazioni e dell’Inghilterra, non possono assolutamente cedere posizioni, specialmente nel Mediterraneo, che Mussolini incomincia a chiamare “Mare nostrum”, come gli antichi romani. Così 27 caccia, 5 carri armati, 40 mitragliatrici e 12 cannoni contraerei prendono la strada della Spagna. Inoltre il 26 agosto 1936 il Duce dà ordine a Galeazzo Ciano di inviare alcuni idrovolanti e l’incrociatore “Fiume” (tutti con personale italiano) a Palma de Maiorca per dare man forte ai nazionalisti spagnoli minacciati dai governativi e dalla loro flotta che, 99 presto, ripiega su Gibilterra. Eppure, fino al dicembre 1936, non è l’Italia che manda nella nazione iberica più armi. Infatti contro i complessivi invii italiani di 118 aerei, 35 carri armati, 92 pezzi d’artiglieria e 102 mitragliatrici, i tedeschi forniscono 162 aerei, 60 carri armati, 166 cannoni, e 300 mitragliatrici, mentre l’URSS concede 50 aeroplani, 400 autocarri, 100 carri armati, e 400 fra piloti e carristi e la Francia 100 aerei oltre a consistenti quantitativi d’altre armi. Così il conflitto, nato come guerra civile, diviene europeo perché vede Italia e Germania contro URSS e Francia e non solo per invii di materiali bellici, ma anche con partecipazione diretta di personale militare. Incomincia Stalin, che invia il generale Pavlov a combattere al fronte spagnolo alla testa di aerei e carri armati russi guidati da soldati sovietici. Poi la “Legione Condor” tedesca (al comando del colonnello von Richthonfen) entra in azione con 120 aeroplani, batterie contraeree e anticarro e 4 compagnie di carri armati. Ma Hitler non va oltre, fermo nel convincimento che deve essere il Duce a sopportare gli oneri maggiori in Spagna e a goderne poi dei massimi onori. Quando il 18 novembre 1936 Italia e Germania riconoscono il Governo Nazionalista che Franco ha insediato a Burgos, il generale spagnolo entusiasta proclama: “Spagna, Italia, Germania e Portogallo sono i baluardi della civiltà, della cultura e della Cristianità in Europa”. A questo punto Mussolini sembra totalmente conquistato dall’idea di assicurasi una seria e definitiva ipoteca d’influenza sulla futura nazione spagnola e il 28 novembre stipula il patto italo-franchista con il quale l’Italia assicura alla Spagna il suo appoggio per conservarne l’indipendenza e l’integrità e invia un corpo di spedizione non di soldati regolari, ma di pseudovolontari chiamati “legionari” al comando del generale Roatta. Sono 50mila uomini, raggruppati in 4 divisioni, più reparti speciali, aviazione e autotrasporti. Vi è poi la Marina da guerra, che impegna 13 100 incrociatori, 22 cacciatorpediniere e 42 sommergibili, assicurandosi presto il dominio incontrastato sulla flotta repubblicana. Nel febbraio 1937 le truppe italiane entrano in azione nella battaglia per conquistare Malaga, il cui possesso è necessario per assicurare ai franchisti un porto Mediterraneo continentale. La città è difesa da 12.000 repubblicani e gli italiani attaccano con una divisione fiancheggiata da reparti spagnoli. Il successo giunge rapidamente (7 febbraio) e frutta anche diecimila prigionieri contro 94 morti e 276 feriti italiani. Il Ministro degli Esteri Ciano invia immediatamente un telegramma di elogio: “Azione fulminea che ha pienamente corrisposto nostra aspettativa”. Seguono sue istruzioni perentorie a Roatta e a Franco: “Occorre sfruttare immediatamente brillante successo agendo massima rapidità et decisione su direttrice Almeria- Murcia-Alicante-Valencia (che si trova a ben 600 chilometri di distanza ed è sede del governo repubblicano) . Divisione Littorio in arrivo consente agire decisamente per ottenere crollo nemico. Franco intensifichi contemporaneamente sua azione su Madrid per immobilizzare forze nemiche”. Invece che all’avanzata i franchisti si dedicano a una feroce repressione (che si allinea a quelle più volte messe in atto dai repubblicani) con quattromila uomini giustiziati dopo una parvenza di processo. Ma Franco, che è un orgoglioso galiziano di origine italiana di 45 anni, deve una risposta agli ordini di Ciano e la comunica il 13 febbraio al vice di Roatta: “In fin dei conti si sono mandate qui delle truppe senza chiedermi autorizzazione. Dapprima mi si era detto che venivano volontari da inquadrare nei battaglioni spagnoli, poi mi si chiese di inquadrarli in propri battaglioni e io accondiscesi. Quindi arrivano ufficiali superiori e generali a comandarli, poi altre unità inquadrate. Ora mi si vuole imporre di lasciare che queste truppe combattano unite agli ordini del generale Roatta, mentre i miei piani sono ben diversi. L’impiego di queste truppe resta grandemente limitato dalla necessità che siano sempre riunite”. Spiega poi che non 101 vuole tante offensive lampo, ma un’occupazione sistematica del territorio che consenta un’accurata pulizia politica. Per quanto poi riguarda Sagunto e Valencia dice: “Valencia deve essere occupata da truppe nazionali. Mi riservo di decidere sull’impiego della massa, che mi dispiace di non poter impiegare, come avevo progettato, su diversi fronti, ma è molto probabile che vi chieda di attaccare Guadalajara”. Nella zona indicata dal generalissimo spagnolo i franchisti sono in difficoltà e i loro attacchi si sono spenti in una guerra di posizione. Roatta, più volte invitato ad entrare in azione con le sue truppe, nicchia, preferisce preparare le cose nel modo migliore, ma Mussolini afferma: “L’attacco è ottimo per accerchiare sul serio Madrid e forse determinare la resa”. Ovviamente Roatta si convince, al pari del roccioso Franco, che fissa una specie di appuntamento fra le sue truppe e quelle italiane che constano di 3 divisioni, 81 carri armati veloci (forniti, come unica bocca di fuoco, di mitragliatrice), 8 autoblindo. Sono in tutto 35mila uomini ben equipaggiati, ma mancanti di mezzi di trasporto sufficienti per tutti. Sono affiancati da una divisione franchista di 10mila uomini. Hanno contro solo 2 divisioni repubblicane, ma nevica e gli aerei italiani non possono alzarsi in volo e il promesso attacco spagnolo su Jarama (che sarebbe servito come diversivo) non avviene. Invece i repubblicani possono inviare cospicui rinforzi. Ciò nonostante le truppe fasciste penetrano nelle linee avversarie per 12 chilometri e il giorno dopo occupano Almadrones e Brihuega, ma si trovano di fronte (il 19 marzo) l’XI Brigata Internazionale, fornita di grandi carri armati russi, della quale fanno parte anche volontari italiani antifascisti, che iniziano una ben architettata propaganda a mezzo di altoparlanti e volantini. A questo punto Roatta pensa sia bene fermarsi e accontentarsi del successo parziale, ma Franco vuole assolutamente che avvenga l’attacco. Si giunge ad un compromesso mentre intervengono, da una parte, altri carri armati russi e ingenti rinforzi repubblicani, e, dall’altra, la divisione Littorio. Sono ora i repubblicani ad attaccare e i fascisti 102 ripiegano, mentre continua a nevicare, attestandosi e mantenendo nuove posizioni più arretrate. Il bilancio delle perdite è favorevole ai fascisti, con 400 morti e 500 dispersi contro i 2.000 morti e alcune centinaia di prigionieri repubblicani, ma l’obbiettivo primario dello sfondamento delle linee nemiche è venuto a mancare, inoltre qualche reparto s’è fatto prendere dallo scoramento. Nell’ambiente internazionale antifascista, dove da anni si attende un mancato successo mussoliniano, non sembra vero di poter far passare la Battaglia di Guadalajara come un vittoria repubblicana dove Davide ha battuto Golia, ma, in fondo, sia i risultati che il numero e i mezzi delle forze in campo si sono equivalsi. Ciò nonostante il Duce sostituisce Roatta con Bastico e fa svolgere alle truppe italiane, anche il 19 giugno quando tornano in azione nella vittoriosa Campagna del Nord, un ruolo non più autonomo ma comunque importante. L’11 dicembre 1937 Mussolini, dopo aver aderito al patto Anticomintern stipulato fra Germania e Giappone, esce dalla Società delle Nazioni. STALIN nel 1936 prosegue nella nuova organizzazione del Paese e del Partito che raggiunge il culmine nel 1937 fra crudeltà e sangue. Infatti dieci milioni di oppositori del regime sono ristretti nei campi di lavoro e vecchi esponenti leninisti (alcuni dei quali sono stati antichi alleati di Stalin) subiscono processi e condanne dopo essere stati costretti a confessare, per lo più colpe non commesse, con continue torture e con la tecnica del “lavaggio del cervello”. Sono più di mezzo milione le vittime, una vera e propria carneficina che tende (e ci riesce) ad annientare ogni opposizione con l’aggiunta di un sadismo smisurato, non necessario nella stragrande maggioranza dei casi. Parallelamente ai successi all’interno del Partito e del Paese, Stalin intende diffondere il comunismo nel mondo occidentale, avvalendosi di un perfetto apparato, e, laddove possibile, cerca di 103 conquistare il potere. Così avviene in Spagna dove un gran numero di volontari, provenienti da ogni Paese e ben organizzati dalle strutture staliniste, converge per combattere al fianco dei repubblicanicomunisti, che debbono debellare i franchisti decisamente intervenuti in difesa degli opposti interessi. Ormai l’URSS non è più politicamente isolata e, in Spagna, la Francia fiancheggia i sovietici contro i nazionalisti filofascisti. Il collegamento fra i volontari internazionali, il governo repubblicano spagnolo e i sovietici è perfetto e, nella sostanza, tutti prendono ordini da Mosca attraverso un capillare sistema di diplomatici, consiglieri bellici e terroristi. Sono militanti comunisti spietati, che debbono rispondere di ciò che fanno a Stalin, che è ancora più spietato di loro. Fra i volontari, numerosi sono gli antifascisti esuli dall’Italia inquadrati nella brigata Garibaldi, che si comporta molto bene nella battaglia di Guadalajara. Fra di loro Stalin ha un fedele e autorevole proconsole, esecutore freddo e lucido di qualsiasi suo ordine, l’italiano Palmiro Togliatti, che è anche un alto dirigente del Comintern con la carica di capo della sezione latina. ROOSEVELT continua, invece, a disinteressarsi (ed è ormai l’unico fra i 5 protagonisti) della politica internazionale. Non le truppe tedesche in Renania, né lo scontro fra regimi estremisti in Spagna, e nemmeno la conquista di Shangai e Nanchino nella guerra cinogiapponese lo vedono decisamente impegnato. Anzi, quando Mussolini fa invadere l’Etiopia, Roosevelt, che nutre per il dittatore italiano una certa ammirazione, non applica le sanzioni economiche contro l’Italia, utilizzando molte scappatoie che permettono di continuare il commercio dei privati con la nazione mediterranea. La sua infaticabile attività continua ad essere indirizzata alla politica interna, dove le nuove elezioni presidenziali del 1936 lo vedono oggetto di accuse anche sul suo mondo privato come l’evasione di tasse sulla sua azienda agricola o come l’ancor più grave evasione della moglie, che non pagherebbe il dovuto sulle ingenti cifre 104 guadagnate in un lungo giro di conferenze e sui tantissimi articoli continuamente pubblicati dai giornali di tutto il Paese. Roosevelt si difende con tranquilla sicurezza, dimostrando che sia lui che la moglie pagano il giusto, come ogni buon cittadino. Sottolinea invece le sue aperture sociali che gli valgono l’appoggio dei sindacati e gli ottengono una strepitosa vittoria con ben 11 milioni di voti di vantaggio e il trionfo in 46 stati su 48. A questo punto Roosevelt, sentendosi invulnerabile, tenta di addomesticare la Corte Suprema che, a suo avviso, continua a boicottare le sue iniziative politiche. Si apre quindi una intensa lotta fra di lui, il Congresso e i 9 giudici supremi, con alterne vicende che lo vedono, alla fine, vincere con l’assegnazione da parte sua di ben 5 posti sui 9 della Corte che viene ironicamente soprannominata “Corte Roosevelt”, accentuando il carattere dittatoriale del suo governo che, però, non può fare a meno di rispettare la volontà isolazionista della maggioranza dei cittadini statunitensi. 105 CAP. VIII ROOSEVELT SI FA VIVO NELLE QUESTIONI EUROPEE MENTRE AUSTRIA E CECOSLOVACCHIA IMPEGNANO INTENSAMENTE QUATTRO DEI CINQUE PROTAGONISTI All’inizio del 1938 finalmente ROOSEVELT (56 anni) sembra accorgersi della gravità di quanto da tempo sta avvenendo in Europa e dell’opportunità di un oneroso intervento americano, che non si limiti a sterili e poco impegnative missive personali. L’11 gennaio incarica il Sottosegretario di Stato Welles di consegnare all’ambasciatore inglese un suo messaggio confidenziale indirizzato a Chamberlain, nel quale dice che sta osservando con grande preoccupazione le crescenti discordie internazionali ed è disposto ad assumere l’iniziativa di invitare in America i rappresentanti di Inghilterra, Francia, Germania e Italia per discutere le cause fondamentali di attrito. Prima però desidera ricevere, entro il 17 gennaio, l’incondizionato consenso britannico. A Londra è assente il Ministro degli Esteri Eden che tanto si è adoprato per migliorare le relazioni anglo-americane e per coinvolgere Roosevelt nelle vicende europee. C’è invece il Primo Ministro Chamberlain che, pur dichiarando di apprezzare la fiducia dimostratagli dal Presidente e prima di dare la sua approvazione all’iniziativa, desidera raccontargli l’esito del suo intenso e stressante lavoro per raggiungere un accordo con la Germania e l’Italia. In particolare “il Governo di Sua Maestà, qualora sapesse che il Governo Italiano fosse pronto a dimostrare il desiderio di contribuire al ristabilimento di rapporti fiduciosi e amichevoli, sarebbe disposto a riconoscere, de jure , l’occupazione dell’Abissinia”. Conclude 106 dicendo che “il Primo Ministro riferisce questi fatti per dare modo al Presidente di considerare se il suo attuale piano non possa intralciare gli sforzi britannici. Non sarebbe il caso di posporre il progetto del Presidente?”. Il rifiuto, anche se ammantato di cortese riconoscenza per l’interesse mostrato, è fin troppo chiaro e Roosevelt è profondamente risentito. A nulla vale l’immediato intervento di Eden appositamente tornato a Londra. La replica del Presidente Americano dice laconicamente di acconsentire a rimandare l’attuazione della sua iniziativa, ma di essere molto preoccupato sulla volontà inglese di riconoscere all’Italia la posizione conquistata in Etiopia che, senza alcun dubbio, incoraggerebbe la politica aggressiva giapponese in Estremo Oriente. Immediatamente, è il 21 gennaio, partono da Londra ben due lettere di Chamberlain per il Presidente. Nella prima, dopo averlo ringraziato nuovamente, gli dice che non assume alcuna responsabilità di un eventuale fallimento dei tentativi americani. Nella seconda spiega che non ha accettato a scatola chiusa l’intervento diplomatico statunitense perché avrebbe potuto suscitare il fastidio e il rancore dei due dittatori europei e del governo nipponico, ma l’eventuale riconoscimento de jure avrebbe fatto parte di un generale, e augurabile, accordo con l’Italia. Ora Roosevelt è davvero furioso per come Chamberlain ha agito: in sostanza l’ha messo alla porta, lo ha posposto a Mussolini, e ha considerato Italia e Germania più importanti degli Stati Uniti. Guai se trapelasse in America il suo insuccesso per una volta che si è occupato con impegno di politica europea! Istintiva e subitanea la decisione di disinteressarsi del Vecchio Continente e di tornare a profondere tutto il suo impegno per i problemi di politica interna del Paese. Anche il cinquantanovenne STALIN , che è da qualche anno attivamente presente nella politica europea, riceve dei rifiuti anglofrancesi. Avviene esattamente il 18 marzo 1938, qualche giorno dopo 107 l’annessione dell’Austria da parte della Germania, quando il dittatore russo propone che si tenga, a Londra o a Parigi, una conferenza per esaminare la situazione politica e per rendere più efficiente ed esteso il patto franco-sovietico. Ma il governo francese ha anche altre preoccupazioni, come i violenti scioperi che travagliano l’industria, e i successi massicci delle truppe italo-franchiste che nella Spagna stanno nettamente prevalendo sui comunisti, con grave discredito dello stesso Stalin. A sua volta Chamberlain dice alla Camera: “Il Governo di sua Maestà ritiene che conseguenza indiretta, ma ciò nonostante inevitabile, di un gesto quale ci viene proposto dal Governo Sovietico sarebbe l’aggravarsi di quella tendenza a costituire gruppi di nazioni, che secondo il nostro punto di vista è dannosa agli effetti della pace europea”. Con questa dichiarazione e il precedente rifiuto all’intromissione di Roosevelt, il Primo Ministro inglese precisa la sua linea di condotta, del tutto concentrata su prudenti interventi a Berlino e a Roma per cercare di contenere le ambizioni italo-tedesche senza irritare Mussolini e Hitler. Il dittatore sovietico non può fare altro che prenderne atto e orientare la sua politica estera in modo diverso. CHURCHILL, che a 64 anni è in disgrazia e non ha incarichi governativi, si rode di non poter modificare la politica di Londra dove, ad un Ministro degli Esteri come Eden, convinto antifascista, si oppone la ben maggiore autorità di Chamberlain, che ha dalla sua anche i Capi di Stato Maggiore, sempre più inclini a valutare la situazione militare con nero pessimismo. Infatti ritengono la potenza bellica dell’URSS, dopo la grande epurazione di ufficiali superiori avvenuta nel 1937, assolutamente inferiore a quella di ognuno dei tre Paesi (Italia, Germania e Giappone) strettamente collegati e sempre in grado di attaccare simultaneamente, mentre l’Inghilterra non ha, per ora, alcuna possibilità d’inviare in Europa un esercito grande ed efficiente, e la Francia si macera continuamente in una timorosa incertezza. 108 Quando il 15 febbraio 1938 giunge a Londra la notizia che l’Austria ha dovuto cedere all’imposizione germanica di inserire come Ministro degli Interni un agente nazista, scoppia fra Chamberlain ed Eden un ulteriore dissidio, che si acuisce durante l’incontro (18 febbraio) con l’ambasciatore italiano Dino Grandi. Infatti, mentre il Primo Ministro inglese sembra sopportare le prepotenze dell’Asse senza corpose reazioni, Eden è sconvolto dall’arroganza del diplomatico italiano, che si rifiuta di esaminare la posizione del suo Paese nei confronti dell’Austria e la possibilità di richiamare in patria i cosiddetti volontari italiani che combattono in Spagna. Si limita, con molta degnazione, ad invitare gli inglesi a Roma per conferire con Mussolini. Chamberlain aderisce con entusiasmo, al contrario di Eden che si dimette, subito sostituito da Lord Halifax. Churchill evita di fare commenti pubblici per non danneggiare il Governo in un momento tanto delicato, ma la notte del 20 febbraio è preda, e non gli è mai accaduto prima, dell’insonnia e annota: “Mi sembrava di vedere una figura giovane e forte (Eden) ergersi contro le pesanti correnti dell’abbandono e della resa, contro le valutazioni false e le deboli reazioni. Io forse mi sarei comportato in modo diverso dal suo, ma in quell’ora mi pareva di vedere incarnata in lui ogni speranza della nazione britannica, dell’antica e grande razza britannica che tanto ha fatto per l’umanità e tanto può ancora fare. Ora egli era scomparso. Guardai la luce del giorno penetrare lenta dalle finestre e con gli occhi dello spirito mi vidi sorgere dinanzi l’ombra della morte”. Il giorno dopo, durante il dibattito relativo alle sue dimissioni, Eden dice: “Permettere che all’estero si crei sempre più la convinzione che noi pieghiamo alle costanti pressioni non mi sembra il mezzo più adatto a raggiungere la pacificazione in Europa. Sono convinto che il progresso dipende soprattutto dal carattere del Paese e che il carattere deve trovare la sua espressione nella fermezza dello 109 spirito. Confido che questa fermezza esista. Non darle modo di farsi udire mi sembra ingiusto nei confronti della nazione e del mondo”. Mentre in Italia le dimissioni di Eden vengono festeggiate come un’ulteriore grande vittoria del Duce e tutti gli italiani sparsi per il mondo sono più che convinti di un’Italia dominatrice in Europa ed oltre, Churchill dice alla Camera: “La scorsa settimana è stata per i dittatori una delle più propizie che essi abbiano avuto. Il dittatore tedesco ha steso la pesante mano su di un Paese piccolo ma ricco di tradizioni storiche, e il dittatore italiano ha visto giungere a una vittoriosa conclusione la sua vendetta contro Eden (che aveva fatto applicare le sanzioni durante la conquista dell’Etiopia). Tra essi il conflitto è stato lungo, ma senza dubbio il signor Mussolini ha vinto. Tutta la maestà, la potenza, il prestigio della Gran Bretagna non sono bastate ad assicurare il successo di quelle cause che la volontà del Paese e del parlamento avevano affidato al dimissionario Ministro degli Esteri. Così dunque ha fine questa parte della storia, così si verifica il distacco dal Governo dell’inglese cui la nazione e il parlamento avevano affidato una carica, e il trionfo assoluto del dittatore italiano proprio quando questo trionfo gli era maggiormente necessario per ragioni di politica interna; (...) Il primo Ministro e i suoi colleghi hanno intrapreso una nuova e diversa politica. La vecchia linea di condotta si basava su uno sforzo per stabilire il dominio della legge in Europa e per opporre, mercé l’appoggio della Lega delle Nazioni, una minaccia effettiva all’aggressore. La nuova politica intende forse venire a patti con le Potenze totalitarie, nella speranza che grandi gesti di acquiescenza, non soltanto nel campo dell’orgoglio e del sentimento, ma anche nel campo delle concessioni materiali possano assicurare la pace? (...) Ora sappiamo che in Renania un fermo atteggiamento della Francia e dell’Inghilterra, sostenute dalla Lega, avrebbe avuto come immediata conseguenza il ritiro delle truppe tedesche senza che si spargesse una goccia di sangue”. 110 Quando nel mese di marzo 1938 Vienna viene occupata dalle truppe tedesche, Churchill, sempre più inquieto e sempre più impotente a modificare la condotta del governo inglese, dà al parlamento una lezione di geografia politica, di comunicazioni e di rapporti di forze che dovrebbe far comprendere a quel consesso, che sembra inerte, la lucidità e la lungimiranza della politica hitleriana: “Non si esagererà mai nel valutare la gravità dei fatti del 12 marzo. L’Europa si trova davanti a un programma di aggressioni, ben calcolato e predisposto, che si svolge di grado in grado. L’unica possibilità di scelta esiste ancora, non soltanto per noi ma anche per gli altri Stati: sottometterci come l’Austria, oppure prendere provvedimenti efficaci mentre abbiamo ancora il tempo necessario per eliminare il pericolo o, quantomeno, prepararci per affrontarlo (...) Se continuiamo ad aspettare gli eventi, quante delle risorse su cui ora possiamo fare affidamento per la nostra sicurezza e per mantenere la pace andranno perdute? Quanti amici saranno straniati, quanti eventuali alleati precipiteranno a uno a uno nell’abisso? E quante volte ancora la forza millantata raggiungerà il successo, prima che la forza reale si sia veramente costituita? A che punto ci troveremo tra due anni, quando l’esercito tedesco sarà certamente più forte dell’esercito francese, e quando tutte le nazioni minori avranno abbandonato Ginevra per rendere omaggio al potere accentratore del regime nazista e per ottenere da esso le migliori condizioni possibili? (...) Vienna è al centro delle linee di comunicazione di tutti i Paesi che costituivano l’antico impero austro-ungarico e di tutte le nazioni poste a sud-est dell’Europa. Gran parte del Danubio si trova in potere dei tedeschi, e i nazisti, essendosi impadroniti di Vienna, possiedono il controllo economico di tutte le comunicazioni dell’Europa sudorientale, strade, ferrovie e traffici fluviali. Qual è l’effetto di questa situazione sulla struttura politica europea, sull’equilibrio dei poteri, su quella che viene chiamata Piccola Intesa? A proposito dei tre Paesi che compongono la Piccola Intesa, desidero dire qualcosa. 111 Presi ad uno ad uno, essi possono venire definiti potenze di second’ordine, ma dato il loro vigore e la loro forza, nel complesso formano una Grande Potenza. Sino ad ora sono stati e sono uniti dal più stretto accordo militare, ottenendo così un insieme bellico pari a quello di una grande nazione. La Romania possiede il petrolio, la Iugoslavia possiede minerali e materie prime; ambedue hanno grandi eserciti e ricevono abbondanti rifornimenti di munizioni dalla Cecoslovacchia. Il nome Cecoslovacchia suona barbaro alle orecchie britanniche. Senza dubbio si tratta di un piccolo stato democratico, che ha un esercito soltanto due o tre volte superiore al nostro e dispone di munizioni soltanto tre volte superiori a quelle dell’Italia; ma è un popolo virile, ha i propri diritti e i diritti stabiliti dai trattati, ha una linea di fortificazioni ed è animato dall’energica volontà di vivere. Di vivere libero. In questo momento la Cecoslovacchia è confinata in un isolamento economico e militare. In virtù dei trattati di pace, il suo traffico commerciale ha come sbocco Amburgo, e può venire troncato da un’ora all’altra. Uguale pericolo corrono le vie fluviali di comunicazione con il sud e con il sud-est d’Europa, mentre il suo commercio può venire sottoposto a gravami economici tali da soffocarlo. Questo Paese, che una volta formava la zona più industriale del vecchio impero austro-ungarico, è isolato dal mondo o può divenirlo improvvisamente, qualora dalle discussioni cui si deve procedere non abbiano origine accordi capaci di proteggere le vie di comunicazione. La Cecoslovacchia potrebbe trovarsi tagliata fuori dalle forniture di materie prime provenienti dalla Iugoslavia e dai mercati che assorbono i suoi prodotti. In conseguenza della sopraffazione perpetrata nella notte dello scorso venerdì ai danni dell’Austria, può accadere che venga uccisa la vita economica di questo piccolo stato. Si è piantato un cuneo entro il cuore della Piccola Intesa, di questo gruppo di nazioni che ha diritto di vivere senza molestie in Europa, come tutti noi abbiamo il diritto di vivere senza molestie nel nostro paese natale”. 112 Coerentemente, nonostante la innata repulsione per il comunismo, Churchill appoggia la richiesta staliniana di una conferenza per fermare i nazisti, anzi caldeggia apertamente un’alleanza anglo-franco-sovietica, ma Chamberlain dichiara: “Avevo pensato a un piano di Grande Alleanza, come lo chiama Churchill, già molto tempo prima che egli ne facesse cenno (...) Ne parlai con Halifax, sottomettendo poi il progetto al giudizio del Capo di Stato Maggiore. La cosa è teoricamente bella e, sin quando non si esamini la possibilità di attuarla, non perde nulla del suo valore. Ma all’atto pratico i vantaggi sfumano. Basta guardare la carta d’Europa per rendersi conto che Francia e Gran Bretagna non potrebbero far nulla per aiutare la Cecoslovacchia qualora i tedeschi decidessero di conquistarla. Ho dovuto quindi abbandonare l’idea di dare garanzie alla Cecoslovacchia o alla Francia nei confronti dei suoi obblighi verso questo Paese”. E Churchill risponde che la concezione moderna della guerra non comporta di dover intervenire in diretto soccorso sul suolo dell’alleato, ma di minacciarne l’avversario di invadere il suo territorio da altre parti e di stroncare il suo commercio. Chamberlain e il suo governo non gli danno alcun ascolto. Invece cercano di quietare quantomeno uno dei due dittatori, offrendo un favorevole accordo all’Italia che Mussolini, soddisfatto di aver determinato la caduta in disgrazia di Eden, accetta benevolmente. Il 16 aprile 1938 viene quindi firmato il trattato italo-inglese. In esso la Gran Bretagna concede all’Italia una grande libertà di azione in Etiopia e in Spagna, in compenso della “buona disposizione” italiana nelle questioni dell’Europa centrale. Churchill chiama il trattato “il pentimento inglese”, e, non potendo far altro, si sfoga con Eden inviandogli, il 18 giugno, questa amara lettera: “Naturalmente il patto italiano costituisce un assoluto trionfo per Mussolini che ha ottenuto la nostra cordiale acquiescenza alla conquista dell’Abissinia, alle fortificazioni erette in Mediterraneo contro di noi, alle violenze in Spagna. Sento nondimeno che è necessario usare grande cautela 113 prima di opporsi con energia all’accordo. Ormai è concluso e viene definito un passo verso la pace. Senza dubbio esso diminuisce la possibilità che le scintille sprigionate nel Mediterraneo accendano una conflagrazione europea. La Francia dovrà assecondare questa iniziativa, per sicurezza personale, al fine di non vedersi divisa dalla Gran Bretagna. E, alla fine, esiste anche la possibilità che Mussolini, per proprio interesse, si vegga invogliato a combattere l’invadenza della Germania nel bacino danubiano...”. Intanto la minaccia di Hitler sulla Cecoslovacchia diviene sempre più consistente. Il dittatore tedesco usa come pretesto l’esistenza di una nutrita minoranza tedesca nella zona dei Sudeti. E’ convinto, confortato dall’acquiescenza mostrata alle azioni di Mussolini e sue da Francia ed Inghilterra, che gli Alleati non faranno mai la guerra per la Cecoslovacchia. Però, ad ogni occasione buona, i suoi generali si precipitano a fargli sapere che per aggirare le fortezze boeme sono necessarie ben 35 divisioni, che l’esercito cecoslovacco è fornito di ottime armi moderne e che, a difesa della frontiera occidentale, sarebbero rimaste soltanto 13 divisioni tedesche, contro le cento che la Francia avrebbe potuto mobilitare in breve tempo. Come se non bastasse i generali fanno presente al Führer la pesante incognita di un possibile intervento dell’URSS. Meglio sarebbe, concludono, attendere qualche anno: allora sì che l’armata tedesca sarebbe invincibile! Ciò nonostante Hitler è sicuro di poter, con un abile bluff, riuscire subito nel suo intento, che non è certamente limitato all’ottenimento di uno statuto a favore delle minoranze etniche, come quello che il governo cecoslovacco si precipita ad approntare per cercare di fermarlo. Il dittatore tedesco vuole entrare subito in azione e sbandiera, in ogni modo, la sua alleanza con Mussolini. Fa diffondere dal Ministro degli Esteri Ribbentrop la notizia che il 27 agosto l’ambasciatore italiano gli avrebbe comunicato, che il Duce chiede alla Germania di fargli sapere la probabile data d’inizio dell’azione 114 contro la Cecoslovacchia per “poter prendere a tempo debito le necessarie misure alla frontiera francese”. A sua volta Churchill, pur non avendo incarichi governativi, continua ad essere molto ricercato dai diplomatici stranieri che, a volte, vanno da lui e non dai ministri di Chamberlain. Così, i primi di settembre, egli riceve l’ambasciatore sovietico e subito dopo si precipita a comunicare a lord Halifax quanto ha appreso: “Ieri 2 settembre l’incaricato d’affari francese a Mosca ha chiesto quali aiuti la Russia darebbe alla Cecoslovacchia in caso di attacco tedesco. In risposta il ministro sovietico chiese che cosa avrebbe fatto la Francia, dato che aveva un impegno diretto mentre gli obblighi della Russia erano solo in funzione della condotta del governo francese. L’incaricato d’affari non rispose alla domanda. Nondimeno il ministro affermò che l’URSS era decisa a mantenere i suoi impegni e suggeriva che il consiglio della Lega delle Nazioni venisse convocato in virtù dell’articolo 11 (consistente pericolo di guerra). Egli pensava sarebbe stato bene agire al più presto e che si dovessero svolgere subito consultazioni tra gli Stati Maggiori della Russia, della Francia e della Cecoslovacchia...” Per tutta risposta Halifax, in pieno accordo con Chamberlain, getta acqua sul fuoco ed ispira l’autorevole quotidiano “Times” che scrive: “Se i Sudeti richiederanno ora più di quanto il governo cecoslovacco si è dimostrato pronto a dare, bisognerà dedurne che i tedeschi non intendono accontentarsi soltanto di eliminare l’inferiorità di cui risente quella parte di popolazione che non si trova a suo agio in Cecoslovacchia. In tal caso sarebbe forse meglio che il governo cecoslovacco riflettesse se convenga escludere risolutamente il progetto di consolidare l’omogeneità dello Stato, rinunciando a quel contingente di popolazione straniera che risiede in zone contigue alla nazione a cui appartiene per razza”. In pratica è un chiaro invito alla nazione Ceca di cedere tutta la regione dei Sudeti, con annesse fortificazioni, alla Germania. Ed è proprio su questa linea di richiesta 115 che le trattative vanno avanti, con viaggi di Chamberlain in Germania e dei francesi Blum e Deladier a Londra. Come al solito Churchill non riesce ad astenersi dall’intervenire e, il 21 settembre, scrive: “La spartizione della Cecoslovacchia, effettuata sotto il peso dell’influenza inglese e francese, costituisce una resa completa delle democrazie occidentali alla minaccia nazista. Un crollo simile non assicurerà la pace, né all’Inghilterra né alla Francia, ma porrà al contrario ambedue queste nazioni in una posizione di pericolo ancor maggiore. Il semplice fatto di aver reso neutrale la Cecoslovacchia permette alla Germania di liberare 25 divisioni che minacceranno il fronte ovest e apre ai nazisti trionfanti la strada verso il Mar Nero. Non soltanto la Cecoslovacchia si trova in pericolo, ma la libertà e la democrazia di tutti i Paesi. Ritenere che si possa raggiungere la sicurezza gettando un piccolo Stato nelle fauci dei lupi è un’illusione fatale. Entro breve tempo il potenziale bellico della Germania verrà accresciuto con rapidità superiore a quello che la Francia e la Gran Bretagna potranno raggiungere nel completare i loro mezzi di difesa”. Proprio lo stesso giorno il ministro sovietico dice all’Assemblea della Società delle Nazioni: “...Al momento attuale la Cecoslovacchia subisce un’interferenza nei suoi affari interni da parte di uno Stato vicino e viene pubblicamente minacciata (...) La sparizione dell’Austria è trascorsa inosservata dalla Lega. Comprendendo quale significato avesse un evento simile per il fato dell’Europa, il governo sovietico, subito dopo l’Anschluss, ha proposto alle altre Grandi Potenze europee di prendere provvedimenti immediati e concordi per prevenire ulteriori pericoli. Con nostro grande rammarico, questo progetto, che avrebbe forse potuto salvare il mondo dall’apprensione con cui esso ora considera il destino della Cecoslovacchia, non è stato apprezzato nel suo giusto valore (...) Quando il governo francese domandò quale sarebbe stato il nostro atteggiamento in caso di un attacco contro la Cecoslovacchia, io diedi la seguente risposta chiara 116 e precisa: ’Noi intendiamo soddisfare agli obblighi che il Patto c’impone, dando alla Cecoslovacchia, in accordo e in collaborazione con la Francia, tutto l’aiuto che ci sarà possibile’. (...) Soltanto due giorni fa, il governo cecoslovacco rivolse al mio governo la formale domanda se, qualora la Francia si fosse mantenuta fedele ai suoi impegni, anche l’URSS sarebbe stata pronta a dare, secondo gli accordi del Patto ceco-sovietico, un aiuto effettivo e immediato. La risposta fu chiaramente affermativa”. Tuttavia per i franco-inglesi è come se il ministro russo non avesse nemmeno parlato. E’, invece per loro, meritevole della massima attenzione la dichiarazione che Mussolini fa a Treviso nello stesso giorno: “Se oggi la Cecoslovacchia si trova in quella che può venir definita una posizione delicata, ciò si deve al fatto che essa era - si può già dire era, e ve ne spiegherò la ragione tra poco- non la Cecoslovacchia, ma uno Stato ceco-germano-polacco-magiaroruteno- romeno-slovacco, e io vorrei asserire che, avendo affrontato questo problema, è necessario risolverlo in modo totale”. Seguono nuove trattative, ma Hitler è sempre più inflessibile e pretende sempre dell’altro, tanto che il 23 settembre la Cecoslovacchia mobilita l’esercito seguita, molto parzialmente, dalla Francia il giorno dopo. Il 26 settembre Churchill riesce a farsi ricevere da Chamberlain e da Halifax e li incita, con tutto il suo ardore, a dimostrare unità d’intenti e di sentimenti con la Francia e la Russia. Ne deriva un comunicato governativo che dice: “Se, nonostante gli sforzi compiuti dal Primo Ministro, la Germania attaccasse la Cecoslovacchia, come immediata conseguenza si avrà che la Francia sarà tenuta ad intervenire, e che la Gran Bretagna e la Russia si schiereranno certo al lato della Francia”. Tutto fa pensare che si sia giunti al confronto armato e le cifre non sono certo a favore della Germania. Infatti solo la Cecoslovacchia dispone di ben un milione e mezzo di soldati, protetti dalla più robusta linea fortificata d’Europa, ben equipaggiati da un industria nazionale 117 potente; inoltre l’esercito francese è già parzialmente mobilitato e la flotta inglese è pronta, aerei russi possono essere subito trasportati in Cecoslovacchia e l’esercito non impiegherebbe molto tempo a raggiungerli. Di contro la tanto sbandierata armata tedesca non si è mostrata particolarmente efficiente a Vienna (ma pochi se ne sono accorti) e deve suddividersi fra troppi impegni ad est ed a ovest, inoltre 250mila soldati debbono rimanere in Austria per prevenire un eventuale rivolta o un’invasione cecoslovacca. Eppure, in questa situazione favorevole, Chamberlain offre ancora un segno di pacedebolezza- umanità e, la sera del 27 settembre, dice alla radio: “Quanto è orrendo, assurdo, incredibile, il pensiero che noi dovremo scavare trincee e indossare maschere antigas a causa di una discordia nata in terra lontana, tra individui a noi completamente sconosciuti! Non esiterei a recarmi una terza volta in Germania, se ritenessi utile un passo simile (...) Sono un uomo di pace, i conflitti armati fra le nazioni mi sembrano un incubo, eppure nutro la convinzione che se uno Stato dovesse mostrarsi deciso a dominare il mondo con la paura, bisognerebbe opporsi alla sua forza. Sotto un simile dominio, la vita, per coloro che credono nella libertà, non meriterebbe più di essere vissuta. Ma la guerra è una cosa terribile e prima di affrontarla dobbiamo accertarci che veramente siano in palio problemi di estrema gravità”. Hitler dà appena un lieve cenno epistolare di buona volontà e Chamberlain si precipita, il 28 settembre, a scrivergli: “Dopo aver letto la vostra lettera sono certo che potrete ottenere i vostri fini essenziali senza guerre e senza indugi. Sono pronto a recarmi a Berlino subito, per discutere il trasferimento con voi e i rappresentanti del governo ceco, alla presenza, se lo ritenete opportuno, di inviati francesi e italiani. Sono convinto che in una settimana si potrebbe giungere a un accordo”. Contemporaneamente il Primo Ministro inglese telegrafa a Mussolini: “Confido che la Vostra Eccellenza farà noto al Cancelliere germanico il proprio 118
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| Titolo: Re: I CINQUE DUCI A CONFRONTO saggio di storia comparata Lun Ott 20, 2014 7:05 pm | |
| desiderio di inviare un rappresentante e lo inciterà a accettare la mia proposta, in modo da evitare una guerra ai nostri popoli”. Ormai è più che chiaro che Londra e Parigi non vogliono battersi e le loro iniziative, del tutto prive di una reciproca consultazione, si moltiplicano. Addirittura i francesi la notte del 27 settembre (precedendo la lettera e il telegramma di Chamberlain) propongono a Hitler di estendere ancora di più il territorio sudeto da consegnarsi immediatamente ai tedeschi, ma, prima che Hitler risponda, esattamente alle 3 del pomeriggio, giunge in Germania un messaggio di Mussolini che appoggia la conferenza chiesta da Chamberlain, e il Führer immediatamente aderisce, indicendo per l’indomani (29 settembre) l’incontro a Monaco con italiani, francesi e inglesi. Puntuale la conferenza ha inizio, con l’esclusione dell’URSS (di cui nemmeno la Francia ha chiesto la presenza) e della Cecoslovacchia, e segna il trionfo formale di Mussolini ed effettivo di Hitler e della pace. Ma questa è stata strappata solo a prezzo di dure e penose cessioni che Churchill fustiga in successivi dibattiti parlamentari dove, quantomeno, ottiene che venga accelerato il riarmo inglese. Eppure Hitler, per tutta risposta (gelida ma non priva di qualche lucida verità) alla dichiarazione di spontanea amicizia presentatagli da Chamberlain, il 9 ottobre 1938 dichiara a Salisburgo: “Gli uomini di Stato che ci stanno di fronte desiderano la pace...Ma noi sappiamo bene come essi governino Paesi la cui organizzazione interna può da un momento all’altro deporli per far posto a altri che vogliono la guerra. Basterebbe che in Inghilterra, invece di Chamberlain, salissero al potere Duff Cooper, Eden o Churchill e noi sapremmo d’aver davanti uomini il cui scopo immediato sarebbe una nuova guerra mondiale...”. HITLER , da quando ha attirato Mussolini nel nascente Asse Roma-Berlino e dopo il forte discorso che il Duce ha tenuto nel 119 settembre del 1937 in Germania, procede a tutto vapore nella realizzazione dei suoi ambiziosi progetti di espansione territoriale ai quali però sembrano opporsi, più delle Potenze straniere, i suoi generali che spesso lo disapprovano. Nel febbraio 1938 convoca il Ministro degli Esteri, quello della Guerra e i comandanti in capo dell’Esercito, della Marina e dell’Aviazione e comunica a tutti loro, con tono che non ammette repliche, che i problemi della Germania possono essere risolti solo con la forza il che, ovviamente, comporta dei rischi dei quali è ben conscio. Traccia quindi i suoi piani che prevedono il raggiungimento delle massime mete fra il 1943 e il 1945, o prima, se le circostanze lo permetteranno. Ma gli obiettivi più immediati, come Austria e Cecoslovacchia, saranno realizzati molto presto. Aggiunge che in Spagna non desidera, per ora, una vittoria totale di Franco, ma una persistente tensione nel Mediterraneo ed, eventualmente, una guerra dell’Italia contro Francia e Gran Bretagna che lascerebbe alla Germania mano libera nell’Europa orientale. Poi il dittatore sostituisce il Ministro degli Esteri con il fedelissimo von Ribbentrop e il Ministro della Guerra e il Comandante in Capo dell’Esercito praticamente con se stesso. Ora davvero si sente pronto e anche i tempi gli sembrano maturi per realizzare il suo vecchio sogno: annettere l’Austria alla Germania. Il 12 febbraio convoca il Cancelliere austriaco Schuschnigg e gli dice: “Mi basta dare un ordine e in una notte sola dileguerà tutto il ridicolo spauracchio al confine. Lei non creda di potermi trattenere nemmeno per mezz’ora. Chissà? Forse da un momento all’altro piomberò su Vienna come un temporale di primavera. Allora capirà quello che significa! Vorrei davvero risparmiare agli austriaci una simile esperienza: costerà molte vittime; dopo le truppe verranno le SA e la Legione; e nessuno, io neppure, potrà evitare la vendetta. Vuol fare dell’Austria una seconda Spagna? Tutto ciò, se possibile, vorrei evitarlo”. 120 Il povero Cancelliere austriaco, anche se fortemente impressionato, risponde non senza dignità: “Mi farò un dovere d’informarmi e far sospendere tutti gli eventuali lavori al confine tedesco. So naturalmente che lei può marciare sull’Austria; ma, sia pure contro voglia ne risulterebbe uno spargimento di sangue: noi non siamo soli sulla terra. E significherebbe probabilmente la guerra”. Hitler sorride ironicamente e conclude con estrema sicurezza: “E’ assai facile dirlo ora che noi due ce ne stiamo comodamente in poltrona. Ma bisogna rendersi conto dell’immane complesso di dolore e di sangue che ne sarebbe il prezzo. Non s’illuda a ogni modo che qualcuno al mondo possa ostacolare le mie decisioni. L’Italia? Con Mussolini sono a posto: con l’Italia sono in strettissima amicizia. L’Inghilterra? L’Inghilterra non muoverà un dito per l’Austria...E la Francia? Già, quando due anni fa noi marciammo con un pugno di battaglioni sulla Renania...se la Francia allora si fosse mossa, saremmo stati costretti a ritirarci...Ora è troppo tardi per la Francia!”. Di conseguenza il Cancelliere è costretto a permettere la legalizzazione in Austria del partito nazista, ma non si rassegna e cerca in qualche modo di reagire, rivolgendosi più volte al Governo italiano che dichiara, in un telegramma cifrato, di non poter offrire nessun consiglio. Allora Hitler vuole inviare un durissimo ultimatum al Gabinetto austriaco, mentre provvede a spedire a Mussolini una lettera personale nella quale espone i motivi che lo inducono ad agire contro l’Austria. L’11 marzo il dittatore tedesco rompe gli indugi e dà ordine di occupare militarmente l’Austria, parallelamente si mette in contatto con Filippo d’Assia, suo inviato speciale presso Mussolini, che gli riferisce: Torno ora da Palazzo Venezia. Il Duce ha accolto l’evento in modo molto amichevole. Vi fa salutare cordialmente. Alle tante insistenze di Schuschnigg, Mussolini ha detto che l’Austria per lui era una questione risolta”. E Hitler, raggiante e commosso, prorompe: “La prego di dire a Mussolini che non lo dimenticherò 121 mai. Mai e poi mai. Succeda quel che vuole succedere. Ora sono anche disposto a concludere con lui un accordo di diversa natura”. E d’Assia: “Sì, gliel’ho già detto”. E Hitler: “Dal momento che la questione austriaca è tolta di mezzo sono disposto a fare qualsiasi cosa per lui, qualunque essa sia. Mi ascolti bene. Posso fare ora quell’accordo. Non mi sento più nella terribile situazione in cui ci potevamo trovare in caso di conflitto. Può dirglielo ancora una volta: intendo ringraziarlo di tutto cuore. Quanto ha fatto non lo dimenticherò mai!”. E d’Assia: “Sì, mio Führer”. E Hitler:, sempre più commosso: “Non lo dimenticherò mai, qualunque cosa accada. Se mai dovesse trovarsi in difficoltà o in pericolo, può essere sicuro che a qualsiasi costo e con ogni mezzo, anche se il mondo intero dovesse sollevarsi contro di lui, sarò al suo fianco!”. Quando, di lì a pochi giorni Hitler -ex aspirante pittore frustrato nelle sue speranze di poter frequentare l’Accademia di Belle Artitorna a Linz da padrone assoluto, prova un senso di vertiginoso appagamento e di suprema potenza. Però la maggior parte dei carri armati e dell’artiglieria pesante motorizzata si inceppa sulla strada Linz-Vienna, facendolo diventare furioso e consapevole di quanto sia ancora imperfetto l’esercito germanico che, invece, viene da tutti considerato di gran lunga il migliore. Finalmente il 10 maggio 1938, a coronamento di un altro vecchio sogno, Hitler è in visita ufficiale in Italia. Una piazza viene intitolata a suo nome e tutto è infinitamente bello tranne la presenza del re che ruba, per motivi protocollari, il primo posto a Mussolini. Il Führer non riesce a capire perché il Duce continui a mantenere in carica quel grifagno vecchietto e ne è turbato fin quando, a Napoli, assiste alle evoluzioni della grande Flotta da Guerra italiana e all’emersione, in appena due minuti, di ben 90 sommergibili. Immediatamente ogni sensazione negativa scompare e il dittatore tedesco è ammirato e contento, ricavandone un’impressione di potenza e di efficienza. Ma i 122 suoi generali, sia pure timidamente, non sono del tutto d’accordo con lui. Nell’ottobre anche la questione cecoslovacca è risolta con successo, nonostante i tanti pericoli corsi, e, per il Führer, il merito è da attribuire, in parti uguali, alla sua abilità, al suo coraggio e all’appoggio del Duce. MUSSOLINI nel 1938, a 55 anni, è ricco di successi. Non solo ha conquistato un impero, ha piegato la Società delle Nazioni e la grande Inghilterra che ha sempre fatto tremare il mondo, ora in Spagna sta sconfiggendo il bolscevismo e la Russia, e viene continuamente corteggiato da tutti i capi di Stato e dalla Chiesa Cattolica che, per bocca del cardinale di Milano Schuster, dice: “Ma come la Divina mens inviò Ottaviano, così anche in Italia sorse l’uomo provvidenziale, l’uomo di genio il quale salvò lo Stato e fondò l’Impero (...) Dio ha voluto dare al Duce un premio che ravvicina la sua figura storica agli spiriti magni di Costantino e di Augusto”. E’ vero che le imprese di Etiopia e Spagna sono costate e costano molti quattrini hanno però sviluppato un’autarchia, tutto sommato, utile con prodotti come: la gomma sintetica, l’alcool carburante (in luogo della benzina), il cotone nazionale, e così via. Ma, come fatto fondamentale, s’è sviluppata l’industria, che conta nel 1937 518.000 addetti, con il formidabile incremento del 71% in una quindicina d’anni. Eppure il Duce non ha alle sue spalle un Paese ricco come la Francia, la Gran Bretagna o, addirittura, gli Stati Uniti che possono, fra l’altro, permettersi di consumare 45 chili di carne pro capite all’anno e 95 litri di latte contro, rispettivamente, i 16 chili e i 35 litri degli Italiani. Ma, ad offuscare i successi e le sicurezze mussoliniane, c’è l’ascesa di Hitler, un allievo che può rapidamente superare il maestro. Il Duce ne è cosciente, però si consola perchè, per ora, il tedesco non ha successi militari da sbandierare, a parte la militarizzazione della 123 Renania alla quale vuole, nel 1938, aggiungere l’Anschluss, annessione che il Duce aveva sventato energicamente nel 1934. Questa volta le condizioni politiche e militari sono ben diverse: con Hitler e la Germania c’è una strettissima intesa e qualche debito di gratitudine. Di conseguenza, quando il Cancelliere austriaco corre a Roma a chiedere protezione (come nel passato faceva Dollfuss), Mussolini non gli fornisce alcuna garanzia, ma il consiglio di allineare l’Austria alla politica dell’Asse Roma-Berlino. In fondo il Duce s’è già rassegnato a cedere in Austria, non solo per opportunismo, ma anche per la continua deferenza che Hitler continua a manifestargli in tutti i modi, anche alquanto minacciosi, come nella lettera inviatagli nel marzo 1938 che dice: “...E’ la mia terra natale ed è una decisione che appare necessaria in queste circostanze ed è già diventata irrevocabile. Ora io desidero solennemente dare a Vostra Eccellenza, Duce dell’Italia fascista, queste assicurazioni:1) il mio passo ha carattere di autodifesa, e ogni uomo degno di questo nome al mio posto agirebbe nello stesso modo. Voi stesso, Duce, non agireste diversamente se il destino degli italiani fosse in gioco, ed io come Führer del nazionalsocialismo non posso comportarmi in altro modo; 2) in un’ora critica dell’Italia io vi ho provato la solidità della mia simpatia. Abbiate la certezza che anche in futuro non vi saranno cambiamenti a questo riguardo; 3) quali che siano le conseguenze degli imminenti avvenimenti, io ho stabilito un confine definitivo tra la Francia e la Germania, e ora ne stabilisco uno altrettanto definitivo tra l’Italia e noi. Il Brennero. Questa decisione non sarà mai posta in discussione, o mutata. Non ho preso questa decisione nel 1938, ma immediatamente dopo la fine della Guerra Mondiale, e non ne ho fatto segreto (...) Sono dolente di non potervi parlare di persona in questa circostanza, per esprimervi i miei sentimenti” Quasi come una compensazione per l’annessione dell’Austria e della viva gratitudine che prova per lui, Hitler permette a Mussolini di cogliere un grande successo durante la crisi cecoslovacca. Infatti, 124 quando Chamberlain prega vivamente il Duce di appoggiare la sua richiesta di conferenza e Mussolini, il 28 settembre 1938, telefona all’ambasciatore italiano a Berlino e gli ordina: “Andate subito dal Führer e, premesso che in ogni evenienza sarò al suo fianco, ditegli che lo consiglio di dilazionare di 24 ore l’inizio delle ostilità. Nel frattempo mi riservo di studiare quanto potrà essere utile per risolvere il problema”, immediatamente Hitler si dichiara d’accordo. Non solo, ma chiede al Duce di scegliere, fra Francoforte e Monaco, la sede della conferenza, tanto che Chamberlain dice in Parlamento: “Qualunque sia l’opinione che voi onorevoli colleghi abbiate avuto in passato di Mussolini, credo che ognuno di voi saluterà questo suo gesto come un desiderio di contribuire con noi alla pace dell’Europa”. Nello stesso giorno il Duce è sul treno speciale che lo porta a Monaco e dice a Ciano: “Sono moderatamente felice perché, sia pure a caro prezzo, potevamo liquidare per sempre Francia e Gran Bretagna”. La mattina dopo, (29 settembre), appena varcata la frontiera, il treno di Hitler si affianca a quello di Mussolini che viene calorosamente invitato ad accomodarsi nella carrozza del Führer dove ascolta spiegazioni e richieste e osserva carte geografiche mentre Hitler gli dice: “Sono lieto che noi due rivoluzionari stiamo cambiando la faccia dell’Europa”. Poco dopo mezzogiorno inizia la Conferenza. Hitler prende la parola e lamenta le persecuzioni barbariche cui sono sottoposti i tedeschi della regione ceca dei Sudeti, aggiungendo: “Ho pazientato solo per le pressioni del mio amico Mussolini”. Il Primo Ministro francese replica duramente, ma viene immediatamente interrotto da Mussolini che, con tono autorevole, dice che quello scontro è frutto di un malinteso e trae di tasca un foglietto dove sono fissati i punti dell’accordo che lui propone. Le condizioni non si discostano di molto dall’ultimatum tedesco, ma Chamberlain e Deladier accettano con minuscole modifiche che irritano Hitler. Ancora una volta il Duce si 125 mostra abile e capace di utilizzare appieno il prestigio di cui indiscutibilmente gode e, il 30 settembre, l’accordo viene raggiunto: la Cecoslovacchia del 1918 ne risulta profondamente mutilata, ma non può fare a meno di accettare. Al suo ritorno in patria, il Ministro degli Esteri francese dichiara: “Al fianco di Mussolini, Hitler lo guardava intensamente affascinato e quasi ipnotizzato. Se il Duce rideva, anche il Führer rideva, se Mussolini si aggrottava, anche il Führer si aggrottava”. Tutto il mondo festeggia i 4 grandi come salvatori della pace, ma, di gran lunga, la figura dominate è quella di Mussolini che raggiunge, in questa occasione, il suo apogeo. 126
CAP. IX LE INVASIONI DI HITLER IN CECOSLOVACCHIA E DI MUSSOLINI IN ALBANIA AVVICINANO L’EUROPA ALLA GUERRA, MA NON RISULTANO DECISIVE HITLER, che con l’accordo di Monaco s’è aggiudicato la regione cecoslovacca dei Sudeti, completa di tutte le poderose installazioni militari, procede rapidamente alla divisione del bottino, concedendo ai polacchi una piccola zona intorno a Cesky Tesin, agli ungheresi una lunga fascia di terreno a spese della Slovacchia, compensata a sua volta con la concessione di una specie di autonomia politica. Il dittatore tedesco è sempre più sicuro della sua forza e dell’insipienza dei potenziali nemici al punto da non preoccuparsi minimamente delle possibili reazioni dei franco-inglesi, e, per ora, non sbaglia. Infatti Chamberlain, nel novembre 1938, dichiara: “Noi assistiamo ora alla rettifica delle frontiere tracciate a Versailles. Non so se coloro a cui toccò la responsabilità di segnarli ritenessero che questi confini sarebbero rimasti immutati. Ne dubito molto. Probabilmente previdero che ogni tanto si sarebbe provveduto a nuove delimitazioni. E’ impossibile pensare che essi potessero agire da superuomini, fissando frontiere giuste per l’eternità. La questione quindi non è se tali confini debbano di quando in quando venire rettificati, ma se tali rettifiche debbano attuarsi per mezzo di trattative e discussioni, oppure per mezzo di guerre. Si sta procedendo a queste nuove delimitazioni; nel caso della frontiera ungherese, Cecoslovacchia e Ungheria hanno accettato la decisione della Germania e dell’Italia circa la definitiva sistemazione del confine che le divide. Credo di avere parlato abbastanza della Cecoslovacchia...”. 127 Intanto Hitler procede inesorabile nel suo programma di espansione che prevede, durante il 1939, acquisizioni di territorio a spese della Polonia e, negli anni successivi, i grandi spazi sognati: Ucraina, Stati baltici e Russia bianca. Già il 18 gennaio 1939 il Ministro degli Esteri tedesco viene inviato a Varsavia per porre, a muso duro, richieste di cessioni che vengono decisamente respinte dai polacchi. Allora Hitler fa incorporare alla Prussia orientale l’importante porto di Memel e una larga fetta di territori circostanti della Lituania e, con l’appoggio del ministro polacco Beck, cui non par vero di poter dirottare l’interesse tedesco fuori della Polonia, fomenta le istanze di separatismo slovacco. Infine, il 14 marzo, il Führer, dopo un fulmineo ultimatum ai Cechi (ormai privi delle loro fortificazioni), dà ordine di conquistare la Boemia e la Moravia, che diventano un protettorato tedesco, mentre gli Slovacchi proclamano la loro indipendenza. Ora che Hitler s’è impadronito, per la prima volta, di un territorio non abitato in prevalenza da individui di lingua tedesca, il mondo si attende la guerra, ma la Francia tace e Chamberlain dichiara in Parlamento (il 15 marzo): “L’occupazione della Boemia da parte di truppe germaniche si è iniziata. Il governo ceco ha ordinato alle popolazioni di non opporre resistenza! (...) Per quanto riguarda la nostra garanzia, la situazione è mutata dall’anno scorso in quanto la Dieta slovacca ha dichiarato l’indipendenza della Slovacchia. Questa proclamazione ha come effetto la fine, per separazione interna, dello Stato le cui frontiere noi avevamo promesso di garantire e, di conseguenza, il Governo di Sua Maestà non può più considerarsi vincolato a questi impegni (...) E’ naturale che io consideri con dolore l’accaduto. Ma esso non deve indurci a deflettere dalla nostra linea di condotta. Ricordiamo che la speranza di tutti i popoli del mondo è fissa sempre ad un solo oggetto: la pace”. Però, a soli due giorni di distanza, il Primo Ministro inglese fa un’improvvisa inversione di rotta rimproverando decisamente Hitler 128 per tutte le bugie che ha più volte detto e concludendo le sue impreviste nuove dichiarazioni con: “Sono persuaso che dopo Monaco la grande maggioranza del popolo inglese condivise il mio sincero desiderio di persistere in questa politica; ma oggi, io condivido la sua delusione, la sua indignazione nel vedere pazzamente distrutte le nostre speranze. Come conciliare gli eventi di questa settimana con le assicurazioni che io vi ho riferite? Chi mai non potrà provare simpatia per il popolo orgoglioso e valoroso che si è veduto privare all’improvviso della libertà e dell’indipendenza nazionale? Ora si dice che questa scissione di territorio è divenuta necessaria in seguito dei torbidi che s’erano verificati in Cecoslovacchia (...) Ma se davvero vi furono disordini, non ebbero un’origine esterna? E questo l’ultimo attacco a un piccolo Stato o ne seguirà presto un altro? Si tratta forse di un passo verso il tentativo di dominare il mondo con la forza?”. A sua volta Hitler è convinto che quello del politico inglese sia solo uno sfogo senza pericolose conseguenze per lui. Invece, il 31 marzo, Chamberlain dice in Parlamento: “Devo informare la Camera che, nel caso di una azione che minacciasse palesemente l’indipendenza polacca e alla quale il Governo polacco reputasse necessario resistere con le forze nazionali, il Governo di Sua Maestà si sentirebbe tenuto a prestare subito alla Polonia tutta l’assistenza in suo potere. Il Governo polacco ha ricevuto assicurazioni in merito. Posso aggiungere che il Governo francese mi ha autorizzato a riferire di voler adottare a questo riguardo il nostro medesimo atteggiamento. I Domini sono perfettamente informati della situazione”. Per la prima volta in quegli ultimi anni Hitler è perplesso: qualcosa davvero deve essere cambiata in Chamberlain se finanche Churchill, il duro, la Cassandra inglese, si limita a dire: “Con l’aiuto di Dio , non possiamo fare altro”. Deve o no andare avanti nel piano perfetto che ha, da tempo, ideato: Saar, Renania, Austria, Cecoslovacchia, Polonia? Si dovrà davvero combattere contro gli 129 inglesi ora? Eppure questo strano popolo (e i suoi governanti) non è sceso in guerra quando avrebbero potuto avere alleato il grosso esercito cecoslovacco, attestato dietro le sue fortezze, quando i francesi disponevano d’una forza armata molto maggiore di quella tedesca, quando ancora non era terminata la linea fortificata Sigfrido in Renania, e non ha, quando concorrevano tutte queste circostanze ad esso positive, accettato l’interessamento di Roosevelt e gli aiuti offerti da Stalin! Il 21 marzo, ancora una volta, il Governo sovietico si fa vivo proponendo una conferenza di 6 potenze, ma, con stupore, si viene a sapere che non ha un’accoglienza positiva perché, in privato, Chamberlain dice: “Debbo confessare la profondissima sfiducia che nutro nei confronti della Russia. Non credo che essa sarebbe capace di reggere ad un’effettiva offensiva, anche se ne avesse la volontà. E diffido delle sue ragioni che non mi sembrano avere alcun rapporto con le nostre idee di libertà, ma piuttosto essere intese a forzare la condotta degli altri. Inoltre molti Stati minori, soprattutto Polonia, Romania e Finlandia, nutrono per la Russia diffidenze e ostilità”. Ciò nonostante il Primo Ministro inglese sembra davvero procedere con decisione e, il 29 marzo, annuncia in Parlamento il progetto di raddoppiare gli effettivi dell’esercito territoriale. Ma Hitler, che pare aver superato le momentanee perplessità, dirama il 3 aprile 1939 le sue direttive segrete per le forze armate: “I preparativi (per la Polonia) devono essere eseguiti in modo da permettere l’inizio delle operazioni in qualsiasi momento a partire dal 1° settembre”. Dal canto suo Mussolini, nonostante il nuovo atteggiamento inglese, fa conquistare in pochi giorni l’intera Albania e rappresenta, dalle frontiere di quel Paese, una seria minaccia per la Grecia. Ovviamente Hitler ne gioisce, sia perché il suo alleato mostra ancora una volta decisione e coraggio, sia perché l’attenzione anglofrancese sulla Polonia viene in parte deviata. Rapido, dopo aver proclamato ufficialmente il protettorato germanico su Boemia e 130 Moravia, invia Goring a Roma per riferire a Mussolini e Ciano i grandi progressi compiuti dai tedeschi nella preparazione bellica e per sottolineare l’importanza strategica delle regioni ceche occupate. Il 15 aprile il gerarca tedesco dice: “Il solido armamento della Cecoslovacchia dimostra che anche dopo Monaco un serio conflitto con questa nazione avrebbe presentato gravissimi pericoli. Il gesto tedesco ha migliorato la situazione dei due Paesi dell’Asse, causa tra l’altro dei vantaggi economici che la vasta capacità di produzione della Cecoslovacchia (in particolare delle grandi officine meccaniche Skoda) ha trasferito in campo germanico. Ciò contribuisce a rafforzare notevolmente l’Asse nei confronti delle Potenze occidentali. Inoltre la Germania non ha più bisogno di tenere pronta neppure una divisione per fronteggiare la Cecoslovacchia in caso di una guerra di maggiore importanza. E anche questo è un vantaggio di cui, in ultima analisi, beneficeranno ambedue i Paesi dell’Asse. La Germania potrebbe ora attaccare la Polonia da due lati e trovarsi a soli 25 minuti di volo dai nuovi centri industriali polacchi, che sono stati trasferiti nel cuore del territorio in prossimità di altri distretti industriali, poiché la posizione ove si trovavano prima era troppo vicina al confine”. MUSSOLINI fino a qualche mese dopo l’accordo di Monaco di cui è (perlomeno in apparenza) l’assoluto protagonista, si sente più che soddisfatto. Tutto sembra procedere bene per lui sia in patria, dove non ha alcun avversario, sia all’estero dove ogni sua iniziativa, per quanto azzardata, è coronata dal pieno successo pur non avendo alle spalle una nazione particolarmente ricca o fortemente industrializzata. Anche l’intervento italiano nella Guerra Civile spagnola sta volgendo per il meglio. Dopo la battuta d’arresto nel marzo 1937 a Guadalajara, il corpo di spedizione italiano (Ctv), appoggiato efficientemente dalla sua aeronautica, ha agito nuovamente in massa a Santander (agosto 1937) dove, insieme ai falangisti di Franco, ha vinto e ha conquistato la città. Anche la Marina militare italiana ha svolto un 131 ruolo di grande importanza, non solo nel dominio assoluto navale dei franchisti sugli avversari, ma anche nel tentare d’impedire i massicci rifornimenti ai repubblicano-comunisti da parte dei russi che, in 4 mesi (febbraio/maggio 1937), attraverso i Dardanelli, hanno avviato nel Mediterraneo navi dirette in Spagna cariche di 113 aerei, 430 cannoni e 375 carri armati. Si è però dovuto ricorrere ad un escamotage perché, ovviamente, l’intervento diretto della flotta di superficie italiana avrebbe suscitato un vespaio di critiche e di pericolosi incidenti diplomatici. Mussolini ha quindi ordinato che i cacciatorpediniere si limitassero a segnalare le navi russe a squadriglie di sommergibili, privi di insegne, che provvedono ad affondarle. Comunque ne è derivata una violenta reazione di Eden, che ha promosso una conferenza che s’è risolta, tutto sommato, in un altro successo italiano. Infatti le navi italiane da imputate affondatrici sono state promosse al ruolo di poliziotti mediterranei, con la totale esclusione dei russi. Nel marzo 1938 c’è stato un ulteriore decisivo intervento del Ctv nell’offensiva d’Aragona, durante la quale Mussolini ha ordinato agli aerei italiani di bombardare Barcellona, con il risultato di causare ingenti danni e migliaia di morti e di feriti. Ma Stalin non ha mollato in questo sanguinoso e crudele conflitto che, pur essendo ufficialmente una guerra civile spagnola, in pratica è divenuto un lungo confronto italo-russo. Ha inviato nel luglio 1938, attraverso la riaperta frontiera francese, 300 aerei e 25.000 tonnellate di rifornimenti bellici, che hanno causato una brusca battuta d’arresto nell’avanzata italo-falangista verso Valencia e suscitato le ire di Mussolini a tal punto da fargli proporre a Franco l’invio, in appoggio al Ctv, di alcune divisioni regolari dell’esercito italiano, onde ottenere una vittoria definitiva e chiudere una guerra che durava ormai da più di due anni. Ma Franco si è mostrato, ancora una volta, prudente e furbo: vuole evitare incidenti internazionali e un peso italiano completamente e troppo chiaramente determinante in Spagna. Ha 132 risposto, con cortesia e fermezza, che gli bastano altri 10mila legionari italiani. Finalmente, il 26 gennaio 1939, gli italiani impongono la loro volontà al generalissimo spagnolo: costituiscono la punta di diamante nell’attacco e nella conquista di Barcellona e vengono da lui apertamente elogiati. Ma il dittatore spagnolo è un uomo di ferro ed è fermamente geloso dell’indipendenza nazionale. Nonostante i massicci aiuti chiesti ed accettati, non vuole dare al mondo l’impressione di essere stato assorbito nella sfera d’influenza italiana. Quindi, da una parte, dichiara che osserverà la più completa neutralità nelle vicende europee perché il suo Paese è esausto e, dall’altra, aderisce all’Anticomintern ed invia in Italia il suo collaboratore Suner a rendere omaggio a Mussolini. Anche Chamberlain, nel gennaio 1938, vuole nuovamente omaggiare il Duce, sollecitandone un invito a Roma che viene concesso. In proposito Ciano scrive nel suo diario: “La visita è sostanzialmente tenuta in tono minore. Il contatto effettivo non è stato ancora preso. Ma come siamo lontani da questa gente! Un altro mondo. Ne parlavamo dopo pranzo col Duce che ha detto ‘Questi uomini non sono più della pasta dei Francis Drake e degli altri magnifici avventurieri che crearono l’Impero. Questi sono ormai i figli stanchi di una lunga serie di ricche generazioni’. Gli inglesi non si vogliono battere. Cercano di retrocede il più lentamente possibile, ma non vogliono battersi. I colloqui con gli inglesi sono finiti: niente di fatto. Telefono a Ribbentrop per dirgli che la visita è stata una ‘grande limonata’ assolutamente innocua (...) Peth ha mandato in visione la minuta del discorso che Chamberlain pronuncerà alla Camera dei Comuni per eventuali varianti da parte nostra. Il Duce l’ha approvato e ha commentato ‘Credo sia la prima volta che il Capo del Governo britannico sottopone ad un Governo straniero le bozze d’un suo discorso. Brutto segno per loro’”. 133 Ma quando, nel marzo 1939, Filippo d’Assia viene spedito da Hitler a Mussolini per consegnargli il suo messaggio personale, che spiega il perché ha occupato la Boemia, il Duce prende coscienza di una verità già intravista in precedenza, ma spesso, se non sempre, rimossa, e piomba in una crisi depressiva: il dittatore tedesco gli sta rubando definitivamente il ruolo di protagonista della politica europea che ha interpretato per circa 15 anni! Come se non bastasse teme che i Croati, affascinati dalla rinata grandezza tedesca, proclamino l’indipendenza dalla Jugoslavia e si mettano al servizio di Hitler e non al suo. Ma Ribbentrop immediatamente assicura, per conto del Führer, che la Croazia è zona d’influenza italiana riuscendo a tranquillizzare, per quanto possibile, il Duce che il 23 marzo dice in pubblico: “Vi dichiaro che se le grandi democrazie piangono amaramente sulla fine prematura e alquanto inonorata di quella che fu la loro più grande creatura (la Cecoslovacchia), questa è un’ottima ragione per non associarsi alle loro lacrime più o meno decenti. Infine dichiaro che se avvenisse la vagheggiata costituzione di una coalizione contro i regimi autoritari, questi regimi raccoglierebbero la sfida e passerebbero dalla difesa al contrattacco su tutti i punti del globo”. Con la sua spiccata sensibilità politica, Mussolini, però, si rende conto che dalle parole bisogna passare ai fatti: pareggiare con una italiana la nuova conquista tedesca. Si decide di puntare più decisamente sull’Albania, che è anch’esso uno Stato europeo grande quanto il Belgio o la Svizzera. Certamente è un Paese sottosviluppato ma fornito di qualche buona risorsa mineraria. Su di esso l’influenza italiana è sempre stata forte, benché, con l’avvento di re Zog, varie scortesie hanno incrinato i rapporti italo-albanesi. Ora, giunto alla fase operativa e all’autorizzazione di procedere alla conquista, Mussolini tentenna, sembra aver perso il coraggio e la decisione che ha caratterizzato l’invasione dell’Etiopia e l’aperta sfida all’Inghilterra. Il Duce preferirebbe all’occupazione militare un patto che, pur assoggettando del tutto il piccolo Paese all’Italia, salvasse le 134 apparenze come la Gran Bretagna aveva fatto con l’Egitto e con l’Iraq. Ma Zog prende tempo e s’incontra con gli ambasciatori di Grecia e d’Inghilterra. Mussolini, allora, dà ordine alle navi italiane di partire per Durazzo dove, all’alba del 7 aprile, sbarcano le truppe e rapidamente conquistano l’intera Albania con la perdita di 8 marinai e 3 bersaglieri. Il 16 aprile una delegazione albanese offre al re d’Italia la corona del Paese d’oltre Adriatico, mentre le reazioni internazionali ufficiali sono poche e di basso tono, ben diverse da quelle che accompagnarono la conquista dell’Impero in Africa. Quando Hitler invade la Boemia e la Moldavia e Chamberlain si limita, inizialmente, a dire di non poter intervenire, CHURCHILL è su tutte le furie, ma la successiva reazione del Primo Ministro, avvenuta appena due giorni dopo la primitiva dichiarazione, lo sorprende piacevolmente e lo fa meglio penetrare nella sua psicologia. Non la paura ha caratterizzato l’azione di Chamberlain, ma una forse ingenua, sebbene genuina, convinzione della validità dei patti di Monaco e della buona fede di Hitler. Poi, d’improvviso, quasi l’effetto di un’esplosione, la presa di coscienza dell’amara verità, e il mite uomo con l’ombrello, dall’aspetto perennemente borghese e bonario, è cambiato e non intende recedere più sulla garanzia data alla Polonia. Immediatamente l’opinione pubblica, i francesi e i Domini sono con lui. Anche Churchill che dichiara: “Vivaddio, finalmente Inghilterra e Francia sono giunte al termine della loro sottomissione!”, e poco dopo scrive a Chamberlain: “Si dovrebbe mettere la difesa antiaerea in condizioni di piena efficienza. Questa misura non potrebbe venir definita aggressiva, ma darebbe rilievo alla serietà degli impegni che il Governo ha assunto sul Continente. Ma soprattutto io penso ad Hitler. In questo momento egli deve trovarsi in uno stato di grande tensione. Sa che stiamo cercando di formare una coalizione per resistere alle sue future aggressioni. Da un uomo simile ci si può aspettare di tutto. La tentazione di attaccare dal cielo Londra o quelle industrie aeronautiche delle quali mi preoccupo, sarebbe eliminata se 135 si sapesse che siamo pronti a difenderci. Sparirebbe in tal modo la possibilità di agire di sorpresa, e l’incentivo alle violenze estreme sarebbe soppresso, così che più prudenti consigli potrebbero prevalere...”. Due giorni dopo lo sbarco dell’Italia in Albania, Churchill scrive ancora a Chamberlain: “Spero che il Parlamento verrà riunito martedì al più tardi e vi scrivo per esprimervi la mia fiducia che le affermazioni che voi potrete fare otterranno la stessa unanime approvazione dell’accordo polacco. Mi sembra che in questa situazione anche le ore abbiano importanza. A tutti i costi dobbiamo riprendere l’iniziativa nel campo diplomatico e questo scopo non può venire raggiunto né con le dichiarazioni. né denunciando il patto anglo-italiano o richiamando il nostro ambasciatore. I giornali della domenica pubblicano per esteso la notizia che noi abbiamo offerto garanzie alla Turchia e alla Grecia e vedo che molti giornali parlano di un’occupazione navale inglese di Corfù. Questo passo, se già fosse compiuto, costituirebbe la miglior misura per conservare la pace. Se non viene eseguito da noi, naturalmente con il consenso greco, ritengo che, data la pubblicità della stampa su tale disegno e date le necessità inerenti alla situazione, l’Italia s’impadronirà rapidamente di Corfù. Riconquistarla sarebbe allora impossibile. D’altra parte se noi la occupassimo per primi, un attacco diretto anche a poche navi inglesi, metterebbe Mussolini di fronte alla necessità di iniziare una guerra d’aggressione contro l’Inghilterra. Questa diretta conseguenza accrescerebbe, nel migliore dei modi, la forza di tutte quelle correnti che in Italia sono contrarie a una guerra con la Gran Bretagna. Quindi i rischi già esistenti ora non sarebbero aggravati ma diminuiti. Bisognerebbe però agire entro stasera. Ciò che ora si trova in pericolo è, niente di meno, l’intera penisola balcanica. Se questi Stati continueranno a subire la pressione tedesca e italiana mentre, a loro giudizio, noi siamo incapaci di intervenire, si imporrà loro la necessità di venire a patti con Roma o con Berlino. Come ci 136 troveremo isolati allora! Saremo compromessi nell’Europa orientale a causa dei nostri impegni verso la Polonia e nel medesimo tempo ci troveremo privi d’ogni speranza di stringere quella grande alleanza che una volta conclusa potrebbe significare la salvezza. Ho scritto quanto sopra senza sapere con precisione dove si trovi la nostra flotta nel Mediterraneo, che dovrebbe naturalmente essere concentrata in alto mare, in posizione tale da poter assicurare protezione alle proprie unità , senza peraltro offrire un facile bersaglio al nemico con l’eccessiva vicinanza”. Appena quattro giorni dopo, il 13 aprile, Churchill torna a fustigare il Governo, dicendo in Parlamento: “L’abitudine inglese del week end e la grande considerazione con cui i Britannici osservano le feste religiose sono oggetto di studio all’estero. Il venerdì santo si sapeva che in quel giorno la flotta britannica stava eseguendo regolarmente un programma annunciato da lungo tempo, trovandosi di conseguenza un po’ sparsa dappertutto. Ritengo che se la nostra flotta riunita avesse incrociato nelle acque a sud del mar Ionio, l’avventura albanese non sarebbe mai iniziata. Dopo 25 anni di esperienze belliche e di pace, considero l’Intelligence Service la migliore organizzazione del genere. Eppure abbiamo visto che, sia nel caso della conquista della Boemia, sia in occasione dello sbarco in Albania, i ministri della Corona non avevano evidentemente ricevuto alcun rapporto o quantomeno alcuna informazione convincente riguardo agli avvenimenti che andavano preparandosi. Non posso credere che ciò debba imputarsi all’Intelligence Service. Mi sembra che i ministri corrano un tremendo pericolo se permettono che le informazioni loro comunicate a tempo opportuno siano vagliate, cambiate, ridotte di gravità, e se si lasciano dominare dal desiderio di annettere importanza solo a quelle notizie che si accordano con le loro notevoli e oneste aspirazioni di conservare la pace nel mondo. Tutti gli avvenimenti si preparano nel medesimo momento. Anno per anno, mese per mese, la situazione si è modificata per tutti, e mentre 137 noi raggiungevamo certe posizioni mentali, gli altri raggiungevano certe posizioni pratiche. Il pericolo è vicinissimo ora, e una gran parte dell’Europa sta effettuando una vasta mobilitazione. Milioni di uomini si preparano alla guerra. Dappertutto si rafforzano le frontiere, dappertutto si sente che sta per venire vibrato un nuovo colpo. Si può forse dubitare che noi saremo costretti ad intervenire se il colpo cadrà? Non siamo più nelle condizioni in cui ci trovavamo due o tre mesi fa. Abbiamo assunto impegni da ogni parte, impegni pienamente giustificati a mio giudizio, dato tutto ciò che è accaduto; non è necessario enumerare ora i Paesi ai quali abbiamo concesso o stiamo per concedere garanzie. Quello che non avevamo neppure sognato di fare un anno fa, quando c’erano tante ragioni di speranza, quello che non avremmo nemmeno sognato di fare un mese fa, lo stiamo facendo adesso. Se aspiriamo a far ritrarre l’Europa dall’orlo dell’abisso, se vogliamo condurla agli altipiani della legalità della pace, dobbiamo offrire l’esempio senza risparmiarci. Come potremmo continuare a condurre la nostra comoda vita, qui in patria, evitando persino di pronunciare la parola coercizione, evitando persino di prendere quelle misure necessarie a reclutare ed equipaggiare gli eserciti che abbiamo promesso?”. Il vecchio leone non si dà pace: si batte con ancor più passione per una condotta virile dell’Inghilterra che ora, finalmente, può essere ottenuta dopo tanti anni di inutili tentativi da parte sua e di pochi altri che hanno saputo scorgere, per tempo, il logico evolversi degli avvenimenti. Ciò che, nella circostanza, fa impazzire Churchill da ex Lord dell’Ammiragliato, è la stridente differenza con la quale è stata utilizzata la flotta inglese (sparsa un po’ dovunque) da quella italiana (concentrata e pronta nel Canale d’Otranto). Il 20 aprile scrive al Ministro degli Esteri Halifax: “La situazione della nostra flotta è inesplicabile. La sera del 4 aprile, martedì, il Primo Lord dell’Ammiragliato dichiarò che la Home Fleet era in uno stato d’allarme tale che quasi non si permetteva ai marinai di lasciare i 138 cannoni antiaerei per scendere sottocoperta. Tutto ciò si verificava in conseguenza d’un telegramma d’allarme, e, secondo il mio concetto, superava i limiti della normale vigilanza. D’altra parte, nel medesimo tempo, la Flotta del Mediterraneo si trovava dispersa in pericolosissimo disordine in tutto il Mediterraneo e, come dimostrano le fotografie, la Barham era ormeggiata nel porto di Napoli. Ora la Flotta del Mediterraneo è concentrata e si trova in mare, cioè nel debito posto. Ma la deficienza di vigilanza si è trasferita nelle acque territoriali. La Flotta Atlantica, eccetto per quel che concerne i cannoni antiaerei, è rimasta praticamente inefficiente per alcuni giorni, dato il gran numero di uomini mandati in licenza. Si sarebbe creduto che le licenze, in momenti simili, potessero almeno venir concesse a gruppi alternati di uomini. Tutti i dragamine sono fuori servizio per lavori di riparazione. Come è possibile conciliare tutto questo con la tensione che è stato detto esistesse martedì scorso? Mi sembra che ci si sia scostati in modo assai grave dalle misure di continua vigilanza. Eppure la situazione oggi non è molto diversa da quella della settimana passata”. Nel frattempo le notizie delle imprese dell’Asse, le evidenti debolezze del Governo, la continua e decisa critica costruttiva, della forza e della continuità di un martello pneumatico, di Churchill, incominciano a convincere la gente della strada che l’Inghilterra ha bisogno di una guida ben più decisa. Così, verso la metà del 1939, vengono affissi enormi manifesti e diecine di migliaia di giovani circolano, per intere settimane, lungo le vie di Londra mostrando grandi cartelli dove campeggia, in caratteri cubitali, la scritta “Churchill deve tornare!”. ROOSEVELT , dopo lo sterile tentativo di intervenire nei problemi europei compiuto nel gennaio del 1938, si occupa dell’espansionismo giapponese e pone in atto un blocco statunitense all’esportazione in Giappone di materie prime. 139 Torna a pensare all’Europa solo quando Hitler occupa la Boemia e Mussolini l’Albania, limitandosi, però, ad inviare ai due dittatori un messaggio personale dove insiste perché s’impegnino a non commettere altre aggressioni per un periodo di dieci anni, o “anche di venticinque se dobbiamo guardare tanto lontano”. Nient’altro. Il commento di Mussolini è lapidario, dice: “Conseguenze della paralisi infantile!”. STALIN invece, pur essendo molto attivo nella politica estera con l’intervento in Spagna, le varie offerte di conferenze e consultazioni militari a Inghilterra, Francia e Cecoslovacchia, ne ricava solo sconfitte ed esclusioni di ogni genere, come quella davvero bruciante, di Monaco. Ad essa fa seguito, nel marzo 1939, la stroncante dichiarazione di Chamberlain che afferma: “Debbo confessare la profondissima sfiducia che nutro nei confronti della Russia.(...) Inoltre molti Stati minori, soprattutto Polonia, Romania e Finlandia, nutrono per la Russia diffidenze e ostilità”. 140 | |
| | | Bruno Admin
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| Titolo: Re: I CINQUE DUCI A CONFRONTO saggio di storia comparata Mer Ott 22, 2014 12:13 pm | |
| CAP. X SCOPPIA LA SECONDA GUERRA MONDIALE CON HITLER E STALIN INIZIALI PROTAGONISTI MENTRE CHURCHILL RITORNA AL GOVERNO MUSSOLINI, dopo la conquista dell’Albania, deliberata e fatta eseguire nonostante la precedente e ferma presa di posizione del Governo inglese contro le eventuali nuove aggressioni tedesche, è tornato ad essere arrogante. Può farlo perché nessuno si è opposto alla sua azione, né sono giunte serie lamentele da parte di chicchessia. Continua quindi a comportarsi come se alle spalle avesse una grande forza militare. Alla fine di maggio 1939, quando il nuovo ambasciatore inglese si reca a rendergli omaggio, gli si mostra (secondo quanto scrive Ciano) con “il suo volto chiuso nella più assoluta impenetrabilità; sembrava un idolo orientale scolpito nella pietra” e decisamente lo maltratta. Successivamente il Duce fa consegnare ad Hitler un suo promemoria circa la necessità dell’Asse di occupare subito, in caso di guerra, l’Europa centro-balcanica. Tutto concorre a farlo sentire alla testa di una nazione potente e temuta, anche l’intercettazione di un rapporto dell’ammiraglio Noble sulle possibilità navali britanniche contro le forze riunite di Italia-Germania-Giappone. Infatti l’alto ufficiale inglese è estremamente pessimista proprio per il settore Mediterraneo dove, a suo parere, dominano nettamente le forze aeronavali dell’Italia fascista. Il Duce, esaltato, traccia l’assetto futuro del Mediterraneo centro-occidentale: il Marocco sarà integralmente della Spagna, mentre la Tunisia e l’Algeria diverranno italiane! Come se non bastasse Hitler accetta senza fiatare il rimpatrio dei tedeschi che risiedono in Alto Adige e fa impartire un’immediata e 141 severa punizione al capo della sezione nazista di Bolzano che non si è comportato correttamente verso le autorità italiane, mentre Ungheria, Spagna e Iugoslavia fanno a gara per mostrarsi favorevoli all’Asse, ma con particolare propensione per l’Italia. Quindi un Mussolini quanto mai sicuro di sé riceve nuovamente, il 7 luglio, l’ambasciatore inglese e lo ammonisce: “Dite a Chamberlain che se l’Inghilterra è pronta a combattere per difendere la Polonia, l’Italia è decisa a prendere le armi per la sua alleata Germania”. Ma qualche giorno dopo, improvvisamente, il Duce cambia totalmente registro: è finalmente venuto a sapere (o ne ha preso coscienza) che le sue Forze Armate, ad eccezione della Marina, sono in uno stato rovinoso dopo le vittoriose ma logoranti guerre di Etiopia e di Spagna. Nella nazione iberica l’Italia ha inviato (e probabilmente saranno rimasti lì o si saranno deteriorati) ben 656 aerei, 950 carri armati (quelle specie di scatolette dal peso di 1/2 tonnellate che sono l’unico tipo in possesso dell’esercito), 1930 pezzi d’artiglieria, 3436 mitragliatrici, 240.747 fucili e 1426 mortai. E’ vero che anche la Russia e la Germania hanno inviato rispettivamente 648 e 593 aerei, 347 e 250 carri armati (del tipo da 10 tonnellate in sù), 120 e 0 autoblindo, 1186 e 700 pezzi d’artiglieria, 20.486 e 31.000 mitragliatrici, 497.813 e 157.306 fucili, 340 e 6174 mortai. Ma la Russia dal 1930 produce, senza alcun problema di materie prime, più aerei e carri armati di qualsiasi altra grande potenza e solo dopo le grandi epurazioni del 1937 diviene, per alcuni anni, militarmente molto più debole. La Germania, a sua volta, ha una produzione di armi estremamente più abbondante di quella italiana, mentre la Francia (che pur ha inviato in Spagna armi per quantitativi equivalenti a quelli italiani) attinge da una riserva ben più notevole. E’ lecito dedurre che la guerra spagnola, preceduta da quella Etiopica, ha logorato in misura ben maggiore il Paese di Mussolini rispetto agli altri, che hanno consumato di meno e sostituito di più. 142 Quindi in Italia il numero delle divisioni è grande, ma la loro consistenza è tanto esangue da avere, nella cruda realtà, una forza che supera di poco quella di un reggimento. Inoltre i magazzini sono quasi vuoti, le artiglierie sono vecchie, le armi antiaeree ed anticarro sono praticamente inesistenti e l’Aviazione, che avrebbe dovuto poter contare sul considerevole numero di 3.000 aerei efficienti, a stento ne possiede mille! Ed ecco che Mussolini raccomanda al Ministro degli Esteri Ciano, che deve incontrarsi con il collega germanico a Salisburgo, di fare di tutto per convincerlo a evitare la guerra con la Polonia che ormai coinvolgerebbe tutti i Paesi europei in un conflitto rovinoso. Ma Hitler e Ribbentrop si mostrano implacabili nel loro desiderio di battersi e dominare e Ciano si rende amaramente conto di quanto poco, ora, contino gli italiani nell’influenzare le decisioni tedesche. Anzi Hitler dice a Ciano che consiglia a Mussolini di “vibrare al più presto il colpo di grazia alla Iugoslavia”. Così, quando Ciano riferisce al suocero i magri risultati della sua visita, anche il Duce diviene del tutto consapevole che un’eventuale guerra sarà decisa da Hitler e non più da lui. Ora sa che ha perso definitivamente il primato, e il suo umore incomincia ad essere più che mai cangiante: un giorno dice a Ciano che “è impossibile marciare ad occhi bendati con la Germania, ma bisogna trovare una soluzione che permetta: a)se le democrazie attaccano, di sganciarci onorevolmente dai tedeschi; b) se le democrazie incassano, di cogliere l’occasione per saldare, una volta per tutte, i conti con Belgrado”, mentre, solo pochi giorni dopo, vorrebbe confermare che, nonostante tutto, l’Italia marcerà con la Germania. Poi ancora ci ripensa e dice il contrario e, poco dopo, (il 18 agosto) addirittura teme l’ira di Hitler. Pensa che una denuncia del Patto, possa indurre il Führer ad abbandonare la questione polacca per saldare il conto all’Italia. Ciano tenta di tranquillizzare il Duce e, al tempo stesso, di convincerlo definitivamente a non partecipare al conflitto che, giorno dopo giorno, si presenta sempre più inevitabile. Intanto cerca di 143 incontrarsi col collega tedesco per comunicargli la necessaria decisione di Mussolini, ma succede qualcosa di sconvolgente che il Ministro degli Esteri italiano così annota nel suo diario: “Ieri sera (21 agosto 1939) alle 10,30 si è prodotto il colpo di scena. Ribbentrop ha telefonato che avrebbe preferito vedermi a Innsbruck anziché alla frontiera, dovendo poi partire per Mosca onde firmare il Patto politico con i Soviet. Ho sospeso ogni decisione e ho riferito al Duce. Ha concordato con me nel ritenere ormai sorpassato il viaggio in Germania. Ho di nuovo parlato con Ribbentrop per dirgli che il nostro eventuale incontro sarà rinviato al ritorno da Mosca. Lunga telefonata col Duce. Non c’è dubbio che i tedeschi hanno fatto un colpo da maestri. La situazione europea è sconvolta. Potranno ancora Francia e Inghilterra, che hanno basato tutta la loro politica anti Asse sull’alleanza coi Sovieti, contare sull’adesione incondizionata delle masse estremiste? E terrà ancora il sistema di accerchiamento a mezzo dei piccoli Stati ora che il caposaldo di Mosca è crollato? Comunque non conviene precipitare le decisioni: attendere e se possibile tenerci pronti a fare anche noi la nostra parte di bottino in Croazia e Dalmazia. Il Duce ha costituito l’armata comandata da Graziani: io comincio a mobilitare i nostri amici croati, in Italia e in luogo”. Ma Francia e Inghilterra, ormai davvero decise, fanno sapere che interverranno ugualmente in un’eventuale guerra tedesco-polacca, mentre il Giappone protesta per l’accordo russo-tedesco. Allora Mussolini reprime nuovamente la sua voglia di fare la guerra e desidera promuovere trattative per Danzica, poi ritorna bellicista, ma viene subito calmato da Ciano che, in accordo con il re, lo convince a scrivere a Hitler che l’Italia non è pronta per combattere in un conflitto di così grande portata, ma lo farà ugualmente, se la Germania fornirà tutto il materiale necessario. Hitler non batte ciglio e chiede l’elenco. La lista è mortificante e spaventosa: si tratta di 170 milioni di tonnellate di materiali che avrebbero bisogno per il solo trasporto di 144 ben 17mila lunghissimi treni! Sorprendente per la calma è la risposta del Führer: dice a Mussolini che ovviamente non può fornirgli quanto gli è stato richiesto, ma comprende la sua situazione, desidera soltanto che l’Italia mantenga un atteggiamento amichevole verso la Germania e metta in atto provvedimenti, tipo oscuramento delle città, per dare l’impressione al mondo di voler continuare a marciare con la nazione alleata che farà da sola, sconfiggendo prima la Polonia e poi la Francia e l’Inghilterra. Il Duce è avvilito e umiliato ed è ormai l’ombra dell’uomo volitivo e deciso che è stato fino a poco più di un mese prima. Addirittura si spaventa mortalmente il 31 agosto, quando Londra, in risposta all’oscuramento praticato nelle città italiane, taglia le comunicazioni telefoniche con l’Italia. Mussolini dice al genero: “E’ la guerra. Però domani faremo una dichiarazione in Gran Consiglio che noi non marciamo”. Al che Ciano risponde: Domani: troppo tardi. Gli anglo-francesi potrebbero già aver compiuto un gesto che rende troppo difficile una tale dichiarazione. Propongo di chiamare Loraine (l’ambasciatore inglese) e di fare io un’indiscrezione. Se lo scandalo ne sorgerà, io sarò bruciato, ma sarà salvata la situazione”. Il Duce docilmente approva e Ciano convoca Loraine, gli parla del taglio delle comunicazioni e poi, quasi per uno scatto del tutto spontaneo, aggiunge: “Ma perché volete creare l’impossibile? Non avete capito che la guerra contro di voi o contro la Francia noi non la inizieremo mai?”. L’ambasciatore si commuove fino alle lacrime e il pericolo viene scongiurato. Invece Hitler, implacabile, il 1° settembre alle 5,25 inizia a invadere la Polonia e subito Mussolini, che non vuole passare per fedifrago, incarica l’ambasciatore italiano in Germania di ottenere che il dittatore tedesco faccia all’Italia un telegramma nel quale la liberi dagli obblighi dell’alleanza, e Hitler invia quanto richiestogli. Nei giorni successivi, mentre le armate tedesche avanzano impetuose e vittoriose in Polonia, fanno capo al Duce, senza successo, 145 svariati tentativi di composizione della vertenza che ormai vede anche Inghilterra e Francia in guerra contro la Germania. Mussolini ha nuovi rigurgiti di bellicismo, ma ormai i generali italiani continuano a parlagli chiaro, mettendo da canto le vecchie e cortigiane reticenze, della situazione militare delle loro armate: i mezzi sono scarsi, c’è disordine nei comandi, e demoralizzazione nelle truppe. Ciò nonostante Ciano, in virtù dei folgoranti successi germanici, può tornare a fare la voce grossa con gli ambasciatori, ammonendoli di non esagerare con blocchi navali e accerchiamenti politici contro l’Italia, perché potrebbero subire una forte reazione armata. Nel frattempo ogni resistenza polacca è frantumata: i tedeschi sono a Varsavia e i Russi, in base all’accordo Ribbentrop-Molotov, occupano, senza trovare alcuna seria opposizione, i territori polacchi a loro assegnati. A Natale, mentre la guerra è finita in Polonia e il fronte occidentale langue, le città italiane sono illuminate e sufficientemente festose perché, oltretutto, la non belligeranza proclamata da Mussolini ha fornito alla nazione anche indubbi vantaggi economici. Solo il Duce si sente estremamente frustrato e, per far comunque sentire la sua presenza, scrive a Hitler una lunga lettera zeppa di consigli non richiesti alla quale, per la prima volta, non riceve risposta immediata, ma solo dopo lunghe settimane. Il 18 marzo 1940 i due dittatori s’incontrano al Brennero. Il Führer domina i colloqui sicuro di sé, della forza delle sue armi, ed anche dell’appoggio militare che sicuramente Mussolini, prima o poi, gli darà. Pochi giorni dopo il Duce sfoga, contro l’inviato speciale di Roosevelt, che gli propone un incontro alle Azzorre con il Presidente Americano, la tensione e il nervosismo accumulati da mesi. Rifiuta decisamente la proposta con un fare ironico e sprezzante e immediatamente dopo comunica ai suoi collaboratori il programma bellico che attuerà non appena sarà entrato in guerra in appoggio a 146 Hitler: difensiva sulle Alpi, difensiva in Libia, offensiva dall’Impero contro Gibuti e il Kenya, offensiva aeronavale nel Mediterraneo. Si giunge al 10 maggio e, improvvisamente, l’ambasciatore tedesco dice a Ciano: “Forse stanotte sarò costretto a disturbare lei e il Duce”. Alle 5 di mattina Ministro degli Esteri e ambasciatore sono a villa Torlonia da Mussolini: la Germania ha iniziato il grande attacco ad occidente! HITLER nel maggio del 1939 è pienamente soddisfatto: l’Italia, forte e prestigiosa per le vittorie di Etiopia, Spagna e Albania, ha firmato con lui il Patto d’Acciaio. Però una nube offusca un’alleanza tanto perfetta e con sfere d’influenza ben delimitate: sembra che Ciano abbia tentato più volte di convincere il Duce ad abbandonare la Germania e a schierarsi con le Democrazie. Ciò nonostante in agosto il Führer ha definitivamente deciso di risolvere con la forza il problema di Danzica e, con diabolica spregiudicatezza, conclude con la Russia un accordo di non aggressione e di spartizione della Polonia. Tutti sembrano felici a Mosca, intorno al tavolo della conferenza russotedesca, e Stalin propone a Ribbentrop un brindisi dicendo: “Conosco l’amore che la nazione germanica ha per il suo Führer e vorrei quindi bere alla salute di lui”. In fondo Hitler è costretto dalla presa di posizione inglese ad accordarsi con colui che, prima o poi, aggredirà, perché i suoi progetti di espansione sono sempre rivolti ad oriente, e la Polonia non rappresenta che una delle tante tappe che si è prefisso. Tenta quindi di convincere, ancora una volta, Chamberlain, offrendo all’ambasciatore britannico un trattato di alleanza, una garanzia all’Impero inglese in cambio di compensi coloniali e affermando che, subito dopo la risoluzione della questione polacca, si sarebbe ritirato a vita privata perché, in fondo, lui si sente principalmente un artista, non un politico. Ne ricava solo una secca risposta dal Primo Ministro: “Se la Germania invade la Polonia è la guerra!” 147 Parallelamente il dittatore tedesco cerca di tenere buono Mussolini di cui teme reazioni contrarie per l’accordo innaturale e gli scrive: “Duce, da molto tempo la Germania e la Russia meditavano sulla possibilità di porre su nuove basi i reciproci rapporti politici. La necessità di addivenire a risultati concreti in questo senso è stata rafforzata: 1)dalle condizioni della situazione politica mondiale in generale per la parte che è decisiva per entrambe le potenze dell’Asse; 2)dal continuato procrastinare una chiara presa di posizione da parte del Gabinetto giapponese. Il Giappone era bensì disposto ad un’alleanza contro la Russia, alla quale la Germania -come pure, secondo me, l’Italia- possono essere nelle presenti circostanze interessate soltanto in modo secondario. Ma non era disposto ad assumere obblighi altrettanto chiari verso l’Inghilterra, la qual cosa sarebbe stata decisiva non soltanto dal punto di vista della Germania, ma anche da quello dell’Italia; 3)i rapporti della Germania con la Polonia sono stati insoddisfacenti a partire dalla primavera e nelle ultime settimane sono diventati semplicemente intollerabili, non per colpa del Reich, ma principalmente a causa dell’azione dell’Inghilterra. Queste ragioni mi hanno indotto ad affrettare la conclusione delle conversazioni russo-tedesche. Non vi ho ancora, Duce, informato in dettaglio su questo argomento. Ora, nelle ultime settimane, la buona disposizione del Cremlino ad addivenire a un cambiamento dei rapporti con la Germania -disposizione prodottasi dall’allontanamento di Litvinov- è apparsa sempre più forte e mi ha reso ormai possibile, dopo avvenuta una chiarificazione preliminare, inviare il mio ministro degli Affari Esteri a Mosca per stipulare un trattato che è soprattutto il più vasto patto di non aggressione oggi esistente ed il cui testo è destinato ad essere reso pubblico. Il patto è incondizionato e stabilisce inoltre l’obbligo della consultazione su tutte le questioni che interessino la Germania e la Russia. Oltre a ciò 148 posso comunicarvi, Duce, che mediante le disposizioni in esso contenute è assicurato nel caso di qualunque conflitto l’atteggiamento benevolo della Russia e che, innanzi tutto, non esiste più la possibilità di un qualsiasi attacco da parte della Romania in tale conflitto...” Mussolini, che è roso dalla recente presa di coscienza della pochezza di mezzi e dell’impreparazione delle sue truppe, scrive: “Führer, rispondo immediatamente alla vostra lettera che mi è stata consegnata in questo momento dall’ambasciatore. 1) Per quanto riguarda l’accordo con la Russia, io lo approvo completamente. 2) Ritengo che sia utile cercare di evitare una rottura o un raffreddamento con il Giappone e quindi un suo avvicinamento agli Stati democratici. 3) Il Patto di Mosca blocca la Romania e può cambiare la posizione della Turchia, la quale ha accettato i prestiti inglesi, ma non ha ancora firmato l’alleanza. Un nuovo atteggiamento della Turchia sposterebbe tutto il dispositivo strategico dei franco-inglesi nel Mediterraneo orientale. 4) Per quanto concerne la Polonia, io ho la perfetta comprensione della posizione germanica e del fatto che una situazione così tesa non può durare all’infinito. 5) Per quanto concerne l’atteggiamento pratico dell’Italia, nel caso di un’azione militare, il mio punto di vista è il seguente:- Se la Germania attacca la Polonia e il conflitto rimane localizzato, l’Italia darà alla Germania ogni forma d’aiuto politico ed economico che le sarà richiesto. - Se la Germania attacca la Polonia e gli alleati di questa contrattaccassero la Germania, vi prospetto l’opportunità di non assumere io l’iniziativa di operazioni belliche date le attuali condizioni della preparazione militare italiana ripetutamente e tempestivamente segnalate a Voi, Führer e a von Ribbentrop. Il nostro 149 intervento può tuttavia essere immediato se la Germania ci darà i mezzi bellici e le materie prime per sostenere l’urto che i francoinglesi dirigeranno prevalentemente contro di noi. Nei nostri incontri la guerra era prevista dopo il 1942, e a quell’epoca sarei stato pronto per terra per mare e per aria, secondo i piani concordati”. Quindi il Duce si tira dietro, ma con una giustificazione abbastanza sensata, ed Hitler, che tiene ad averlo con lui, gli chiede di cosa ha bisogno. Si vede recapitare una lista di dimensioni inimmaginabili che lo delude profondamente, perché ha sempre ammirato Mussolini e l’Italia che ha edificato. Sì, è vero che sa di alcune carenze nell’armata dell’alleato, ma mai avrebbe immaginato, a differenza dello Stato Maggiore del suo esercito, che giungessero a tanto! Dovrà quindi fare da solo e non si sente sgomento perché conosce bene la forza che il suo esercito ha ormai raggiunto. Attacca e vince in un lampo in Polonia. E poi, dopo la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra, i tre eserciti rimangono fermi alla frontiera, mentre Stalin, una volta impadronitosi, quasi senza colpo ferire, del suo bottino polacco e di Estonia, Lettonia e Lituania, attacca la Finlandia. Nell’aprile 1940 Hitler fa conquistare la Danimarca e, poco dopo, la Norvegia. Infine , a maggio, dà ordine alle sue armate di muovere all’invasione della Francia. Già nell’aprile del 1939, CHURCHILL freme di sdegno impotente nell’apprendere ciò che Hitler ha detto davanti al Reichstag: “Poiché ora l’Inghilterra, sia attraverso la stampa, sia ufficialmente, sostiene il concetto che la Germania debba venire osteggiata in ogni modo e tale concetto coincide con quella politica di accerchiamento di cui ci siamo resi conto, le basi del Trattato Navale non sussistono più. Ho risolto quindi di inviare oggi stesso una comunicazione in questi termini al Governo britannico. Data la mia speranza di evitare una corsa agli armamenti con l’Inghilterra, noi non ci troviamo di fronte a una questione che riveste un’importanza pratica, ma soltanto 150 un’affermazione di dignità. Se il Governo britannico volesse riaprire i negoziati con la Germania a questo proposito, nessuno più di me accoglierebbe con gioia la possibilità di raggiungere una chiara comprensione”. Il politico inglese lo giudica una beffa ed è convinto che Hitler, in possesso della totale amicizia d’una Italia aggressiva e potente, della superiorità assoluta in campo aeronautico, dell’Austria, della Cecoslovacchia e delle fortificazioni ad occidente, poco tema la Gran Bretagna, che s’è mostrata più volte timorosa a partire dalla ingloriosa prova di forza con l’Italia in occasione del conflitto etiopico. Ciò nonostante Churchill, da semplice anche se famoso deputato, fa di tutto per scuotere il Paese con un articolo in cui scrive: “Sembra fin troppo probabile che la cupidigia tedesca debba rivolgersi verso la Polonia. I discorsi di Hitler possono o meno costruire un indizio per giudicare le sue intenzioni, ma è ovvio che il precipuo oggetto della dimostrazione di ieri fosse quello di isolare la Polonia creando una plausibile ragione per attaccarla. Sembra che il dittatore tedesco abbia ritenuto di poter rendere inefficace il Patto anglo-polacco, accentrando le sue richieste su Danzica e il Corridoio. Evidentemente egli aspetta che quelle correnti inglesi da cui partiva l’esclamazione ‘Chi mai vorrebbe combattere per la Cecoslovacchia?’ possano ora trovarsi indotte a urlare ‘Chi mai vorrebbe combattere per Danzica e il Corridoio?’. Pare che egli non afferri l’immenso cambiamento operato nell’opinione pubblica dalla fraudolenta violazione dell’Accordo di Monaco e la variazione dell’indirizzo politico che questa offesa ha imposto al Governo britannico e soprattutto al suo Primo Ministro. La denuncia del Patto polacco-germanico di non aggressione concluso nel 1934, e riaffermato recentemente il 1° gennaio, durante la visita di Ribbentrop a Varsavia, è un passo grave e minaccioso. Come il trattato navale anglo-germanico, esso era stato negoziato per desiderio di Hitler e dava, del pari, notevoli vantaggi alla Germania nel momento della debolezza. In pratica, la Gran 151 Bretagna concludendo l’accordo navale aveva ammesso la rottura delle clausole militari definite a Versailles e aveva privato di ogni valore sia le decisioni di Stresa, sia quelle adottate dal Consiglio della Lega. L’accordo polacco-germanico diede modo ai nazisti di polarizzare la loro attenzione prima sull’Austria, quindi sulla Cecoslovacchia, con esito catastrofico per ambedue quelle infelici nazioni, indebolendo momentaneamente i rapporti tra Polonia e Francia e impedendo che tra i vari Stati dell’Europa orientale si formasse una reale solidarietà d’interessi. Ora, dopo aver servito ai fini che la Germania si era prefissi all’atto di concluderlo, questo Patto viene cancellato da una decisione unilaterale. La Polonia è così implicitamente informata di trovarsi esposta a una possibile aggressione”. Finalmente il Governo inglese mostra di accorgersi che tutte le garanzie concesse alle Potenze minori dell’Europa centroorientale non hanno un pratico valore, se manca un accordo generale con Stalin, e, il 15 aprile 1939, vengono iniziate conversazioni con la Russia. Si prende in esame, con meticolosa lentezza, la creazione di una reciproca assistenza fra Gran Bretagna, Francia e URSS per garantire quegli Stati d’Europa su cui grava la minaccia di aggressione tedesca, ma che, forse, hanno più paura della Russia che della Germania. Ciò rallenta ancor più le trattative, nonostante le continue sollecitazioni di Churchill a far presto. Nelle more si determina un fondamentale cambiamento nel Governo russo: Molotov, che è notoriamente propenso a soluzioni più spregiudicate, sostituisce al Ministero degli Esteri l’ebreo Litvinov, dando la possibilità ad Hitler di far scrivere, con molta evidenza, sui quotidiani tedeschi che lo spazio vitale germanico non invade il territorio russo, anzi termina proprio ai confini dell’URSS. Iniziano, con queste premesse, trattative fra tedeschi e russi che vengono condotte con rapidità e decisione. Il 19 agosto Stalin annuncia al Politburò la sua intenzione di firmare un accordo con la 152 Germania e, il 22 agosto, il russo Voroscilov dice al capo della missione francese: “Per molti anni la questione della collaborazione militare con la Francia è rimasta sospesa in aria e non si è mai riusciti a definirla. L’anno scorso, quando la Cecoslovacchia stava morendo, noi aspettavamo dalla Francia un segnale che non fu dato. Le nostre truppe erano pronte. Il Governo britannico e quello francese hanno trascinato troppo a lungo le discussioni politiche e militari. Per tale motivo non si può escludere l’eventualità che si verifichino certi avvenimenti politici...”. Il giorno dopo Ribbentrop giunge a Mosca e s’incontra con Stalin. Viene concluso un accordo, da tutti ritenuto impossibile, che ufficialmente dice: “Ambedue le parti contraenti si obbligano ad astenersi reciprocamente da qualsiasi atto di violenza, aggressione o attacco, che possa venir compiuto sia isolatamente, sia d’accordo con altre Potenze”. Ma segretamente la Germania ha dichiarato di avere interessi solo commerciali e per nulla politici negli Stati baltici, ed ha tracciato la linea che delimita la spartizione della Polonia. All’annuncio dello sconvolgente accordo, il Governo inglese reagisce con fredda compostezza e prende, finalmente con pronta decisione, i seguenti provvedimenti straordinari: requisisce 25 navi mercantili da trasformare in incrociatori ausiliari, mobilita le difese contraeree, raggruppa le truppe in punti strategici della costa, avvisa i Dominions e le Colonie di stare all’erta, richiama alle armi i riservisti, appronta altre stazioni radar. A sua volta il Primo Ministro scrive a Hitler: “L’Eccellenza Vostra avrà sicuramente già avuto notizia di certe misure che il Governo di Sua Maestà ha ritenuto opportuno adottare e che stasera vengono annunciate dalla stampa e dalla radio. Secondo l’opinione del Governo questi passi si sono resi necessari in seguito a movimenti militari che, viene riferito, si svolgono in Germania e al fatto che in certi ambienti berlinesi il Patto russogermanico sembra venir considerato come una garanzia che l’intervento della Gran Bretagna a favore della Polonia non deve 153 essere più ritenuto probabile. Non si può immaginare un errore più grave. Qualunque sia il carattere del Patto, esso non può modificare quegli obblighi verso la Polonia che il nostro Governo ha riconosciuto chiaramente e ripetuto in pubblico e che è deciso a rispettare in pieno. Si è voluto asserire che, se nel 1914 il Governo di Sua Maestà avesse dichiarato con precisione i suoi intenti, la grande catastrofe sarebbe stata evitata. Sia o meno fondata questa asserzione, oggi il nostro Governo è deciso a far sì che non si verifichi di nuovo un così tragico malinteso. Esso è pronto, qualora dovesse presentarsene la necessità, a impiegare senza esitazioni tutto il potere di cui dispone, e quando la guerra fosse cominciata nessuno potrebbe prevederne il termine. Anche possedendo la certezza di una serie di vittorie su uno dei numerosi fronti di combattimento, sarebbe un’illusione pericolosa quella di credere che il conflitto, una volta iniziato, potrebbe concludersi rapidamente. Confesso di non vedere in questo momento alcun altro mezzo per evitare il disastro che trascinerebbe l’Europa in una conflagrazione. In vista delle gravi conseguenze che potrebbero derivare all’umanità dalla condotta dei suoi governanti, confido che l’Eccellenza Vostra vorrà considerare con la massima attenzione le considerazioni da me esposte”. Hitler non tarda a rispondere con una lunga lettera dove, fra le tante altre cose, dice: “...L’incondizionata assicurazione data dall’Inghilterra alla Polonia, di aiutare questa nazione in ogni circostanza e indipendentemente dalle cause che potrebbero originare il conflitto, può venire interpretata dalla Polonia soltanto come un incoraggiamento a scatenare d’ora in avanti, sotto la protezione di questo documento, un’ondata di pauroso terrorismo contro quel milione e mezzo di tedeschi che risiedono nel suo territorio...” Il primo settembre 1939 la Germania invade la Polonia e Inghilterra e Francia entrano in guerra. Pochi giorni dopo, a Londra, viene formato un Gabinetto di Guerra di cui fa parte Churchill che viene nominato, così come nella guerra 1914/1918, Primo Lord 154 dell’Ammiragliato e alla flotta viene comunicato. “Winston è tornato!”. Nel settembre 1939 la Gran Bretagna dispone di 12 corazzate e 3 incrociatori da battaglia contro 3 corazzate tascabili e 2 incrociatori da battaglia tedeschi; 15 incrociatori da 8 pollici contro 2 tedeschi; 49 incrociatori da 6 pollici contro 6 tedeschi; 184 cacciatorpediniere contro 22 tedesche; nessuna torpediniera contro 30 tedesche; 58 sommergibili contro 57 tedeschi; 27 motosiluranti contro 17 tedesche, 7 portaerei contro nessuna tedesca. A sua volta la Francia dispone di 8 corazzate e 2 incrociatori da battaglia, 18 incrociatori da 8 o 6 pollici, 28 cacciatorpediniere, 12 torpediniere, 70 sommergibili, 3 motosiluranti, 1 portaerei. La superiorità navale a favore dei francoinglesi è quindi schiacciante, anche se entrasse in guerra l’Italia che dispone di 4 corazzate, 7 incrociatori da 8 pollici, 12 incrociatori da 6 pollici, 59 cacciatorpediniere, 69 torpediniere, 105 sommergibili, 69 motosiluranti e nessuna portaerei, sebbene, in generale, il naviglio italo-tedesco sia decisamente più moderno. Altre grandi potenze navali sono gli Stati Uniti e il Giappone che annoverano rispettivamente: 15 e 10 corazzate, 5 e 6 portaerei, 18 e 18 incrociatori da 8 pollici, 18 e 17 incrociatori da 6 pollici, 181 e 113 cacciatorpediniere, 99 e 53 sommergibili, pochi o addirittura nessuna motosilurante o torpediniera. Le forze di terra invece sono di 115 divisioni tedesche (di cui 58 impiegate in Polonia) contro 65 francesi (di cui 12 a protezione del confine alpino con l’Italia) e 4 inglesi sul continente. Pure a favore dei tedeschi è il potenziale aereo, che vede ben 1600 bombardieri tedeschi contro 950 apparecchi franco-inglesi. La posizione alleata si aggraverebbe ulteriormente se entrassero in guerra anche le forze di Mussolini, accreditate di diecine di divisioni e di un gran numero di aerei. E’ fin troppo ovvio che, con tali rapporti di forze, i franco-inglesi debbono mantenere la difensiva nonostante abbiano, in omaggio agli 155 impegni presi con la Polonia, dichiarato la guerra a Hitler. Fra di loro ci si domanda se le truppe germaniche, una volta sconfitti i polacchi, avrebbero sfondato la linea fortificata francese Maginot, oppure optato di passare per la Svizzera o per l’Olanda e il Belgio, nonostante la neutralità di tali nazioni. Così, mentre i tedeschi rapidamente conquistano la Polonia nonostante l’eroica resistenza, il fronte occidentale rimane immobile tranne che sul mare, dove è intensa l’attività dei sommergibili germanici che fanno strage di mercantili inglesi, calandone a picco in un solo mese per 150mila tonnellate, con l’aggiunta della vecchia portaerei britannica Courageous. Proprio nel mese di settembre 1939, tanto impegnativo per Churchill, Roosevelt gli scrive: “Poiché durante la guerra scorsa voi e io abbiamo coperto uguali cariche, mi sento spinto a dirvi quanto sono felice del vostro ritorno all’Ammiragliato. I problemi che dovete risolvere oggi vengono complicati da elementi nuovi, lo capisco bene, ma i fattori essenziali non sono molto diversi. Desidero rendere noto a voi e al Primo Ministro che mi sarà gradito ricevere qualsiasi rapporto personale sugli argomenti che riterrete opportuno farmi conoscere. Potrete corrispondere con me liberamente per mezzo di lettere sigillate che passeranno dalla vostra alla mia tasca”. E Churchill, che aveva personalmente conosciuto Roosevelt nel loro unico incontro durante la Grande Guerra, si affretta a rispondergli, dando luogo ad una lunga e memorabile corrispondenza che diventerà ben più cospicua di quella fra Mussolini e Hitler. Nel mese di aprile 1940, dopo una lunga stasi di sei mesi sui fronti terrestri, il Führer, dà ordine di invadere la Danimarca che viene conquistata senza resistenza. Parallelamente un corpo di spedizione tedesco, sbarcato da navi da guerra, occupa le città costiere norvegesi di Oslo, Bergen, Trondheim e Narvik oltre a Stavanger e Sola, che vengono conquistate con truppe aviotrasportate e lanci di paracadutisti. La giustificazione tedesca con la Norvegia è la 156 precedente azione dei franco-inglesi che, per volere di Churchill, minano le coste del Paese neutrale, e il rifiuto di esso alla pretesa germanica di presidiare punti strategici del suo territorio. Le truppe norvegesi, sebbene colte di sorpresa dalla rapida ed efficace azione tedesca, organizzano una difficoltosa resistenza, aiutate da truppe Alleate sbarcate nell’isola di Harstad e a Namsos. Le battaglie infuriano e si risolvono quando, di lì a poco, Hitler attacca in Francia. La guerra di Norvegia non fa molte vittime umane, mentre numerose ed equivalenti sono le perdite di naviglio. Ancora una volta Churchill, come in modo ben più grave nella Grande Guerra a Gallipoli, si mostra tenace ma alquanto confusionario, come ampiamente dimostra una testimonianza giornalistica sullo sbarco inglese a Namsos: “Non avevo mai visto una confusione simile. Noi ci eravamo annessa una tenda e, fra il materiale che si stava sbarcando, non ci fu difficile trovare di che mobiliarla quasi sontuosamente. Nessuno ci impediva di fare man bassa al porto dove ognuno si recava per suo conto a cercarvi ciò che gli faceva comodo. I piroscafi restavano al largo e sbarcavano uomini e mezzi con scialuppe, alcune delle quali andavano a vela. Nessun reparto organico toccava terra. I soldati arrivavano alla spicciolata, carichi di roba, si guardavano attorno senza raccapezzarsi in quel bailamme e chiedevano a tutti, anche a noi, se sapevamo della compagnia tale comandata dall’ufficiale X. Nessuno sapeva mai nulla, ma tutti rispondevano che certo dovevano trovarsi nei dintorni e che bisognava cercarli. Si avviavano verso i boschi a piccoli gruppi o anche isolatamente, e in genere si perdevano nelle osterie in cui trovavano da bere qualcosa”. Eppure, appena poche settimane dopo, Churchill, a 66 anni suonati e a furor di popolo, diviene finalmente, dopo oltre un quarantennio di carriera politica, Primo Ministro e manterrà la carica, agendo come un vero dittatore, fino alla vittoria! STALIN , che in qualche modo si è confrontato militarmente in Spagna con le potenze dell’Asse e ne è risultato sconfitto, teme sia 157 l’espansionismo italiano nei Balcani, sia quello tedesco nell’Europa centro-orientale e tenta ancora di raggiungere reali accordi militari con Francia ed Inghilterra, ma le trattative vanno troppo a rilento. Ecco perché, quando Hitler gli offre un patto di non aggressione e la delimitazione di precise e reciproche zone d’influenza e la spartizione della Polonia, accetta con entusiasmo. Egli è ben consapevole che il suo esercito, dopo la grande epurazione dei migliori generali da lui stesso fatta effettuare, non è particolarmente forte anche se numericamente possente. Fa quindi, in ottemperanza al Patto, invadere la sua zona di Polonia e, subito dopo, impone trattati di reciproca assistenza a Estonia, Lettonia e Lituania che durante la guerra civile russa si erano riuscite a sottrarre al Governo sovietico e a instaurare una società e una pubblica amministrazione basate principalmente sull’avversione del comunismo. Dopo i trattati, che prevedono il libero ingresso di truppe russe nei tre Paesi baltici, una gran massa di soldati irrompe nelle tre capitali e vi effettua un feroce sterminio e una massiccia deportazione in Siberia senza che dai governi della Francia e dell’Inghilterra giunga nessuna seria protesta. Ormai Stalin è lanciato in un espansionismo che è, forse, secondo solo a quello di Hitler. Infatti, nel novembre del 1939, chiede alla Finlandia, con estrema arroganza, la cessione di basi navali per poi, all’ovvio rifiuto, attaccare senza alcuna dichiarazione di guerra il piccolo Stato nordico che si difende disperatamente con le sue 12 divisioni che debbono fronteggiarne 45 russe. L’impari lotta non si risolve immediatamente, ma dura ben tre mesi a dimostrazione dell’eroismo finlandese e dell’impreparazione dell’esercito sovietico. La Società delle Nazioni fa sentire la sua voce sempre più fioca per espellere, ma senza sanzioni, la Russia, mentre la Svezia, la Francia e l’Italia inviano qualche vecchia arma (26 vetusti aerei dall’Italia) e pochi volontari. Il conflitto russo-finlandese, che si conclude nel marzo 1940 con la cessione alla Russia dell’istmo di Carelia, fornisce l’occasione a 158 Mussolini di inviare a Hitler una fiera lettera dove il Duce sembra ritrovare antichi accenti: “Nessuno più di me, che ho ormai quarant’anni di esperienza politica, sa che la politica -specialmente una politica rivoluzionaria- ha le sue esigenze tattiche. Ho riconosciuto i Sovietici nel 1924; nel 1934 ho stipulato con essi un trattato di commercio e di amicizia. Così ho compreso che, non essendosi realizzate le previsioni di von Ribbentrop circa il non intervento dei francesi e degli inglesi, siate stato costretto a evitare il secondo fronte. Lo avete dovuto pagare in quanto la Russia, in Polonia e nel Baltico, è stata -senza colpo ferire- la grande profittatrice della guerra. Ma io che sono nato rivoluzionario, e non ho modificato la mia mentalità di rivoluzionario, vi dico che non potete continuamente sacrificare i principi della vostra rivoluzione alle esigenze tattiche di un determinato momento (...) Ho il preciso dovere di aggiungere che un ulteriore passo nei vostri rapporti con Mosca avrebbe ripercussioni catastrofiche in Italia, dove l’unanimità antibolscevica è assoluta, granitica, inscindibile. La soluzione del vostro Lebensraum è in Russia e non altrove...”. ROOSEVELT, all’inizio della guerra, dichiara la neutralità degli Stati Uniti, ma subito dopo invia una serie di lettere in Europa e, nel marzo 1940, il Sottosegretario agli Esteri Sumner Welles che in Italia è ricevuto da Ciano e da Mussolini con differenti reazioni. Infatti, mentre il Ministro degli Esteri lo giudica “una degna persona”, il Duce, dopo aver rifiutato la proposta d’un incontro alle Azzorre con Roosevelt, dice: “Tra noi e gli Americani è impossibile qualsiasi intesa perché loro giudicano i problemi in superfice mentre noi li giudichiamo in profondità”. A sua volta Welles così descrive Mussolini: “Statico e massiccio, piuttosto che vigoroso, si muoveva con pesantezza elefantina, come se ogni passo gli costasse uno sforzo”. 159 CAP. XI DALLA VITTORIA IN FRANCIA DI HITLER E DALL’INGRESSO DI MUSSOLINI IN GUERRA AI PRIMI GRANDI INSUCCESSI ITALIANI CHURCHILL, che come Primo Lord dell’Ammiragliato può essere considerato il maggior responsabile dell’insuccesso in Norvegia, da Primo Ministro non sbaglia più un colpo. Giunto finalmente alla massima carica governativa, la regge con un assolutismo degno di un dittatore, e, quando in poco più di un mese la Francia crolla sotto il violento e più che mai efficace attacco tedesco del maggio 1940, riesce a pilotare con grande abilità e coraggio l’imbarco a Dunkerque del corpo di spedizione britannico salvando più di 300mila soldati (190mila inglesi e 140mila alleati) che sono ricondotti sulle coste britanniche da 860 imbarcazioni di cui 240 vengono affondate dai tedeschi. E’ l’epopea non solo dei marinai in divisa militare, ma anche di quelli delle navi mercantili e, principalmente, di tanti diportisti, per lo più anziani, che, alla guida di piccole imbarcazioni anche a vela, compiono, galvanizzati dalle incitazioni di Churchill, la traversata della Manica andata e ritorno, sotto l’inferno di fuoco scatenato dai tedeschi. Il 10 giugno del 1940 anche Mussolini entra in guerra con forze che, sulla carta, fanno paura. Una stima, che forse include anche i mezzi impiegati e logorati in Spagna, accreditano l’Italia di 73 divisioni, per oltre un milione di uomini, 1500 carri armati leggeri (quelli da 1 o 2 tonnellate), 70 carri armati medi (in fase di messa a punto), 61mila automezzi e motomezzi, 3.000 aerei fra bombardieri e caccia, e una grande flotta in cui fa spicco la più grande 160 concentrazione di sommergibili del mondo composta da ben 115 elementi fra i quali 42 oceanici. Se si pensa che nella grande campagna di Francia Hitler ha impiegato 125 divisioni di cui 10 corazzate, 2.000 carri armati medioleggeri, 1000 carri armati pesanti e oltre 1000 aerei, mentre gli avversari (Francia, Inghilterra, Belgio e Olanda) hanno complessivamente disposto di 135 divisioni, 2600 carri armati prevalentemente medioleggeri, le truppe e i mezzi italiani che vanno, potenzialmente, ad aggiungersi a quelli di Hitler scoraggerebbero chiunque, ma non Churchill. Infatti il ”mastino” inglese rifiuta le onorevoli offerte di pace mosse dal Führer e va diritto per la sua strada che ha, e sembra incredibile, come traguardo la sconfitta dell’Asse. Eppure, per la colpevole inazione di Chamberlain, la consistenza e la preparazione militare dell’esercito inglese è in forte ritardo. L’aviazione invece, pur non essendo numerosa, è agguerrita e moderna e i suoi caccia sono più manovrabili e meglio armati di quelli tedeschi che sono superiori solo per la velocità. L’unico vero punto di forza inglese è, come al solito, la flotta che è non solo immensa ma anche agguerrita e ben attrezzata (radar). Il mondo intero sembra convinto che Churchill non possa resistere all’Asse. L’Inghilterra è ormai sola e i Dominions sono lontani e poco armati. Inoltre Stalin e il Giappone sono anche dalla parte di Hitler e negli Stati Uniti prevale la politica isolazionista. Eppure il “mastino” inglese non ha tutti i torti nel non considerarsi battuto. La sua profonda cultura storica e l’esperienza diretta nella Prima Guerra Mondiale gli hanno insegnato che chi non possiede il dominio dei mari non può sbarcare un grande esercito, con l’aggiunta dei viveri e delle armi per alimentarlo, nell’isola di Albione. Il vero problema per la Gran Bretagna risiede nei rifornimenti e, principalmente, nell’aviazione. In essa c’è la chiave di volta di tutto perché, pur disponendo di una grande Marina da Guerra che domina 161 sia l’Atlantico che lo stretto della Manica, gli inglesi, se a loro volta fossero dominati nell’aria dall’aviazione nemica, subirebbero tali perdite navali da non poter continuare per lungo tempo a controllare gli Stretti sia a nord che a sud di Dover. Proprio per questo Churchill ha posto, con una durezza che sembra spietata ma è solo lungimirante, l’assoluto divieto di utilizzare ulteriormente lì i residui aerei inglesi di stanza in Francia e ha dato ordine di farli rientrare subito in patria per partecipare alla difesa ad oltranza dell’isola. Ora, analizzando le due flotte aeree e i risultati degli scontri nei cieli francesi, gli aerei di Churchill possono reggere il confronto, perché le perdite che hanno inflitto agli avversari nella battaglia di Francia ha il rapporto confortante di 3 a 1 che, grosso modo, pareggia la proporzione del numero di aerei in possesso fra i contendenti che è, appunto, di 3 a 1 a favore dei tedeschi. Il 18 giugno in Parlamento Churchill dice: “La Marina non ha mai sostenuto di poter impedire incursioni di formazioni militari di 5/10mila uomini fulmineamente sbarcate in vari punti delle nostre coste in qualche notte buia o in qualche mattino nebbioso. L’efficacia delle forze navali dipende dalla mole più o meno imponente dell’esercito invasore. Esso deve essere di grande mole, in previsione delle nostre forze militari, per servire a qualcosa. Se di grande mole, allora la Marina avrà qualcosa da ricercare, affrontare e sconvolgere. Ora non va dimenticato che solo 5 divisioni, per leggero che sia il loro armamento, richiedono da 200 a 250 navi, e, con i moderni sistemi di ricognizione e fotografie aeree, non sarebbe facile riunire una simile flotta, ordinarla e condurla attraverso il mare senza potenti forze navali di scorta. Senza contare che, nella migliore delle ipotesi, questa flotta verrebbe intercettata molto prima di raggiungere la costa e affondata, o, nella peggiore, le truppe verrebbero fatte a pezzi con tutti i loro materiali nel tentativo di sbarcare”. 162 Hitler, nonostante la gioia e l’esaltazione della fulminea vittoria in Francia seguita dalla firma dell’armistizio che ha voluto avvenisse a Compiegne, nello stesso vagone nel quale fu firmata la resa tedesca nel 1918, e la sfilata orgogliosa del suo esercito sotto l’Arco di Trionfo a Parigi, sembra pensarla come Churchill sullo sbarco in Inghilterra. Anche lui condiziona l’operazione d’invasione della Gran Bretagna, denominata “Sea Lion” alla vittoria della sua aeronautica su quella di Churchill. Così il 10 luglio 1940 inizia la cosiddetta “Battaglia d’Inghilterra” con il primo attacco in grande stile della flotta aerea tedesca che ha come obiettivo immediato i porti meridionali inglesi di Dover e Plymouth. L’aviazione tedesca, “Luftwaffe”, dispone di 2.669 aerei comprendenti 1.015 bombardieri, 346 bombardieri in picchiata, 933 caccia e 373 caccia corazzati e il suo comandante in capo, Goring, dà ordine di eseguire continui attacchi sulla costa inglese prospiciente la Manica per attirare tutte le squadriglie nemiche a sud e, una volta ottenuto tale risultato, far intervenire altri aerei per bombardare, in diurna, le grandi città industriali a nord. L’esecuzione più poderosa e impegnativa di tale tattica avviene il 15 agosto quando ben 800 aerei tedeschi vengono impiegati a tormentare il sud e, contemporaneamente, più di 100 bombardieri e 50 caccia vengono lanciati contro Tyneside. Ma il comandante dell’aviazione inglese, Dowding ha, con felice intuizione, riservato 7 squadriglie per il nord e la battaglia aerea infuria dovunque con il risultato, in quella sola giornata, di 106 aerei tedeschi abbattuti contro gli appena 34 inglesi! Inoltre, mentre i piloti tedeschi degli aerei abbattuti che si riescono a salvare con il paracadute vengono fatti prigionieri, quelli inglesi cadono sul suolo patrio e quindi possono rientrare, dopo qualche giorno, nuovamente in azione su altri aerei. L’11 settembre Churchill dice alla radio: “Ogni volta che le condizioni meteorologiche siano favorevoli, ondate di bombardieri germanici protetti da caccia, spesso tre o quattrocento per volta, 163 s’abbattono sulla nostra isola, in particolar modo sul promontorio del Kent, nella speranza di attaccare obbiettivi militari o non militari nelle ore diurne. Tuttavia vengono intercettati dalle nostre squadriglie di caccia e quasi sempre dispersi; e la media delle loro perdite si calcola di 3 a 1 in apparecchi e di 6 a 1 per quanto riguarda i piloti. Questo sforzo da parte tedesca di conseguire la padronanza dei cieli inglesi nelle ore diurne è naturalmente il punto cruciale di tutta la guerra. Fino a questo momento questo sforzo è notevolmente fallito. E’ costato molto caro al nemico e noi ci siamo sentiti più forti, e infatti siamo relativamente molto più forti da quando questi duri combattimenti ebbero il loro inizio a luglio. Non c’è dubbio che Hitler usi della sua aviazione da caccia con molta intensità e che se dovesse continuare così per molte altre settimane non potrà che logorare e rovinare questa parte vitale delle sue forze aeree. Questo ci darà un grande vantaggio. D’altra parte, sarebbe per lui impresa ben azzardata cercare d’invadere il nostro Paese senza essersi precedentemente assicurato la superiorità aerea. Comunque tutti i suoi preparativi d’invasione su vasta scala procedono ininterrotti. Parecchie centinaia di barconi a motore scendono lungo le coste europee dai porti germanici e olandesi a quelli della Francia settentrionale; da Dunkerque a Brest; e, oltre Brest, ai porti francesi del golfo di Guascogna. Inoltre, convogli di navi mercantili a gruppi di diecine e di dozzine vengono avviati attraverso lo stretto di Dover nella Manica, spostandosi di porto in porto sotto la protezione delle batterie che i tedeschi stessi hanno postate sulla costa francese. Ci sono ora considerevoli concentrazioni di naviglio mercantile nei porti tedeschi, olandesi, belgi e francesi lungo tutta la rotta da Amburgo a Brest. Infine sono stati ultimati i preparativi perché delle navi possano trasportare forze d’invasione dai porti norvegesi. Dietro queste concentrazioni di piroscafi e di barconi forti contingenti di truppe germaniche attendono l’ordine d’imbarcarsi e di salpare per la loro pericolosissima e incerta traversata. Non possiamo dire 164 quando tenteranno di giungere a noi; non possiamo neppure essere certi che lo tenteranno addirittura; ma nessuno deve chiudere gli occhi dinanzi alla realtà del fatto che una grande invasione su vastissima scala viene preparata contro quest’isola con tutta la consueta meticolosità dei tedeschi, e che essa può scatenarsi in questo stesso istante sull’Inghilterra, o sulla Scozia, o sull’Irlanda, o su tutt’e tre. Se questa invasione sarà tentata, gli indugi non potranno durare ancora a lungo. Il tempo può rompersi ad ogni istante. Inoltre è difficile per il nemico mantenere questi concentramenti di navi in attesa indefinita, sottoposte come sono ogni notte agli attacchi dei nostri bombardieri, e molto spesso al cannoneggiamento delle nostre navi da guerra, che le attendono fuori al varco. Dobbiamo pertanto considerare la prossima settimana come un periodo particolarmente importante nella nostra storia. E’ paragonabile ai giorni in cui l’Armada Spagnola si avvicinava alla Manica e Drake stava terminando la sua partita a bocce; o ai giorni in cui Nelson si eresse tra noi e la Grande Armata di Napoleone a Boulogne. Abbiamo letto tutti di ciò sui libri di storia; ma quanto avviene ora è di proporzioni di gran lunga maggiori e infinitamente più importante per la vita e l’avvenire del mondo e della sua civiltà, che non in quegli eroici tempi antichi”. Anche negli eroici tempi moderni la novella “Battaglia d’Inghilterra” è vinta dai britannici con il loro capo supremo, Churchill, che riesce, con la sua calma e la sua ferma decisione, ad infondere fiducia alla popolazione ed alle forze armate e principalmente a quel pugno di aviatori, non più di duemila, che con eroismo ed infaticabile perizia, prevalgono sulla Luftwaffe che perde ben 1.733 aerei contro i 915 inglesi. E’ vero che la proporzione si è ridotta da 3 a 1 a 2 a 1 e che la produzione industriale di entrambi i Paesi rimpiazza gli aerei distrutti, ma gli inglesi incominciano a ricevere anche aerei commissionati negli Stati Uniti e piloti dal Canada. Come se non bastasse, il tempo s’è rotto e sono incominciate 165 le piogge e le tempeste per cui, in ottobre, Hitler è costretto ad accantonare l’operazione “Sea Lyon” e a dover accusare la sua prima sconfitta. Churchill, però, ha anche un altro temibilissimo avversario, Mussolini, che con le sue (sulla carta) poderose forze aeree e navali non richieste nella “Battaglia d’Inghilterra”, può procurare veri e propri scatafasci nel Mediterraneo. Gli si accredita, infatti, la possibilità di infliggere un duro colpo alla flotta inglese e all’isola di Malta oltre a tentare l’invasione dell’Egitto e di tutto il Medio Oriente dove gli inglesi hanno poche forze militari a disposizione. Il “mastino” inglese, nonostante la minaccia tedesca sulla Manica, incomincia subito, dal giugno 1940, a tempestare i suoi collaboratori di raccomandazioni per l’amato Mediterraneo e, proprio il 10 luglio quando inizia la Battaglia d’Inghilterra, scrive: “Ritengo opportuno costituire un piccolo Comitato Ministeriale formato dai Ministri: della Guerra (Eden), dell’India (Amery) e delle Colonie (Lloyd), affichè abbiano a consultarsi sulla condotta di guerra nel Medio Oriente, che li riguarda tutt’e tre, e mi consiglino, come Ministro della Difesa, sulle richieste ch’io debba fare al Gabinetto. Favorite scrivere tutto ciò nella debita forma. Il Ministro della Guerra ha accettato di assumere la presidenza del Comitato”. Poi, nonostante la strana inerzia italiana, il 16 agosto 1940 Churchill invia al Ministro della Guerra e al Capo di Stato Maggiore Imperiale le direttive generali per il Comandante Supremo del Medio Oriente (generale Wawell): “Parte I, 1) L’invasione su vasta scala dell’Egitto dalla Libia deve essere attesa ormai ad ogni istante. E’ quindi necessario raccogliere e distribuire le più grandi forze possibili lungo e verso la frontiera occidentale(...) 5) In vista dei crescenti attacchi aerei che si possono prevedere nel Mar Rosso in seguito alla conquista italiana della Somalia Britannica, è importante che la difesa aerea di Aden venga rafforzata. (...) L’esercito egiziano deve essere utilizzato come servizio attivo. (...) I suddetti corpi (inglesi, 166 neozelandesi, australiani, polacchi, indiani) dovranno formare per il 1° ottobre al più tardi, 39 battaglioni insieme con le forze corazzate per un totale cioè di 56.000 uomini e 212 cannoni. Indipendentemente dalle truppe di sicurezza interna(...). Parte III (...) 16)In questo modo l’armata del Nilo attenderà l’invasione italiana. C’è da prevedere che il nemico avanzerà con grandi forze rallentato soltanto, ma aspramente, dalla scarsità d’acqua e di carburante. Disporrà certamente di notevoli forze corazzate per contenere e respingere le nostre più scarse, a meno che queste non vengano migliorate in tempo dal reggimento corazzato proveniente dalla Gran Bretagna. Coprirà, se non potrà distruggerla, Mersa Matruh. Ma se la linea principale del Delta verrà diligentemente fortificata e saldamente tenuta, il nemico sarà costretto a mettere in campo un esercito i cui rifornimenti d’acqua e di petrolio, viveri e munizioni saranno molto difficili. Quando questo esercito fosse seriamente impegnato, l’azione contro le sue linee di comunicazione da Mersa Matruh i bombardamenti dal mare e gli attacchi a Sollum, o anche molto più ad ovest, costituirebbero un colpo mortale per esso...”. In effetti le armate di Mussolini sono già entrate nella Somalia inglese e stanno per conquistarla. Poi entrano nel Kenia e nel Sudan dove occupano Cassala. Infine il 13 settembre 1940 il grosso delle truppe italiane inizia la tanto prevista, e temuta, invasione dell’Egitto. Si fa precedere, come è d’uso in tutti gli eserciti, da un intenso fuoco di artiglieria e poi avanza in questo ordine: in testa i motociclisti in perfetta formazione da un fianco all’altro e dalla prima fila all’ultima, seguono i carri armati leggeri (le scatolette da 1 o 2 tonnellate armate solo di mitragliatrice) e molte file di automezzi. Un colonnello britannico dice: “Lo spettacolo ricordava una parata per qualche genetliaco nella Long Valley di Aldershot”. La superiorità di mezzi e di uomini è tale che gli italiani non hanno molta difficoltà nel conquistare territorio egiziano fino a Sidi Barrani compresa, ma offrono, così compatti come procedono, un generoso 167 bersaglio all’artiglieria inglese che riesce ad uccidere o a ferire 400 uomini, contro perdite di appena quaranta unità. A Dakar, in Africa, un’organizzazione più solida mostra l’esercito della Francia del Maresciallo Petain, capo del nuovo governo di Vichy alleato ai tedeschi, che viene aggredito dai francesi del generale De Gaulle massicciamente appoggiati da navi da guerra inglesi. Churchill quasi si giustifica della sconfitta scrivendo, il 25 settembre, a Roosevelt: “ Mi rammarico assai di aver dovuto troncare l’impresa di Dakar. Vichy ci ha preceduti e ha rianimato la difesa con suoi adepti ed esperti d’artiglieria. Tutti gli elementi amici sono stati immobilizzati e neutralizzati. Parecchie delle nostre navi sono state colpite, e persistendo a voler sbarcare in forze noi ci saremmo addossati un indebito impegno mentre voi conoscete ciò che abbiamo da fronteggiare”. Nel mese di ottobre, quando le truppe di Hitler entrano in Romania, Mussolini, quasi per una rivalsa e una compensazione all’inazione delle sue truppe in Egitto ferme da tempo a Sidi Barrani, ordina l’invasione della Grecia dall’Albania. Immediatamente Churchill, come colto dalle convulsioni, tempesta il Ministro della Guerra Eden (che è in Egitto) scrivendogli: “Sembra di primaria importanza per noi avere il miglior aeroporto possibile e una base per il rifornimento di carburante alle navi nella baia di Suda. Una fortunata difesa di Creta sarebbe di enorme aiuto alla difesa dell’Egitto. Lasciar prendere Creta dagli italiani significherebbe un aggravamento doloroso di tutte le nostre difficoltà nel Mediterraneo. Una tal posta val bene il rischio ed equivale quasi a un’offensiva fortunata in Libia. Per favore, dopo aver esaminato tutto quanto il problema con Wawell e Smuts non esitate a fare proposte di azioni in grande stile a spese di altri settori, e chiedeteci pure tutto l’aiuto di cui abbisognate, compresi aerei e batterie antiaeree. Noi stiamo studiando la maniera di soddisfare le vostre necessità”. 168 Il “mastino” inglese ancora una volta mostra un’efficienza fuor del comune e, riuscito a convincere il governo greco, fa occupare, dopo appena due giorni dall’inizio dell’azione italiana, la baia di Suda che è il miglior porto dell’isola di Creta, poi scrive a Eden: “Adesso la preminenza deve essere data alla situazione greca. Noi ci rendiamo ben conto dell’esiguità delle nostre risorse. Si devono attentamente studiare gli aiuti da dare alla Grecia, altrimenti si rischia di perdere la posizione di favore che abbiamo in Turchia, perché si farebbe vedere che l’Inghilterra non cerca mai di onorare le proprie garanzie. Vi invito a trattenervi al Cairo almeno per un’altra settimana mentre si studiano questi argomenti e noi ci accertiamo che il più possibile sia fatto da ambo le parti. Intanto per il 15 novembre vi arriveranno altri 30.000 uomini, cosa che deve pesare sulla situazione locale in Egitto”. Trascorrono solo pochi giorni e Churchill scrive ancora a Eden: “Vi stiamo mandando rinforzi aerei, che arriveranno, nella maniera esaurientemente spiegata in unito messaggio dei capi di Stato Maggiore. Mandate subito in Grecia una squadriglia di Gladiator e altre due di Blenheim, tre in tutto. Se necessario mandate a Creta un secondo battaglione. Profittate dell’arrivo dei predetti rinforzi aerei per mandare al più presto un’altra squadriglia di Gladiator. I cannoni contraerei destinati agli aeroporti greci dovrebbero arrivare colà prima delle squadriglie”. Il Primo Ministro inglese è un vero vulcano: non sono trascorsi che pochi giorni dall’inizio dell’attacco italiano e già tutto è sotto controllo e tutti i comandi britannici sono continuamente sollecitati e indirizzati all’azione. Non a caso l’Ammiraglio Cunningham, capo della flotta inglese del Mediterraneo, mette in essere un’azione già studiata da tempo: attaccare la flotta italiana nel porto di Taranto. E’ l’11 novembre quando dalla flotta inglese in navigazione partono due ondate di aerosiluranti che riescono ad affondare una corazzata e a metterne altre due fuori combattimento per alcuni mesi al misero costo di soli due aerei abbattuti! Churchill non si lascia sfuggire l’occasione 169 per poter scrivere a Roosevelt in questi termini: “Sono sicuro che sarete compiaciuto di Taranto. Le tre navi da battaglia italiane non colpite hanno lasciato Taranto oggi, il che significa che forse ripiegano a Trieste”. A loro volta i greci, dopo aver subito inizialmente l’avanzata italiana, contrattaccano violentemente, entrano in Albania e conquistano Coritza il 22 novembre, mentre, nemmeno venti giorni dopo, in Egitto gli inglesi attaccano, con carri armati da 15 e 30 tonnellate, gli italiani e fanno diecine di migliaia di prigionieri. E Churchill, dopo tanto (e ingiustificato) timore, si rivolge via radio agli italiani per dire: “Italiani, vi voglio dire la verità. E’ tutto causa di un uomo solo. Un uomo solo, un uomo solo ha schierato il popolo italiano in lotta mortale contro l’Impero Britannico e ha privato l’Italia della simpatia e dell’amicizia degli Stati Uniti d’America. Che egli sia un grand’uomo non lo nego, ma che dopo 18 anni di sfrenato potere egli abbia condotto il vostro Paese all’orlo orrendo della rovina nessuno può negarlo. E’ un solo uomo che, contro la Corona e la Famiglia Reale Italiana, contro il Papa e tutta l’autorità del Vaticano e della Chiesa Cattolica Romana, contro i desideri del popolo italiano, che non era affatto entusiasta di questa guerra, ha portato i depositari ed eredi dell’antica Roma dalla parte dei feroci barbari pagani”. Poi “il mastino” trova anche il tempo per compilare ed inviare, sempre nel dicembre 1940, una lunghissima lettera a Roosevelt: “Mio caro Presidente, 1)Poiché ci avviciniamo alla fine dell’anno, credo che vi aspetterete da me un preventivo sul 1941. Lo faccio con sincerità e fiducia, perché mi sembra che la maggioranza dei cittadini americani abbia testimoniato la convinzione che la sicurezza degli Stati Uniti, l’avvenire delle nostre due democrazie e il tipo di civiltà che esse difendono, siano strettamente legate alla sopravvivenza e all’indipendenza del Commonwealth britannico. Soltanto così possono restare in mani fedeli e amichevoli quei bastioni del potere 170
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| | | Bruno Admin
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| Titolo: Re: I CINQUE DUCI A CONFRONTO saggio di storia comparata Mer Ott 22, 2014 12:14 pm | |
| marittimo dai quali dipende il controllo dell’Atlantico e dell’Indiano. Il controllo del Pacifico da parte della Marina Americana e dell’Atlantico da parte della Marina Inglese è indispensabile alla sicurezza e alle rotte commerciali dei due Paesi, ed è il mezzo più sicuro per impedire che la guerra raggiunga le coste degli Stati Uniti. 2) (...) Ci vogliono tre o quattro anni per convertire a scopi bellici le industrie di una nazione moderna (...) la Germania certamente raggiunse questo punto alla fine del 1939. Noi ci troviamo ora solo a metà strada del secondo anno (...) Negli Stati Uniti sono ora in corso di attuazione immensi programmi di difesa navale, militare e aerea, per completare i quali ci vorranno due anni (...) E’ nostro dovere d’inglesi nell’interesse comune tenere il fronte ed impegnare la potenza nazista finché saranno completati i preparativi degli Stati Uniti (...) 4) La prima metà del 1940 è stato un periodo disastroso per gli Alleati e per l’Europa. Gli ultimi 5 mesi hanno visto invece una forte e forse inaspettata ripresa della Gran Bretagna che combatte da sola, ma con l’inestimabile aiuto in munizioni e cacciatorpediniere che la Grande Repubblica, di cui siete per la terza volta il capo prescelto, ha messo a nostra disposizione. 5) Per il momento il pericolo di un colpo rapido e soverchiante che distrugga la Gran Bretagna si è di molto allontanato. In sua vece abbiamo un pericolo lungo che matura gradatamente, ugualmente mortale. E’ la costante e crescente diminuzione del nostro tonnellaggio (...) 6) Le nostre perdite di naviglio, di cui accludo le cifre relative agli ultimi mesi, hanno raggiunto proporzioni quasi paragonabili a quelle degli anni peggiori dell’altra guerra. Nelle cinque settimane terminate il 3 novembre le perdite hanno raggiunto un totale di 420.000 tonnellate. Noi stimiamo che il tonnellaggio annuale che bisognerebbe importare per mantenere il nostro sforzo al suo massimo livello è di 43 milioni di tonnellate; il tonnellaggio entrato in settembre fu in ragione di 37 milioni di tonnellate annuali, e in ottobre di 38 milioni. Se questa diminuzione dovesse continuare con questo ritmo sarebbe fatale(...). Il 171 nemico controlla tutti i porti lungo le coste settentrionali e occidentali della Francia. Esso disloca in misura crescente i suoi sommergibili, idrovolanti e apparecchi da combattimento in questi porti e nelle isole a largo della costa francese. A noi è negato l’uso dei porti e del territorio dell’Irlanda (...) In realtà abbiamo ora soltanto una rotta di ingresso alle Isole britanniche dove il nemico concentra sempre di più i suoi sforzi (...) 9)Vi è una seconda possibilità di pericolo: il Governo di Vichy (...) con le più gravi conseguenze per le nostre comunicazioni fra l’Atlantico nord e sud, e complicazioni per Dakar e naturalmente poi per il Sud America. 10) Terza sfera di pericolo è l’Estremo Oriente. (...) Si riferisce che i giapponesi stanno preparando 5 buone divisioni per destinarle oltremare come corpo di spedizione. Oggi noi non abbiamo nell’Estremo Oriente forze atte a sostenere questa situazione. 11) Di fronte a questi pericoli noi dobbiamo cercare di usare il 1941 per farci una tale riserva di armi, specialmente di aerei, sia accrescendo la produzione interna a onta dei bombardamenti, sia coi rifornimenti d’oltreoceano. In vista delle difficoltà di questo compito io mi sento autorizzato a prospettarvi le varie maniere in cui gli stati Uniti potrebbero dare aiuto supremo e decisivo a quella che sotto certi aspetti è la causa comune. Bisogna arrestare o limitare le perdite di tonnellaggio. Ciò si può raggiungere accrescendo il numero delle navi mercantili disponibili. O alternative del genere: riaffermazione negli USA della dottrina contro i metodi barbari di guerra con le forze statunitensi, cioè corazzate, incrociatori, caccia e flottiglie aeree di scorta, a proteggere il traffico. (...) In mancanza di tutto ciò, è indispensabile la donazione, il prestito, o la fornitura di un buon numero di navi da guerra americane, soprattutto cacciatorpediniere (...) 13) Per assicurare la vittoria finale si richiederà un aumento di almeno tre milioni di tonnellate nella nostra capacità costruttiva (oggi un milione e un quarto di tonnellate) per naviglio mercantile. Soltanto gli Stati Uniti possono sopperire a questo bisogno (...) 14) Inoltre contiamo sull’energia industriale degli 172 USA per un rinforzo della nostra produzione di aerei da combattimento (...) Attualmente siamo impegnati in un programma che dovrà aumentare la nostra forza fino a raggiungere i 7.000 aerei di prima linea per la primavera del 1942 (...) Ma per conseguire la superiorità schiacciante ci abbisognerà la massima produzione di aerei che l’America sia in grado di mandarci (...) Posso quindi invitarvi, signor Presidente, a prendere in seria considerazione un’immediata ordinazione combinata di altri 2.000 aerei da combattimento al mese? La massima parte dovrebbe essere di bombardieri pesanti perché da quest’arma dipendiamo per abbattere le fondamenta della potenza militare tedesca (...) 15) Senza il vostro continuo aiuto nella fornitura e nelle cessioni di giacenze non potremmo sperare di armare nemmeno 50 divisioni nel 1941.(...) 17) Infine passo alla questione finanziaria (...) In realtà, come ben sapete, le ordinazioni già fatte, compresa la spesa a copertura sostenuta per creare fabbriche di munizioni negli Usa, superano di molte volte il totale delle riserve di cambio che rimangono a disposizione dell’Inghilterra. Si avvicina il momento in cui non saremo in più grado di pagare in contanti il naviglio e le altre forniture(...) 19) Se, come credo, voi siete convinto che la sconfitta della tirannia nazista e fascista sia questione di grande importanza per il popolo degli USA e per l’emisfero occidentale, voi considererete questa lettera non come una richiesta di soccorsi, ma come un’esposizione del programma minimo necessario al conseguimento del nostro fine comune”. Quando, nel maggio 1940, la Germania inizia il suo travolgente attacco in Occidente, anche la figlia primogenita e viziatissima di MUSSOLINI si precipita dal padre per dirgli, agitata ed entusiasta, che l’Italia intera vuole la guerra e prolungare la non belligeranza sarebbe un disonore. E la natura guerrafondaia del Duce sembra prendere il sopravvento al punto da fargli dire a Ciano : “Entro un mese dichiaro la guerra, attaccherò Francia e Inghilterra in aria e in mare”. A nulla serve una nobile lettera che il 16 maggio Churchill 173 invia al dittatore italiano: “Nell’assumere la carica di Primo Ministro e Ministro della Difesa, torno con la memoria ai nostri colloqui di Roma e il desiderio mi coglie di dire una parola di buonavolontà a voi, Capo della Nazione Italiana, attraverso quello che sembra essere un abisso sempre più vasto. E’ troppo tardi per impedire che un fiume di sangue scorra fra il popolo inglese e il popolo italiano? Senza dubbio possiamo infliggerci atroci ferite l’un l’altro e straziarci crudelmente e oscurare il Mediterraneo con la nostra contesa. Se questo è il vostro comando, tale sia; ma dichiaro di non essere mai stato nemico della grandezza italiana e mai neppure segretamente ostile al legislatore italiano. E’ vano predire il corso delle grandi battaglie che ora infuriano in Europa, ma sono certo, quale che sia la sorte del Continente, che l’Inghilterra continuerà fino alla fine, anche se affatto isolata, come già facemmo, e ritengo con qualche fondamento che saremo aiutati in misura crescente dagli Stati Uniti e, anzi, da tutte le Americhe. Vi prego di credere che non uno spirito di debolezza o di paura mi muove a questo solenne appello, di cui rimarrà traccia negli archivi. Dall’evo più lontano, sopra ogn’altro richiamo giunge il grido, onde gli eredi congiunti della civiltà latina e cristiana non abbiano a schierarsi gli uni contro gli altri in una lotta mortale. Porgete ad esso l’orecchio, ve ne supplico con tutto l’onore e il rispetto, prima che l’orrendo segnale sia dato. Non sarà mai dato da noi”. Due giorni dopo Mussolini scrive con non minore nobiltà : “Rispondo al vostro messaggio per dirvi che certo vi rendete conto delle gravi ragioni di carattere storico e contingente che hanno schierato i nostri due Paesi in campi opposti. Senza tornare troppo addietro nel tempo, vi ricorderò l’iniziativa presa dal vostro governo nel 1935 per organizzare a Ginevra sanzioni contro l’Italia, intenta ad assicurarsi un po’ di spazio al sole africano senza portare il minimo danno ai vostri interessi e territori o a quelli altrui. Voglio anche ricordarvi l’autentico stato di servitù in cui l’Italia si trova nel 174 suo mare. Se fu per onorare la vostra firma che il vostro governo dichiarò guerra alla Germania, comprenderete che lo stesso sentimento d’onore e di rispetto per gli impegni assunti col Patto italo-germanico guida la politica attuale e futura dell’Italia di fronte a qualsiasi eventualità”. In quello stesso giorno (18 maggio) le notizie della grande battaglia in corso ad Occidente registrano: Bruxelles caduta, Anversa smantellata, la Francia percorsa da colonne di carri armati tedeschi fino a Soissons. Eppure il generale italiano Soddu non è ancora convinto che quello tedesco sia un vero successo. Inoltre concorrono a non far prendere ancora a Mussolini la decisione fatale di entrare in guerra offerte francesi di concessioni territoriali e una lettera di Roosevelt (27 maggio) che garantisce l’esecuzione delle promesse franco-inglesi all’Italia. Ma il 30 maggio il Duce è definitivamente deciso a favore dei tedeschi, nonostante gli giungano nuovi pressanti offerte francesi e una nuova lettera del Presidente Americano che ammonisce: se l’Italia entrerà in guerra, determinerà automaticamente un aumento degli armamenti statunitensi ed il raddoppio degli aiuti agli Alleati. Solo 9 giorni dopo, mentre i tedeschi sono inarrestabili e avanzano di gran carriera lungo tutta la Francia, il Maresciallo italiano Badoglio dice che la battaglia sarà ancora lunga e dura, ma Mussolini il 10 giugno dichiara la guerra a Francia e Inghilterra. Poi il 18 e 19 s’incontra a Monaco con Hitler per fissare le condizioni di armistizio alla Francia che sono incredibilmente moderate e lasciano ancora in piedi la nazione transalpina con un vasto territorio libero, la sua flotta e le sue colonie. Hitler non ha voluto infierire nella precisa convinzione di poter aggregare i resti della Francia come alleati e di far accettare all’Inghilterra, sconfitta in Francia, buone condizioni di pace che chiudano definitivamente la guerra ad Occidente. Mussolini deve fare buon viso a cattivo gioco e fermare l’esercito che è riuscito ad occupare solo Mentone e non s’è mostrato 175 particolarmente efficiente, così come attesta Starace a Ciano: “L’attacco sulle Alpi ha documentato la totale impreparazione dell’esercito, l’assoluta mancanza di mezzi offensivi e l’insufficienza completa dei comandi. Si sono mandati gli uomini incontro ad un inutile morte due giorni prima dell’armistizio con gli stessi sistemi di vent’anni or sono. Se la guerra in Libia sarà condotta in egual maniera l’avvenire ci riserba molte amarezze”. Per ora, però, tutto sembra procedere bene e dà la sensazione che l’Italia, nonostante la sua impreparazione militare, possa continuare a trarre notevoli vantaggi dalla sua politica. E il re sembra più interessato a contestare a Ciano la concessione dell’alta decorazione del collare dell’Annunciata a Goring, che alla situazione militare. Così come Claretta Petacci, la favorita di Mussolini, continua a tempestare il suo Benito di telefonate amorose, dalla villa principesca che occupa alla Camilluccia, alle quali una sola volta il Duce risponde innervosito: “ Ma come è mai possibile parlare di simili stupidaggini quando tra poche ore potranno essere in gioco le sorti dell’Italia e un solo gesto, una sola parola, potrà significare la gloria, l’avvenire ma anche la fine più ignominiosa?”. Nel frattempo, nei primi di luglio, avviene un primo breve scontro fra la flotta italiana e quella inglese e Mussolini si mostra soddisfatto dei risultati, senza dare soverchia importanza alla segnalazione di gravi incomprensioni tattiche fra marina e aviazione che hanno portato quest’ultima a scambiare per nemiche navi da guerra italiane e a sottoporle a sei ore di bombardamento, fortunatamente senza danni. Eppure i tedeschi l’11 agosto chiedono che aerei italiani intervengano nella grande battaglia che infuria nei cieli d’Inghilterra e mostrano di apprezzare la rapida conquista della Somalia inglese da parte delle truppe italiane. In settembre Mussolini è ancora ottimista, al punto da dichiarare al Consiglio dei Ministri di essere indifferente alla notizia della concessione da parte di Roosevelt a Churchill di ben 50 176 cacciatorpediniere e alla convinzione che la guerra non si concluderà immediatamente. Vuole nuovi successi personali e ordina imperiosamente al generale Graziani di non ritardare oltre, pena l’immediata sostituzione, l’attacco in Egitto, che inizia il 14 settembre e conduce, in soli tre giorni, alla conquista di Sidi Barrani. Indubbiamente l’effetto delle vittorie italo-tedesche, seppure non ancora decisive, si fa sentire nel mondo e conduce il Giappone a firmare l’alleanza militare con l’Asse e la Spagna a dichiararsi pronta ad entrare in guerra se riceverà materiali in misura tale da ricordare l’analoga richiesta italiana dell’anno prima a Hitler. Il 12 ottobre il Duce, che è tornato a sentirsi militarmente possente, è infuriato per l’invasione tedesca della Romania, avvenuta senza che lo si consultasse preventivamente. Allora dice ai suoi collaboratori: “Mi mette sempre di fronte al fatto compiuto. Questa volta lo pago con la stessa moneta: saprà dai giornali che ho occupato la Grecia. Così l’equilibrio verrà ristabilito”. E’ un’azione sconsiderata, perché Mussolini preferisce dare ascolto al generale Visconti Prasca che ritiene sufficienti le 9 divisioni dislocate in Albania, in luogo delle 20 ritenute indispensabili dagli altri generali italiani. E tutto precipita: il 12 novembre gli inglesi mettono fuori uso metà delle corazzate italiane a Taranto e le truppe in Grecia invece di avanzare indietreggiano. Ma Mussolini non è abbattuto, ritiene infatti di poter rimediare e riprendere l’iniziativa, anche se Hitler ha ormai sull’alleato italiano idee chiare, al punto da dire a Ciano, in visita in Germania, di chiedere al Duce se gli consente di tentare di ottenere un’alleanza con la Iugoslavia per aprire un secondo fronte in Grecia. Il dittatore tedesco è commosso fino alle lacrime quando, avvicinatosi a Ciano, gli sussurra: “Da questa Vienna mandai a Mussolini un telegramma per assicurargli che non avrei mai dimenticato il suo aiuto il giorno dell’Anschluss. Lo confermo oggi e sono con ogni mia forza al suo fianco”. Quindi consegna al genero del 177 Duce una busta chiusa per Mussolini che, una volta presane visione, si affretta ad accettare in toto sia per la parte militare che politica. Nemmeno un mese dopo (4 dicembre), nonostante i rinforzi italiani fatti precipitosamente affluire in Albania, Mussolini è angosciato per le dichiarazioni del generale Soddu che dice: “E’ impossibile ogni azione militare. La situazione deve essere risolta mediante un intervento politico”. Al che il Duce convoca Ciano e gli comunica: “Qui non c’è più niente da fare. E’ assurdo e grottesco, ma è così. Bisogna chiedere la tregua tramite Hitler. Ogni uomo compie nella sua vita l’errore fatale. E l’ho compiuto anch’io quando ho prestato fede al generale Visconti Prasca. Ma come non farlo se quest’uomo appariva tanto sicuro di sé medesimo e se tutti gli elementi davano il maggiore affidamento? E’ il materiale umano con cui lavoro che non serve, che non vale”. Invece si tratta di un vergognoso equivoco: Soddu aveva inteso dire che sarebbe stato opportuno un diversivo militare sul fianco greco, quale l’intervento germanico o iugoslavo, ma per vincere definitivamente, non per resistere, perché a questo obiettivo sarebbero bastate solo le forze italiane. Infatti, già il giorno dopo, la situazione appare più tranquilla e Hitler invia a Mussolini 50 aerei da trasporto e una lettera che lo rincuora. Ma il 10 dicembre giunge, improvvisa e del tutto inaspettata, la notizia dell’attacco inglese a Sidi Barrani che produce uno sfacelo: in appena un giorno ben 4 divisioni italiane sono fuori combattimento! Gli inglesi non hanno molti uomini, ma 50 carri armati pesanti 30 tonnellate e 176 pesanti 15 tonnellate oltre a 200 carri armati leggeri, ma anch’essi più pesanti e meglio armati di quelli italiani, che non raggiungono le 3 tonnellate e hanno come bocche da fuoco due mitragliatrici e nessun cannone. Graziani, il comandante in capo italiano in Libia, invia a Roma questo telegramma: “Penso di ritirarmi a Tripoli per tenere almeno alta la bandiera italiana su quel castello essendo stato obbligato da Mussolini a fare la guerra della pulce contro l’elefante”. 178 E’ il trionfo dell’impreparazione e dell’incompetenza, perché se è vero che l’esercito italiano accusa, come d’altra parte già si sapeva, la mancanza di armi adeguate ad una guerra contro un esercito di una grande Potenza, è anche vero che è difficile per chicchessia avanzare nel deserto e, in una sola volta, di ben duemila chilometri. Infatti, già il giorno dopo, gli inglesi arrestano la loro avanzata e Mussolini dice: “Cinque generali prigionieri e uno morto. Questa è la proporzione tra gli italiani che hanno caratteristiche militari e quelli che non le hanno. Nell’avvenire faremo un esercito di professionisti scremandoli tra dieci o dodici milioni di italiani: quelli della valle del Po e in parte dell’Italia centrale. Tutti gli altri fabbricheranno armi per l’aristocrazia guerriera”. Nel frattempo nella caotica Roma di quei giorni, che sembra essere priva di un vero capo, la moglie di Graziani va da Ciano e gli dice: “Con le unghie non si spezzano le corazze”, e chiede un intervento in massa in Libia dell’aviazione tedesca che, sola, potrebbe ancora tramutare in un successo la rotta odierna. Come se non bastasse anche dall’Albania le notizie tornano a tingersi di nero e il Duce prepara un messaggio per Hitler, nel quale chiede un sollecito intervento tedesco in Tracia attraverso la Bulgaria. Ma il generale Marras interviene per chiarire al Duce che, fino a marzo, il Führer non potrà intervenire in Tracia, né le truppe tedesche potranno difendere il porto di Valona dai Greci, perché non potrebbero giungere colà prima di un mese. Ciò che può essere utile, invece, è l’invio, in tempi brevi, in Libia delle due divisioni corazzate germaniche, fornite di veri carri armati, che erano state nei mesi precedenti più volte offerte da Hitler e sdegnosamente rifiutate dal Duce. Il pallido Mussolini di questi giorni caotici annuisce passivamente e si accinge a scrivere in tali termini al collega tedesco. HITLER, dopo il trionfo delle sue modernissime e organizzatissime armate in Francia, che hanno attuato concetti strategici rivoluzionari nella collaborazione carro armato-aereo, è 179 convinto di poter facilmente far accettare all’Inghilterra una sua generosa proposta di pace che, il 19 luglio 1940, dice: “In questa ora sento il dovere dinanzi alla mia coscienza di fare appello ancora una volta alla ragione e al buon senso così della Gran Bretagna come di altri Paesi. Mi ritengo in grado di fare questo appello non essendo un nemico vinto che mendichi favori, ma il vincitore il quale parla in nome della ragione. Non vedo perché questa guerra debba continuare. Il pensiero dei sacrifici ch’essa sottintende mi tormenta (...) Forse il signor Churchill spazzerà via queste mie parole, attribuendole semplicemente a timori e a dubbi sulla vittoria finale. In questo caso avrò liberato la mia coscienza in merito al futuro”. Parallelamente passi diplomatici nazisti vengono mossi attraverso la Svezia, gli Stati Uniti e il Vaticano, ma Churchill mostra tutta la sua incrollabile decisione ed il suo lucido giudizio sulla situazione inglese e mondiale che sembra drammatica. In effetti la Gran Bretagna ha il dominio assoluto del mare e, alle spalle, un impero ricco di risorse in materie prime ed uomini e, principalmente, l’appoggio della più possente nazione industriale del mondo, gli Stati Uniti d’America. Ecco perché, in ottemperanza all’incrollabile volere di Churchill, che è ormai un vero e proprio illuminato dittatore, il Ministro degli Esteri inglese, il 22 luglio 1940, dichiara alla radio: Non cesseremo di batterci se non quando la libertà sia stata assicurata”. Poi il 3 agosto scrive al re di Svezia: “Il primo ottobre 1939 il Governo di Sua Maestà chiarì per esteso la sua posizione verso offerte germaniche di pace in dichiarazioni lungamente meditate al Parlamento. Da allora nuovi crimini vergognosi sono stati commessi dalla Germania nazista contro minori nazioni ai suoi confini. La Norvegia è stata aggredita e saccheggiata; il Belgio e l’Olanda, nonostante tutte le assicurazioni del Governo germanico che la loro neutralità sarebbe stata rispettata, sono stati occupati e soggiogati. Soprattutto in Olanda, azioni di brutalità e tradimento ordite da tempo culminarono nel massacro di Trotterdam, dove molte migliaia di olandesi sono stati uccisi e gran 180 parte della città è stata distrutta. Questi orribili fatti hanno incupito le pagine della storia europea di una macchia indelebile. Il Governo di Sua Maestà vede in essi motivi per restare fedeli ai principi e alle decisioni esposte nell’ottobre 1939. Anzi, la sua intenzione di proseguire la guerra contro la Germania con ogni mezzo in suo potere, finché l’hitlerismo non sia abbattuto e il mondo riscattato dalla maledizione che un malvagio gli ha imposto, è stata rafforzata a tal punto che i suoi membri preferirebbero perire tutti nella rovina comune anziché vacillare o mancare al proprio dovere. Essi però credono fermamente che, con l’aiuto di Dio, non mancheranno loro i mezzi per adempiere al loro dovere. Questo potrà richiedere molto tempo, ma sarà sempre possibile alla Germania chiedere un armistizio, come fece nel 1918, o pubblicare le sue proposte di pace. Prima però che siffatte richieste o proposte possano essere prese in considerazione, sarà necessario che effettive garanzie di fatti, e non parole, vengano fornite dalla Germania, le quali restituiscano a vita libera ed indipendente Cecoslovacchia, Polonia, Norvegia, Danimarca, Olanda, Belgio e soprattutto la Francia, come pure a effettiva sicurezza la Gran Bretagna e l’Impero britannico in una pace generale”. Questa splendida, decisa e sdegnosa risposta rappresenta un duro colpo per Hitler che contava, come Mussolini, su di un’immediata pace. Il dittatore tedesco sa perfettamente le enormi difficoltà di un massiccio sbarco in Inghilterra per riuscire a soggiogarla, e non le nasconde nemmeno a Ciano il 7 luglio a Berlino, dicendogli che lo sbarco è possibile, ma estremamente difficile per la presenza della grande e agguerritissima flotta inglese. Inoltre anche l’aviazione britannica si è, al contrario delle previsioni, mostrata efficientissima nella battaglia di Francia e nei bombardamenti sulla Germania. Fortunatamente per l’Asse gli aerei inglesi disponibili non superano il numero di 1.500, con un’assoluta carenza di piloti. 181 Immediatamente Ciano, a nome di Mussolini, offre 10 divisioni e 30 squadriglie aeree per partecipare all’invasione. Hiltler rifiuta i soldati, ne ha già troppi, ma accetta alcune squadriglie che giungeranno e saranno impiegate più tardi con pessimi risultati e molte perdite. Per l’invasione dell’Inghilterra Hitler riprende in esame un progetto dell’ammiraglio Raeder che pone, come condizione indispensabile, il completo controllo dei porti francesi, belgi e olandesi. Successivamente bisogna aprire uno stretto passaggio nella Manica con campi di mine sui due lati e uno schieramento esterno di sommergibili oltre la protezione di batterie di cannoni pesanti puntati, da Gris-Nez e da Calais, su Dover. Hitler chiama l’operazione “Sea Lion” e dice che si tratta di: “Un’impresa eccezionalmente audace e temeraria. Anche se la via è breve, non si tratta di attraversare un fiume, ma un mare signoreggiato dal nemico. E non si tratta nemmeno di una sola traversata come in Norvegia: non si può sperare in un’azione di sorpresa; un nemico preparato alla difesa e deciso a tutto c’è di fronte e domina la zona di mare in cui dobbiamo muoverci. Per le operazioni di terra occorreranno 40 divisioni. La parte più difficile saranno le scorte e i rifornimenti di materiali. Non possiamo contare su nessun genere di risorse per noi in territorio inglese. Quindi preliminari dell’operazione debbono essere il completo dominio dell’aria, potenti artiglierie nello Stretto di Dover e protezione mediante campi minati. Inoltre la stagione è un fattore importante, perché il tempo nel Mare del Nord e nella Manica durante la seconda metà di settembre è molto cattivo e le nebbie cominciano a metà di ottobre. L’operazione principale dovrà quindi essere ultimata per il 15 settembre, perché dopo questa data la cooperazione fra la Lufwaffe e le armi pesanti diventa quanto mai incerta”. Inoltre, ad aumentare ulteriormente la difficoltà dell’impresa, per il trasporto delle forze d’invasione, occorrono ben 600.000 tonnellate di naviglio, 182 che va sottratto dal milione e duecentomila tonnellate rappresentante la totale disponibilità tedesca in questo settore, indispensabile per l’economia della nazione germanica. Ciò nonostante la Marina requisisce 168 trasporti per un totale di 700mila tonnellate e 1910 barconi, 419 rimorchiatori e motopescherecci oltre a 1.600 motoscafi. Passano le settimane e la battaglia aerea non dà ai tedeschi i risultati sperati per cui, dopo vari rinvii, il 14 settembre l’ammiraglio Raeder dice: “L’attuale situazione aerea non offre le condizioni necessarie all’esecuzione dell’operazione poiché il rischio è ancora troppo grande. Ove l’operazione Sea Lion fallisse, ciò significherebbe un grande aumento di prestigio per l’Inghilterra. La Sea Lion non va però abolita dato che lo stato di angoscia degli inglesi deve essere mantenuto; se l’abolizione venisse conosciuta all’estero, questo rappresenterebbe un grande sollievo per l’Inghilterra”. Così nel silenzio più assoluto l’invasione viene accantonata. E Hitler, fino ad ora trionfante, accusa la sua prima sconfitta, dando indirettamente ragione al coraggio e alla consapevolezza di Churchill. Quando il 5 ottobre Mussolini incontra Hitler è in gran forma per i successi conseguiti in Africa Orientale e in Egitto e quasi rimprovera il collega tedesco per il rinvio dello sbarco in Inghilterra. Poi, quando Hitler dirotta una parte delle sue ingenti armate ad invadere la Romania e ad impadronirsi dei pozzi di petrolio, Mussolini s’infuria e, sfoggiando a Firenze un’uniforme ancor più splendida del solito, comunica al Führer che le truppe italiane marciano in Grecia, dove conquisteranno Atene in quindici giorni. Hitler si mostra perplesso, ma non muove consistenti critiche. Poi, quando appena qualche settimana dopo, la situazione militare italiana precipita, comprende che con Mussolini dovrà ormai comportarsi come un buon padre con un figlio non molto dotato: aiutarlo senza mortificarlo. Il suo sincero affetto per il “collega” dittatore e la gratitudine che ha provato per lui ai tempi dell’annessione dell’Austria glielo impongono. 183 ROOSEVELT, da qualche tempo, si occupa con impegno delle gravi vicende europee, ma non tutti gli hanno dato l’importanza che merita quale Presidente del più industrializzato e ricco paese del globo. Mussolini risponde con arroganza alle sue lettere e Chamberlain lo tratta cortesemente, senza però concedergli spazio nelle trattative con la Germania e l’Italia. Solo Churchill lo coinvolge immediatamente nella difficile situazione inglese e inizia con lui una fitta corrispondenza, grazie alla quale viene stabilito fra USA e Gran Bretagna un cordialissimo rapporto che fa affluire in Europa aiuti fondamentali per resistere allo strapotere di Hitler. Il tono usato dal “mastino” inglese è affettuoso e rispettoso, ma tutt’altro che servile. Anzi, il suo carattere focoso qualche volta lo rende imperioso nella richiesta di aiuti ed interventi americani, come nella lettera del 15 giugno 1940, che rimane un documento di un realismo agghiacciante e che, più d’ogni altro, fa comprendere la lucidità del disegno hitleriano (assolutamente non basato sul bluff) per la conquista del mondo: “Comprendo tutte le difficoltà che incontrate con l’opinione pubblica americana e il Congresso, ma gli avvenimenti procedono a un passo che andrà oltre il controllo dell’opinione pubblica americana quando finalmente sarà maturata. Avete considerato quali offerte Hitler può aver deciso di fare alla Francia? Può dire: ‘Dammi la tua flotta intatta e io ti lascerò l’Alsazia-Lorena’. Oppure: ‘Se non mi dai le tue navi, distruggerò le tue città’. Sono personalmente convinto che l’America alla fine opererà miracoli, ma questo momento è quanto mai critico per la Francia. Una dichiarazione che gli Stati Uniti, se sarà necessario, entreranno in guerra potrebbe salvare la Francia. Diversamente in pochi giorni le resistenza francese potrà essere frantumata e noi resteremo affatto soli. Quantunque l’attuale governo e io personalmente siamo, ora e sempre, disposti a mandare la flotta oltre Atlantico se la resistenza venisse qui infranta, potremmo giungere a un punto in cui gli attuali ministri non avessero più il controllo della situazione e condizioni vantaggiose fossero offerte 184 all’Isola britannica in cambio del suo vassallaggio all’impero hitleriano. Un governo filogermanico verrebbe certamente formato per stipulare la pace, il quale potrebbe avere elementi irresistibili da offrire a una nazione vinta e affamata per una completa sottomissione alla volontà nazista. Il destino della flotta britannica sarebbe decisivo per l’avvenire degli Stati Uniti, perché il giorno che questa andasse a sommarsi alle flotte nipponiche, francesi e italiane, oltre alle grandi risorse dell’industria germanica, una schiacciante superiorità navale sarebbe in mano di Hitler. Naturalmente egli potrebbe usarla con misericordiosa moderazione. Ma potrebbe non essere misericordioso. Questa rivoluzione nel dominio dei mari potrebbe attuarsi con estrema rapidità e certo assai prima che gli Stati Uniti avessero avuto il tempo di prepararvisi. Se noi soccombessimo, potreste avere gli Stati Uniti d’Europa sotto il comando nazista di gran lunga più popolosi, più forti e meglio armati del Nuovo Mondo. So bene, signor Presidente, che il vostro occhio avrà già sondato questi abissi, ma sento di avere il diritto di porre in rilievo in qual modo gli interessi americani siano in palio nella nostra battaglia e in quella della Francia”. A Roosevelt, tutto quanto scrive Churchill in questa lettera, è ormai già estremamente chiaro e dal novembre 1939 ha praticamente revocato l’atto di neutralità con il principio del “Paga e porta via” che, per il dominio del mare, è praticabile solo dall’Inghilterra e dalla Francia. In virtù di esso l’Inghilterra è immediatamente foraggiata di armi e le industrie americane hanno accettato di fornire (con pagamento immediato) 11.000 aeroplani e si accingono ad accettare un’ulteriore commissione per altri 12.000. Ma la Gran Bretagna non ha ormai più soldi alla fine del 1940 e Churchill lo comunica crudamente a Roosevelt nella lunghissima lettera dell’8 dicembre. Il Presidente è in crociera nei Caraibi sulla nave da guerra Tuscalosa quando gli giunge la lettera che lo colpisce profondamente al punto da abbandonare ogni altra occupazione per 185 trovare una rapida soluzione valida. Un’idea brillante gli attraversa il cervello e la rivela nella conferenza stampa del 16 dicembre 1940: “Immaginate che la casa del mio vicino prenda fuoco e che io abbia una bella pompa da giardino a quattro o cinquecento piedi di distanza. Se egli potrà prendere la pompa e attaccarla al suo idrante, io potrei aiutarlo a spegnere il fuoco. Ora io che faccio? Io non gli dico prima di questa operazione: ‘Vicino mio, la mia pompa mi costa 15 dollari; devi pagarmela 15 dollari’. No! Quale transazione si fa? Io non voglio 15 dollari, io rivoglio la mia pompa dopo che l’incendio sia spento. (...) Un numero enorme di americani non dubita un istante che la miglior difesa immediata degli Stati Uniti stia nel buon esito della difesa inglese, e che perciò, a parte il nostro interesse storico ed attuale alla sopravvivenza della democrazia in tutto il mondo, è ugualmente importante da un punto di vista egoista nonché da quello della difesa americana che noi facciamo tutto il possibile per aiutare l’Impero inglese a difendersi. (...) Io cerco di eliminare la sigla del dollaro”. Su questa base nasce la legge “Affitti e Prestiti” che è più importante di una colossale vittoria militare. Churchill la definisce “il gesto più disinteressato della storia di qualunque nazione”. In essa non ci sono clausole per il pagamento, non si tiene nemmeno un estratto conto in dollari o in sterline di quello che viene prestato o affittato. In effetti Roosevelt, ormai più che esplicitamente, considera, e fa considerare dai suoi concittadini, le forze armate inglesi come una “longa manus” di quelle americane! STALIN si mostra fedele all’accordo con Hitler che gli ha permesso di occupare parte della Polonia, gli Stati Baltici e qualche territorio finlandese. Poi, dopo la strepitosa vittoria in Francia delle armate tedesche, il dittatore russo invia ossequiose congratulazioni ad Hitler e gli fornisce grandi quantità di vettovaglie e di materie prime, mentre cerca di rafforzare, in tempi brevissimi, il suo esercito che ha mostrato gravi lacune negli scontri con i finlandesi. 186 L’atteggiamento, però, cambia sensibilmente quando la tenace resistenza inglese fa comprendere che la guerra sarà lunga e dura anche per i tedeschi. Il Ministro degli Esteri Molotov, nel novembre 1940 a Berlino, pretende che la Germania delimiti rigorosamente le zone di sua influenza rispetto a quelle russe e solleva la questione della striscia di territorio lituano occupato dai tedeschi. Hitler gli risponde: “Dopo la conquista dell’Inghilterra, l’Impero britannico sarà liquidato né più né meno di una gigantesca proprietà mondiale in bancarotta dall’estensione di 40 milioni di chilometri quadrati. In questa proprietà in bancarotta la Russia avrà accesso all’oceano sgombro di ghiacci e realmente libero. Sinora una minoranza di 45 milioni di inglesi ha governato 600 milioni di abitanti dell’Impero britannico. Io sto ora per schiacciare questa minoranza. Anche gli Stati Uniti non stanno facendo altro che prelevare da questa proprietà in bancarotta alcune partite particolarmente confacenti ai loro interessi”. 187 | |
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